Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28599 del 08/11/2018

Cassazione civile sez. lav., 08/11/2018, (ud. 06/07/2018, dep. 08/11/2018), n.28599

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amalia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annnalisa – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3057-2015 proposto da:

D.C., + ALTRI OMESSI, elettivamente domiciliati in ROMA,

VIALE TRASTEVERE 244, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO

FASSARI, che li rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrenti –

e contro

MINISTERO ISTRUZIONE UNIVERSITA’ RICERCA, C.F. (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 6195/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 22/02/2014, R.G.N. 3221/2011.

Fatto

RILEVATO

1. che con sentenza n. 6195 depositata il 22.2.14, la Corte d’appello di Roma ha respinto l’impugnazione proposta dai lavoratori, tutti appartenenti alla 9 qualifica funzionale, Area C, posizione economica C3 di cui ai ruoli del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, confermando la sentenza di primo grado di rigetto della domanda intesa ad ottenere l’equiparazione stipendiale al personale del soppresso ruolo generale ad esaurimento di ispettore generale o di direttore di divisione, con pagamento delle maturate differenze retributive;

2. che avverso tale sentenza i lavoratori hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi;

3. che il Ministero non si è costituito.

Diritto

CONSIDERATO

4. che col primo motivo di ricorso, i lavoratori hanno censurato la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 45, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3;

5. che col secondo motivo i ricorrenti hanno dedotto omessa motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 nonchè violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 2,45 e 71; degli artt. 13 e 39 c.c.n.l. 1998-2001 in relazione all’intervenuta abrogazione del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 25 nonchè del D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 43;

6. che col terzo motivo i ricorrenti hanno dedotto violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2,comma 2 e art. 45; negazione dell’imperatività delle disposizioni di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001 e della soggezione del c.c.n.l. a tali disposizioni;

7. che col quarto motivo hanno dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, violazione e falsa applicazione dell’art. 45, comma 2, nella parte in cui statuisce il principio di parità di trattamento contrattuale accanto (e non sussidiariamente) a quello di divieto di riforma in peius del c.c.n.l.;

8. che col quinto motivo hanno censurato la sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 43 laddove abroga del D.Lgs. n. 29 del 1993, l’art. 72;

9. che le questioni oggetto del presente ricorso hanno già costituito oggetto di esame da parte di questa Corte che, con numerose sentenze (4334/2018, 19275/2017, 19041/2017, 18300/2017, 17920/2017, 8714/2017, 7350/2017, 24979/2016, 18714/2016, 18578/2016, 13051/2016, 25396/2015, 18096/2015, 9313/2011, 11982/2010), ha affermato i seguenti principi:

10. che in materia di pubblico impiego privatizzato, il principio espresso dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 45secondo il quale le amministrazioni pubbliche garantiscono ai propri dipendenti con parità di trattamento contrattuale, opera nell’ambito del sistema di inquadramento previsto dalla contrattazione collettiva e vieta trattamenti migliorativi o peggiorativi a titolo individuale, ma non costituisce parametro per giudicare le differenziazioni operate in quella sede, in quanto la disparità trova titolo non in scelte datoriali unilaterali lesive, come tali, della dignità del lavoratore, ma in pattuizioni dell’autonomia negoziale delle parti collettive, le quali operano su un piano tendenzialmente paritario e sufficientemente istituzionalizzato, di regola sufficiente, salva l’applicazione di divieti legali, a tutelare il lavoratore in relazione alle specificità delle situazioni concrete;

11. che la distinzione in termini stipendiali fra il personale appartenente al ruolo ad esaurimento e gli altri dipendenti della ex 9 qualifica funzionale, tutti ormai inseriti nell’area contrattuale “C” dai c.c.n.l., lungi dal determinare una violazione di legge da parte della contrattazione collettiva, costituisce, anzi, attuazione della norma transitoria contenuta nello stesso D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 69, comma 3, in virtù della quale i dipendenti delle qualifiche ad esaurimento di cui al D.P.R. 30 giugno 1972, n. 748, artt. 60 e 61 (e successive modificazioni ed integrazioni) e quelli di cui alla L. 9 marzo 1989, n. 88, art. 15, in presenza della soppressione dei ruoli, conservano le qualifiche medesime “ad personam”: ciò significa che tali qualifiche costituiscono una consapevole eccezione legislativa rispetto all’assetto ordinario, eccezione prevista dallo stesso testo (il D.Lgs. n. 165 del 2001) cui appartiene la norma (art. 45) che si assume essere stata violata o falsamente applicata;

12. che l’interpretazione sistematica impedisce l’invocata estensione del trattamento stipendiale corrispondente a tali qualifiche sopravvissute “ad personam”, pena lo svuotamento dello stesso portato precettivo della summenzionata previsione transitoria, in un capovolgimento del normale rapporto tra norme transitorie e disposizioni a regime che comporterebbe un sostanziale (e inedito) allineamento (in termini di conseguenze sul piano retributivo) delle seconde alle prime;

13. che il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 45 cpv. non vieta ogni trattamento differenziato nei confronti delle singole categorie di lavoratori, ma solo quelli contrastanti con specifiche previsioni normative, restando escluse dal sindacato del giudice le scelte compiute in sede di contrattazione collettiva;

14. che il principio di parità di trattamento nell’ambito dei rapporti di lavoro pubblico, sancito dal cit. art. 45, vieta trattamenti individuali migliorativi o peggiorativi rispetto a quelli previsti dal contratto collettivo, ma non costituisce parametro per giudicare delle eventuali differenziazioni operate in quella sede;

15. che non sarebbe ipotizzabile nel caso di specie un contrasto della pattuizione collettiva con il principio di non discriminazione, inidoneo a vietare ogni trattamento differenziato nei confronti delle singole categorie di lavoratori, rilevando sotto tale profilo solo le specifiche previsioni normative contenute nell’ordinamento (Cass.10105/2013);

16. che il principio di parità nasce storicamente non solo e non tanto dall’esigenza di recuperare uguaglianza o, meglio, esatta giustizia distributiva, quanto dalla necessità di regolare l’uso di un potere privato all’interno d’una comunità organizzata; questo bisogno si manifesta – cioè – per colmare il vuoto di “contraddittorio” ove manchi istituzionalmente la possibilità che il soggetto in posizione subalterna faccia valere le proprie ragioni contro le scelte discrezionali del soggetto in posizione preminente; ciò non si verifica rispetto alla contrattazione collettiva, in cui le parti operano su un piano tendenzialmente paritario e sufficientemente istituzionalizzato;

17. che non è ravvisabile nella complessiva disciplina, legale e convenzionale, che viene in esame la violazione di disposizioni comunitarie e, segnatamente, della direttiva comunitaria 2000/78 CE, nonchè dei principi di cui alla sentenza causa n. 577/08;

18. che ai principi innanzi richiamati, il Collegio intende dare continuità, non rinvenendosi nelle prospettazioni difensive sviluppate nel ricorso elementi che giustifichino l’esonero di questa Corte dal dovere di fedeltà ai propri precedenti, sul quale si fonda, per larga parte, l’assolvimento della funzione (assegnatale dall’art. 65 dell’ordinamento giudiziario di cui al R.D. 30 gennaio 1941, n. 12 e succ. modificazioni, ma di rilevanza costituzionale, essendo anche strumentale al suo espletamento il principio, sancito dall’art. 111 Cost., dell’indeclinabilità del controllo di legittimità delle sentenze) di assicurare l’esatta osservanza, l’uniforme interpretazione della legge e l’unità del diritto oggettivo nazionale;

19. che sulla scorta delle considerazioni svolte il ricorso va rigettato;

20. che l’infondatezza del ricorso rende superflua la rinnovazione della notifica dello stesso all’intimata nei cui confronti essa non si è perfezionata;

21. che come già statuito da questa Corte (cfr. Cass. n. 8604 del 2017; Cass. n. 15106 del 13; Cass. n. 6826 del 2010; Cass. n. 2723 del 2010; Cass. n. 18410 del 2009), il rispetto del diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo impone al giudice (ai sensi degli artt. 175 e 127 c.p.c.) di evitare comportamenti che siano di ostacolo ad una sollecita definizione dello stesso, tra i quali rientrano quelli che si traducono in un inutile dispendio di attività processuali e formalità superflue perchè non giustificate dalla struttura dialettica del processo e, in particolare, dal rispetto effettivo del principio del contraddittorio e delle garanzie di difesa e dal diritto a partecipare al processo in condizioni di parità;

23. che in base a tali premesse, una volta acclarata l’infondatezza del ricorso in oggetto alla stregua delle considerazioni sopra svolte, sarebbe comunque vano disporre la fissazione di un termine per la rinnovazione di una notifica nulla o inesistente, atteso che la concessione di esso si tradurrebbe, oltre che in un aggravio di spese, in un allungamento dei tempi di definizione del giudizio di cassazione senza comportare alcun beneficio in termini di garanzia dell’effettività dei diritti processuali delle parti;

24. che conseguentemente nulla va disposto in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.

25. che, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 6 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2018

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