Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28600 del 08/11/2018

Cassazione civile sez. lav., 08/11/2018, (ud. 12/07/2018, dep. 08/11/2018), n.28600

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

Dott. CINQUE Giglielmo – Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2083-2014 proposto da:

M.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G. CASSIANI

126, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO BATTAGLIA,

rappresentata e difesa dall’avvocato MICHELE GULLO, giusta delega in

atti;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI,

rappresentata e difesa dall’avvocato GRANOZZI GAETANO, giusta delega

in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1790/2012 della CORTE D’APPELLO di REGGIO

CALABRIA, depositata il 24/12/2012 R.G.N. 925/2010;

il P.M. ha depositato conclusioni scritte.

Fatto

RILEVATO CHE:

il Tribunale di Palmi, con sentenza nr. 1681 del 2009, rigettava il ricorso proposto da M.G., avente ad oggetto domanda di risarcimento per danno biologico, derivante da mobbing e demansionamento o, in subordine, da causa di servizio;

la Corte di Appello di Reggio Calabria – investita con gravame da M.G. – dichiarava l’appello improcedibile, in quanto, pur tempestivamente proposto, non era seguito da alcuna notificazione in data anteriore alla prima udienza di comparizione;

ha proposto ricorso per cassazione, illustrato con memoria, M.G., affidato ad un unico motivo;

ha resistito, con controricorso, Poste Italiane SpA;

ha depositato requisitoria scritta il PG con cui ha chiesto il rigetto del ricorso.

Diritto

CONSIDERATO CHE:

con l’unico motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4 – è dedotta violazione dell’art. 435 c.p.c., commi 2 e 3, in relazione agli artt. 149,421 e 291 c.p.c. ed all’art. 111 Cost. (si assume che, diversamente da quanto affermato nella sentenza impugnata, vi fosse in atti la prova della tentata notifica per l’udienza di comparizione – come dimostrato anche dal verbale di udienza del 22.10.2010 – e che, pertanto, alcuna conseguenza poteva essere addebitata);

la Corte territoriale, a fondamento del decisum, ha richiamato la sentenza delle Sezioni Unite nr. 20604 del 2008 (seguita da numerose conformi, tra le quali, nell’ambito della Sezione Lavoro, Cass. nr. 16319 del 2014, ord., con riguardo ad un procedimento di opposizione a decreto ingiuntivo; Cass. nr. 6876 del 2015, con riguardo ad un procedimento di appello; Cass. nr. 17325 del 2016, con riguardo all’opposizione di cui alla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 51; e, in ultimo, Cass. nr. 6159 del 2018 sempre con riferimento ad un giudizio di appello) che, innovando il precedente e prevalente orientamento, ha affermato il principio secondo cui, nel rito del lavoro, l’appello, così come l’opposizione a decreto ingiuntivo, pur tempestivamente proposti nel termine previsto dalla legge, sono improcedibili ove la notificazione del ricorso depositato e del decreto di fissazione dell’udienza non sia avvenuta, non essendo consentito al giudice, alla stregua di un’interpretazione costituzionalmente orientata imposta dal principio della ragionevole durata del processo ex art. 111 Cost., comma 2, assegnare alla parte un termine perentorio per provvedere ad una nuova notifica a norma dell’art. 291 c.p.c.;

tale principio va coordinato con quello per cui la parte appellante che non abbia provveduto a notificare l’atto di appello ed intenda chiedere, all’udienza fissata ex art. 435 c.p.c., di essere rimessa in termini ai sensi dell’art. 153 c.p.c. deve addurre “(un) giustificato impedimento” (Cass. nr. 1175 del 2015; Cass. nr. 14839 del 2018) nonchè con quello ulteriore per cui “in tema di notificazioni degli atti processuali, qualora la notificazione dell’atto, da effettuarsi entro un termine perentorio, non si concluda positivamente per circostanze non imputabili al richiedente, questi ha la facoltà e l’onere – anche alla luce del principio della ragionevole durata del processo, atteso che la richiesta di un provvedimento giudiziale comporterebbe un allungamento dei tempi del giudizio – di richiedere all’ufficiale giudiziario la ripresa del procedimento notificatorio ed, ai fini del rispetto del termine, la conseguente notificazione avrà effetto dalla data iniziale di attivazione del procedimento, semprechè la ripresa del medesimo sia intervenuta entro un termine ragionevolmente contenuto, tenuti presenti i tempi necessari secondo la comune diligenza per conoscere l’esito negativo della notificazione e per assumere le informazioni ulteriori conseguentemente necessarie” (Cass. sez. un. nr. 17352 del 2009; in senso conforme, ex plurimis: Cass. nr. 24641 del 2014; Cass. nr. 20830 del 2013; Cass. nr. 18074 del 2012; Cass. nr. 17864 del 2017);

da ciò discende l’infondatezza del motivo, avendo la parte, nel ricorso in cassazione, dedotto unicamente di aver “tentato” la notifica dell’atto di appello in tempo utile senza nulla allegare in ordine alle ragioni che hanno impedito la stessa, sicchè difetta la condizione di non imputabilità della mancata tempestiva notifica dell’impugnazione;

(solo) nella memoria depositata ai sensi dell’art. 380 bis 1 c.p.c., la ricorrente assume di aver avuto conoscenza del mancato perfezionamento del procedimento notificatorio all’udienza di discussione ex art. 435 c.p.c.;

a prescindere da ogni profilo di tardività della relativa deduzione, il motivo, in radice, difetta anche di specificità, non risultando trascritto il contenuto del verbale relativo all’udienza in oggetto (del 22.10.2010) e va, quindi, complessivamente respinto;

le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo;

ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, nr. 115, art. 13, comma 1 quater va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis citato D.P.R..

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 3.500,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale, il 12 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2018

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