Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2860 del 09/02/2010

Cassazione civile sez. II, 09/02/2010, (ud. 22/01/2010, dep. 09/02/2010), n.2860

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ELEFANTE Antonino – Presidente –

Dott. MENSITIERI Alfredo – Consigliere –

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Consigliere –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

C.C., rappresentato e difeso, in forza di procura

speciale a margine del ricorso, dall’Avv. AMOROSO GAETANO,

elettivamente domiciliato nel suo studio in Roma, via Costantino

Morin, n. 45;

– ricorrente –

contro

S.V., rappresentato e difeso, in forza di procura speciale

a margine del controricorso, dagli Avv. SPAMPINATO ROSARIO e

Giovanni Serges, elettivamente domiciliato presso lo studio di

quest’ultimo in Roma, via Vittorio Veneto, n. 7;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Catania depositata il 16

ottobre 2004;

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 22

gennaio 2010 dal Consigliere relatore Dott. Alberto Giusti;

udito l’Avv. Gaetano Amoroso;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. LECCISI Giampaolo, che ha concluso per il rigetto del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. – Con atto di citazione notificato il 31 ottobre 1996 C.C. convenne in giudizio dinanzi al Tribunale di Catania S.V. e – premesso che con scrittura privata in data (OMISSIS) il convenuto gli aveva ceduto lo studio professionale di fiscalista sito in (OMISSIS), per il corrispettivo di L. 120 milioni, comprendenti per una parte l’arredo dello studio e per l’altra la cessione della clientela stimata in L. 100 milioni – chiese dichiararsi la nullità del contratto per contrarietà a norme imperative e per illiceità dell’oggetto, non potendo la clientela di uno studio professionale formare oggetto di scambio; instò, inoltre, per la conversione parziale della scrittura privata in altro contratto nella parte relativa agli arredi dello studio ed in quella concernente la cessione del contratto di locazione e delle utenze.

Si costituì il convenuto, il quale chiese il rigetto della domanda dell’attore e, in via riconvenzionale, la condanna del medesimo al pagamento in suo favore della residua somma di L. 110 milioni.

Con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 18 gennaio 2002, il Tribunale di Catania dichiarò la nullità del contratto intercorso tra le parti per impossibilità dell’oggetto, rigettò la richiesta di conversione dello stesso, condannò il convenuto alla restituzione, in favore dell’attore, della somma di Euro 36.151,98 e dell’assegno di L. 6 milioni tratto sulla Banca popolare di Novara, rilasciato il (OMISSIS), e respinse la domanda riconvenzionale del convenuto.

2. – La Corte dr appello di Catania, con sentenza in data 16 ottobre 2004, accogliendo l’impugnazione in via principale del S. e rigettando quella in via incidentale del C., ha riformato la decisione di primo grado: per l’effetto, ha respinto la domanda del C. e, in accoglimento della riconvenzionale proposta dal S., ha condannato il C. al pagamento in favore del S. della somma di Euro 25.882,84, oltre interessi, ed alla rifusione delle spese di entrambi i gradi.

La Corte territoriale ha rilevato che con la scrittura in data (OMISSIS) il S. cedette al C., dietro corrispettivo di L. 120 milioni, lo studio professionale nel quale esercitava l’attività di fiscalista, considerato nel suo insieme e cioè nelle componenti materiali ed immateriali, ivi compreso l’avviamento, la cessione del contratto di locazione nonchè la previsione della continuazione della collaborazione con il rag. R..

Premesso che l’oggetto del contratto va individuato nel complesso dei beni finalisticamente organizzati per l’esercizio della specifica attività ed idonei in quanto tali a produrre e a mantenere un determinato livello di reddito, la Corte territoriale non ha condiviso l’affermazione del primo giudice secondo cui la destinazione unitaria dei beni non creerebbe alcuna ulteriore utilità giuridicamente apprezzabile rispetto ai singoli componenti, e ciò perchè la già esistente organizzazione di beni unitariamente considerati e teleologicamente indirizzati all’esercizio di una professionale rappresenta di per se stessa una chiara utilità economica, diversa dalle capacità professionali del titolare.

Secondo la Corte etnea, l’oggetto del contratto esiste, è possibile ed è lecito.

Nè – hanno proseguito i giudici del gravame – è ravvisabile l’illiceità prospettata dal primo giudice, essendo evidente che l’oggetto del contratto non era direttamente la clientela, sebbene un complesso organizzato di beni idonei a produrre reddito, tanto più che il riferimento al fatturato dello studio era stato fatto non in relazione ad un eventuale corrispettivo per la clientela ceduta (che, peraltro, non costituiva oggetto del contratto), sebbene avuto riguardo solo all’entità ed alle modalità di pagamento dell’ultima tranche di prezzo.

3. – Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello il C. ha proposto ricorso, sulla base di tre motivi.

L’intimato ha resistito con controricorso.

In prossimità dell’udienza il ricorrente ha depositato una memoria illustrativa.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Il primo motivo denuncia violazione o falsa applicazione delle norme di cui all’art. 1362 c.c. e ss., e art. 112 c.p.c., e vizio di motivazione.

Il ricorrente contesta l’affermazione secondo cui la cessione della clientela non rientrerebbe nell’oggetto del contratto. La Corte di appello, violando la regola ermeneutica che impone di far leva sul senso letterale e logico del testo negoziale per ricavarne la comune intenzione delle parti, non avrebbe posto in essere alcuna seria attività di indagine diretta realmente ad identificare il programma divisato dalle parti con la conclusione della scrittura privata. Dall’esame del testo contrattuale risulterebbe che la comune intenzione delle parti era quella di operare una cessione dello studio professionale, fino ad allora gestito dal S., come se fosse un’azienda.

Il secondo mezzo censura violazione e falsa applicazione dell’art. 1322 c.c., in relazione agli artt. 1325, 1346 e 1418 c.c., nonchè vizio di motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Con esso il ricorrente si duole che i giudici del gravame abbiano escluso l’invalidità del contratto per impossibilità dell’oggetto e per violazione dell’ordine pubblico, senza considerare che non rientra nell’autonomia dei privati il disporre della clientela di uno studio professionale. La Corte d’appello avrebbe omesso di indicare in cosa consiste il bene avviamento, considerato come elemento dello studio professionale ceduto distinto dalla clientela, pur essendo nella scrittura inter partes precisato che “in virtù della clientela di cui gode lo studio, lo stesso risulta avere un volume di incassi annuo pari a lire 100 milioni circa”, e pur essendo le attrezzature dello studio scarse e di poco valore.

Il ricorrente sostiene che l’attività professionale, per il suo carattere insostituibilmente personale e non preordinato alla produzione di beni e servizi per lo scambio, non può mai dar luogo alla costituzione di un’azienda, suscettibile di alienazione. Poichè nel trasferimento di uno studio professionale non può ravvisarsi un trasferimento di azienda, non è possibile neanche individuarvi la cessione di una qualità intrinseca dell’azienda qual è notoriamente ritenuto l’avviamento. Se l’avviamento è connesso e calcolato in funzione della clientela, lo stesso non è configurabile in caso di cessione di studio professionale per impossibilità dell’oggetto.

Non essendovi azienda, secondo il ricorrente non poteva neppure darsi seguito alla cessione del contratto di locazione ai sensi della L. n. 392 del 1978, art. 36. Tant’è vero che il rag. C. ha stipulato un nuovo contratto di locazione e non è subentrato in quello stipulato dal S..

Per quanto concerne l’ulteriore elemento individuato dalla Corte d’appello nella collaborazione del rag. R., il ricorrente osserva che dalla scrittura privata in contestazione risulta che il R. rimaneva in collaborazione al solo scopo di ricevere l’attestazione di praticantato richiesta dalla legge ai fini dell’iscrizione all’albo professionale: era pertanto lo studio che forniva un’utilità al rag. R., e non viceversa.

2. – I primi due motivi – i quali, data la stretta connessione, possono essere esaminati congiuntamente -sono infondati.

La complessiva censura muove da premesse corrette – il libero professionista non è un imprenditore; lo studio professionale non è di per sè un’azienda – ma perviene a conclusioni non condivisibili.

Occorre ricordare che questa Corte ha da tempo precisato (Sez. 3^, 9 ottobre 1954, n. 3495) che non si può normalmente equiparare ad un’azienda – che è un complesso di beni organizzati per l’esercizio di una impresa produttiva, ove la persona dell’imprenditore ha bensì rilevanza, ma non essenziale – uno studio professionale, nel cui esercizio è elemento di gran lunga preponderante l’attività personale del professionista, onde sull’organizzazione dei beni materiali occorrenti, e anche sui beni immateriali rappresentati dal nome, dall’avviamento, dalla clientela e dal complesso di rapporti suscettibili di continuazione e di sviluppo sovrasta, di regola, in modo assoluto la personalità di chi esercita lo studio, senza la cui capacità, attività e considerazione professionale anche quel complesso di beni sarebbe destinato a rimanere inefficiente e privo di attitudine produttiva.

Questo orientamento è stato ribadito da Cass., Sez. Un., 21 luglio 1967, n. 1889. Gli attrezzi ed apparecchi che dotano lo studio di un libero professionista hanno sempre una funzione secondaria ed accessoria, nel senso che non ne rappresentano l’elemento più importante, e non sono volti alla produzione di beni o di servizi, come nell’azienda, ma esclusivamente a rendere più agevole e proficui, l’opera intellettuale. Nello studio professionale, anche se munito dei beni materiali e strumentali più vari e complessi che la progredita tecnica moderna suggerisce, quello che conta e prevale – e ne caratterizza l’importanza e il valore – è sempre l’opera intellettuale del titolare, il quale agisce, anche nello svolgimento della sua attività, in base ad un incarico fiduciario (intuitu personae) del committente, espletato con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione. Il nome, la capacità del professionista e la fiducia che egli ispira costituiscono quindi i fattori che sogliono indirizzare la clientela, la quale è in funzione (principale se non esclusiva) delle doti personali d’ingegno, perizia, serietà e considerazione delle quali gode il professionista, e non dei beni materiali e strumentali che ne arredano lo studio.

Benchè la linea discretiva tra studio professionale ed azienda sia netta e trovi un radicamento nell’art. 2238 c.c., (ai cui sensi il professionista intellettuale diventa imprenditore solo in quanto svolga un’ulteriore attività, diversa da quella intellettuale e definibile, in sè considerata, come attività d’impresa : ulteriore attività rispetto alla quale l’esercizio della professione si ponga quale semplice elemento), e quantunque nelle professioni liberali la clientela, fondata com’è sulla fiducia personale, non abbia modo di collegarsi ad un substrato oggettivo, non v’è dubbio che gli studi professionali presentino molte analogie con l’azienda e che, nella prassi, questa vicinanza tenda ad accentuarsi. Accanto al permanere dei tradizionali principi della fiduciarietà del rapporto e della personalità della prestazione, si assiste infatti ad un superamento della considerazione dell’opera intellettuale come irrelata dal momento organizzativo, tenuto conto – come è stato osservato in dottrina – delle nuove tendenze verso la commercializzazione, la specializzazione e la socializzazione.

Questa evoluzione è assecondata dal formante normativo: con l’abrogazione, da parte della L. 7 agosto 1997, n. 266, art. 24, (Interventi urgenti per l’economia), della L. 23 novembre 1939, n. 1815, art. 2, in tema di disciplina giuridica degli studi di assistenza e consulenza; con l’introduzione, ad opera del D.Lgs. 2 febbraio 2001, n. 96, art. 16 e ss., recante attuazione della direttiva 98/5/CE, della possibilità di esercitare la professione di avvocato in forma societaria; con il venir meno – per effetto del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 2, (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonchè interventi urgenti in materia di entrate e di contrasto dell’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla L. 4 agosto 2006, n. 248 – del divieto di fornire all’utenza servizi professionali di tipo interdisciplinare da parte di società di professionisti.

Di tali tendenze è testimone la giurisprudenza di questa Corte (Sez. 2^, 7 agosto 2002, n. 11896; Sez. 5^, 3 maggio 2007, n. 10178), quando precisa che anche gli studi professionali possono essere organizzati in forma di azienda, ogni qualvolta al profilo personale dell’attività svolta si affianchino un’organizzazione di mezzi e strutture, un numero di titolari e dipendenti ed un’ampiezza di locali adibiti all’attività, tali che il fattore organizzativo e l’entità dei mezzi impiegati sovrastino l’attività professionale del titolare, o quanto meno si pongano, rispetto ad essa, come entità giuridica dotata di una propria rilevanza strutturale e funzionale che, seppure non separata dall’attività del titolare, assuma una rilevanza economica.

Peraltro, anche nelle ipotesi in cui non è configurabile una prevalenza del momento organizzativo e la persona del professionista rimane predominante, è da ritenere validamente stipulato, in base al principio di autonomia negoziale, il contratto avente ad oggetto il trasferimento, verso corrispettivo, dello studio professionale ad altro soggetto, intenzionato a proseguire l’attività avvalendosi del complesso dei beni, materiali ed immateriali, appartenenti al proprio dante causa.

In tal caso si verifica un vero e proprio trasferimento dell’attività: accanto agli arredi, al complesso dei beni strumentali e dei rapporti contrattuali di fornitura, l’alienante “cede” per via indiretta, al professionista che subentra, la clientela, nel senso che assume a tal fine obblighi positivi di fare (mediante un’attività promozionale di presentazione e di canalizzazione) e negativi di non fare (quale il divieto di riprendere ad esercitare la stessa attività nello stesso luogo), volti a consentire al successore che ne abbia le qualità di mantenere la clientela del suo predecessore, previo conferimento di un nuovo incarico.

In tale direzione non mancano precedenti di questa Corte. Si è infatti precisato (Sez. 3^, 8 febbraio 1974, n. 370) che il contratto di cessione – vendita di uno studio professionale nell’insieme degli elementi che lo costituiscono e pure in relazione alla clientela che ad esso faccia capo, mediante il versamento di una somma, è valido e lecito in base al principio dell’autonomia contrattuale, che consente alle parti di concludere anche contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare, purchè siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico; e si è ulteriormente rilevato (Sez. 3^, 12 novembre 1979, n. 5848) che, sebbene non sia possibile in senso tecnico – giuridico il trasferimento della clientela, è giuridicamente configurabile la cessione di uno studio professionale insieme con il suo avviamento, consistente in una qualità di detto studio, il quale viene cosi trasferito, quale complesso di elementi organizzati per l’esercizio dell’attività professionale, munito dell’attributo essenziale e necessario costituito dall’avviamento.

La validità della cessione dello studio professionale trova una indiretta conferma nel dato normativo.

Innanzitutto, nell’art. 2238 c.c., comma 2, che consente l’applicazione, al trasferimento di uno studio professionale, dell’art. 2112 c.c., in tema di mantenimento dei diritti dei lavoratori: in forza del rinvio contenuto nel citato art. 2238 c.c., comma 2, la disposizione che prevede la continuazione del rapporto di lavoro con il cessionario e la conservazione in capo al lavoratore di tutti i diritti che ne derivano si applica non solo in caso di trasferimento di azienda, ma anche nell’ipotesi in cui venga ceduto uno studio di un professionista che – pur non essendo imprenditore, e pur essendo titolare di uno studio professionale che non è qualificabile come azienda – impieghi sostituti ed ausiliari (cfr. Cass., Sez. 2^, 16 novembre 1968, n. 3757; Cass., Sez. lav., 15 luglio 1987, n. 6208 ; Cass., Sez. lav., 23 giugno 2006, n. 14642).

In secondo luogo, nel citato D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 36, comma 29, il quale, nell’inserire il Testo Unico delle imposte sui redditi, di cui al D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 54, comma 1 quater, prevede espressamente che “concorrono a formare il reddito (di lavoro autonomo) i corrispettivi percepiti a seguito di cessione della clientela o di elementi immateriali comunque riferibili all’attività artistica o professionale�.

Deve pertanto conclusivamente affermarsi il seguente principio di diritto: “E’ lecitamente e validamente stipulato il contratto di trasferimento a titolo oneroso di uno studio professionale, comprensivo non solo di elementi materiali e degli arredi, ma anche della clientela, essendo configurabile, con riferimento a quest’ultima, non una cessione in senso tecnico (attesi il carattere personale e fiduciario del rapporto tra prestatore d’opera intellettuale e cliente e la necessità, quindi, del conferimento di un nuovo incarico dal cliente al cessionario), ma un complessivo impegno del cedente volto a favorire – attraverso l’assunzione di obblighi positivi di fare (mediante un’attività promozionale di presentazione e di canalizzazione) e negativi di non fare (quale il divieto di riprendere ad esercitare la medesima attività nello stesso luogo) – la prosecuzione del rapporto professionale tra i vecchi clienti ed il soggetto subentrante�.

A questo principio si è attenuta la Corte territoriale, dopo avere accertato, con congruo e logico apprezzamento dei dati documentali, che, con la scrittura privata in data (OMISSIS), il S. – titolare di uno studio di fiscalista con un volume d’incasso annuo di L. 100.000.000 circa – ha trasferito al rag. C., per il complessivo prezzo di L. 120.000.000 da corrispondersi ratealmente, detto studio, con l’arredamento completo analiticamente inventariato e con tutto quanto esisteva in esso per l’esercizio della medesima attività espletata dal cedente, prevedendosi non solo la continuazione della prestazione della collaborazione da parte del rag. R., ma anche l’obbligo del S. di ottenere dal proprietario l’intestazione del contratto di locazione direttamente in capo al cessionario e, in caso di “decremento della fatturazione dello studio”, la diminuzione del prezzo “nella misura proporzionale al decremento registrato”.

3. – Con il terzo motivo si denuncia “violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., nonchè vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5)”. Il ricorrente lamenta che l’integrale accoglimento, senza alcuna motivazione e valutazione, delle domande formulate dal S. abbia portato ad una sostanziale duplicazione di titoli per il credito dallo stesso vantato. Sarebbero ingiustificate la condanna al pagamento della somma di Euro 25.882,84, quando il S. già aveva ottenuto un decreto ingiuntivo per L. 44.057.000 il cui giudizio di opposizione era stato sospeso in attesa degli esiti della pronuncia della Corte d’appello, nonchè l’assegno di L. 6 milioni, azionato dal S. con una procedura esecutiva immobiliare.

4. – La censura non può essere accolta.

Non sussiste il vizio di extrapetizione, giacchè risulta dagli atti che il S., costituendosi in giudizio in primo grado, ha proposto domanda riconvenzionale per il pagamento del residuo prezzo, e che tale pretesa creditoria, per l’importo di Euro 25.822,84, è stata ribadita tra i motivi di gravame.

Sono inammissibili tanto la deduzione del vizio di violazione dell’art. 115 c.p.c., quanto la prospettazione del vizio di motivazione, perchè con esse il ricorrente si limita a rinviare a produzioni documentali effettuate nei gradi di merito, senza neppure fornire elementi sufficienti, idonei ad indicare le ragioni del loro carattere decisivo, non constando, dalla sola lettura del ricorso, l’identità tra i titoli creditori azionati in via monitoria o con la procedura esecutiva immobiliare e quelli fatti valere con la domanda riconvenzionale.

5. – Il ricorso è rigettato.

Sussistono giustificati motivi, data la natura e la complessità delle questioni trattate, per l’integrale compensazione tra le parti delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e dichiara, compensate tra le parti le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 22 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 9 febbraio 2010

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