Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28598 del 20/12/2013


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Civile Ord. Sez. 6 Num. 28598 Anno 2013
Presidente: LA TERZA MAURA
Relatore: BLASUTTO DANIELA

ORDINANZA
sul ricorso 17235-2011 proposto da:
POSTE ITALIANE SPA 97103880585 in persona del Presidente del
Consiglio di Amministrazione e legale rappresentante pro-tempore,
elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PO 25/B, presso lo studio
dell’avvocato ROBERTO PESSI, che la rappresenta e difende, giusta
procura a margine del ricorso;
– ricorrente contro
DI CLEMENTE ARTURO DCLRTR75H22L103V, elettivamente
domiciliato in ROMA, VIA FLAMINIA 195, presso lo studio
dell’avvocato VACIRCA SERGIO, che lo rappresenta e difende
unitamente all’avvocato LALLI CLAUDIO, giusta delega a margine
del controricorso;
– controricorrente –

Data pubblicazione: 20/12/2013

avverso la sentenza n. 880/2010 della CORTE D’APPELLO di
L’AQUILA del 17.6.2010, depositata il 29/06/2010;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
17/10/2013 dal Consigliere Relatore Dott. DANIELA BLASUTTO.
E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott. MARIO

FATTO E DIRITTO
La prima questione posta col ricorso principale (primo motivo) delle
Poste Italiane, notificato in data 23-29 giugno 2011 (cui l’intimato si è
opposto con controricorso), avverso la sentenza definitiva del 29
giugno 2010 della Corte d’appello di L’Aquila, è se il contratto a tempo
determinato stipulato dal 6 febbraio al 31 maggio 2001 con Arturo Di
Clemente, ai sensi dell’art. 25 del C.C.N.L. 11 gennaio 2001 “per
esigenze di carattere straordinario conseguenti a processi di
riorganizzazione…” e dichiarato nullo dalla sentenza, con conseguente
conversione del rapporto a tempo determinato e con la condanna della
società al risarcimento dei danni dalla data di offerta della prestazione,
individuata in quella della notifica della richiesta di tentativo
obbligatorio di conciliazione, sia da ritenere risolto per mutuo
consenso, come sostenuto dalla difesa della società, ma escluso dalla
Corte territoriale.
In data 25 settembre 2012 è stata depositata relazione ex art. 380 bis
c.p.c.. La soc. Poste Italiane ha depositato memoria.
Il Collegio, condividendo la relazione, ritiene sussistenti i presupposti
per la definizione in camera di consiglio.
Col primo motivo, la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 1372,
commi 10 e 2° c.c. nonché il vizio di motivazione della sentenza
impugnata per avere la Corte territoriale erroneamente respinto la

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FRESA.

deduzione della società di intervenuta cessazione del rapporto per
tacito mutuo consenso.
Il motivo è infondato.
In proposito, richiamati i principi ripetutamente ed esaustivamente
affermati da questa Corte, secondo cui: a) in via di principio è

ipotizzabile una risoluzione del rapporto di lavoro per fatti concludenti
(cfr., ad es., Cass. 6 luglio 2007 n. 15264, 7 maggio 2009 n. 10526); b)
l’onere di provare circostanze significative al riguardo grava sul datore
di lavoro che deduce la risoluzione per mutuo consenso (cfr. ad es.
Cass. 2 dicembre 2002 n. 17070 e 2 dicembre 2000 n. 15403); c) la
relativa valutazione da parte del giudice costituisce giudizio di merito;
d) la mera inerzia del lavoratore nel contestare la clausola appositiva
del termine, in difetto di altri significativi elementi, non è sufficiente a
far ritenere intervenuta la risoluzione per mutuo consenso; deve
ritenersi corretta la valutazione della Corte di merito che ha ritenuto
insussistente la dedotta risoluzione del rapporto con giudizio ispirato a
valutazioni di tipicità sociale.
Secondo la soc. Poste Italiane elementi presuntivi rilevanti ai fini del
giudizio circa il comportamento tacito concludente avrebbero dovuto
desumersi anche dalla prestazione di attività lavorativa presso terzi,
circostanza a sua volta comprovata dalla disposta detrazione dell’ aliunde

percotum dal risarcimento del danno.
La censura è palesemente inammissibile, essendo il periodo
interessato dall’ aliunde peraptum successivo al primo atto di messa in
mora e dunque irrilevante ai fini della valutazione della risoluzione
consensuale ex art. 1372 c.c..
Col secondo e col terzo motivo, la difesa della società deduce la
violazione dell’art. 2697 c.c. 421 e 437 c.p.c., la violazione degli artt.
115 e 116 c.p.c. nonché il vizio di motivazione per avere la Corte
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territoriale erroneamente ritenuto che l’onere di provare l’osservanza
della clausola di contingentamento gravi sul datore di lavoro
convenuto in giudizio, per avere comunque erroneamente valutato la
documentazione al riguardo prodotta dalla società e per non avere, in
ogni caso, attivato i propri poteri istruttori.

questa Corte, la determinazione da parte della contrattazione collettiva,
in conformità di quanto previsto dall’art. 23 della legge n. 56 del 1987,
della percentuale massima di contratti a termine rispetto a quelli di
lavoro a tempo indeterminato nella azienda, è stabilita per la validità
della clausola apposifiva del termine per le causali individuate dalla
medesima contrattazione collettiva (cfr. ad es., implicitamente, Cass. 24
novembre 2011 n. 22009 o 3 marzo 2006 n. 4677).
E’ inoltre ormai generalizzato l’orientamento interpretativo di questa
Corte, secondo cui l’onere di dedurre e provare il rispetto di tale
percentuale, grava sul datore di lavoro (cfr. ad es. Cass. 21 giugno 2011
n. 14283 o 19 gennaio 2010 n. 839).
L’ultima delle sentenze citate ha inoltre condivisibilmente affermato
che, essendo la facoltà delle organizzazioni sindacali di individuare
ulteriori ipotesi di legittima apposizione del termine al contratto di
lavoro subordinata dall’art. 23 della legge n. 56 del 1987 alla
determinazione delle percentuali di lavoratori che possono essere
assunti con contratto a termine sul totale dei dipendenti, non è
sufficiente da parte della società in giudizio l’indicazione e la prova del
numero massimo di contratti a termine stipulati, occorrendo altresì, a
garanzia di trasparenza ed a pena di invalidità dell’apposizione del
termine, l’indicazione del numero dei lavoratori assunti a tempo
indeterminato, sì da potersi verificare il rapporto percentuale tra
lavoratori stabili e quelli a termine.
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In proposito, si ricorda che, secondo la condivisa giurisprudenza di

Alla luce di tali principi deve ritenersi corretta la decisione della
Corte territoriale che ha ritenuto non provata l’osservanza della
percentuale a fronte della produzione da parte della società di un
semplice prospetto che, a quanto indicato dalla stessa ricorrente,
indicava unicamente il numero e la distribuzione temporale del

temporale.
Infine, quanto alla censura relativa alla mancata attivazione dei
poteri di ufficio in materia di prova da parte dei giudici, si rileva che la
società non specifica se in proposito abbia, invocando tale esercizio,
indicato specificatamente l’oggetto possibile di tali poteri istruttori.
Col quarto motivo, vengono investite le conseguenze risarcitorie
tratte dalla Corte territoriale dalla ritenuta conversione del contratto a
tempo indeterminato e col quinto viene comunque invocata al riguardo
l’applicazione dello

ius superveniens

con efficacia retroattiva,

rappresentato dall’art. 32 commi 5-7 della legge n. 183 del 2010.
Il quinto motivo di ricorso è meritevole di accoglimento, restando
assorbito l’esame del quarto.
La società ricorrente invoca l’applicazione dello ius superveniens,
rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7
i quali dispongono che:
“5. Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il
giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore
stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra
uni minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima
retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L.
15 luglio 1966, n. 604, art. 8.
6. In presenza di contratti ovvero accordi collettivi nazionali,
territoriali o aziendali, stipulati con le organizzazioni sindacali
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personale assunto a tempo determinato in un determinato arco

comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che
prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già
occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie,
il limite massimo dell’indennità fissata dal comma 5 è ridotto alla metà.
7. Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 trovano applicazione per tutti i

presente legge. Con riferimento a tali ultimi giudizi, ove necessario, ai
soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il
giudice fissa alle parti un termine per l’eventuale integrazione della
domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi
dell’art. 421c.p.c.”.
Tale disciplina, applicabile a tutti i giudizi pendenti, anche in grado di
legittimità (v. già Cass. Ord. 28-1-2011 n. 2112), alla luce della sentenza
interpretativa di rigetto della Corte Costituzionale n. 303 del 2011, è
fondata sulla ratio legis diretta ad “introdurre un criterio di liquidazione
del danno di più agevole, certa ed omogenea applicazione”, rispetto
alle “obiettive incertezze verificatesi nell’esperienza applicativa dei
criteri di commisurazione del danno secondo la legislazione
previgente”. La norma, che “non si limita a forfetizzare il risarcimento
del danno dovuto al lavoratore illegittimamente assunto a termine, ma,
innanzitutto, assicura a quest’ultimo l’instaurazione di un rapporto di
lavoro a tempo indeterminato”, in base ad una “interpretazione
costituzionalmente orientata” va intesa nel senso che “il danno
forfetizzato dall’indennità in esame copre soltanto il periodo
cosiddetto “intermedio”, quello, cioè, che corre dalla scadenza del
termine fino alla sentenza che accerta la nullità di esso e dichiara la
conversione del rapporto”, con la conseguenza che a partire da tale
sentenza “è da ritenere che il datore di lavoro sia indefettibilmente
obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in
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giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della

ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata
riammissione effettiva” (altrimenti risultando “completamente
svuotata” la “tutela fondamentale della conversione del rapporto in
lavoro a tempo indeterminato”). Nel contempo, sempre alla luce della
citata pronuncia della Corte Costituzionale, “il nuovo regime

l’indennità onnicomprensiva assume una chiara valenza sanzionatoria.
Essa è dovuta in ogni caso, al limite anche in mancanza di danno, per il
avere il lavoratore prontamente reperito un’altra occupazione”.
Peraltro, “la garanzia economica in questione non è ne’ rigida, ne’
uniforme” e, “anche attraverso il ricorso ai criteri indicati dalla L. n.
604 del 1966, art. 8 consente di calibrare l’importo dell’indennità da
liquidare in relazione alle peculiarità delle singole vicende, come la
durata del contratto a tempo determinato (evocata dal criterio
dell’anzianità lavorativa), la gravità della violazione e la tempestività
della reazione del lavoratore (sussumibili sotto l’indicatore del
comportamento delle parti), lo sfruttamento di occasioni di lavoro (e di
guadagno) altrimenti inattingibili in caso di prosecuzione del rapporto
(riconducibile al parametro delle condizioni delle parti), nonché le
stesse dimensioni dell’impresa (immediatamente misurabili attraverso il
numero dei dipendenti”. Così interpretata, la nuova normativa risultata “nell’insieme, adeguata a realizzare un equilibrato
componimento dei contrapposti interessi” – ha superato il giudizio di
costituzionalità sotto i vari profili sollevati, con riferimento agli artt. 3,
4, 11, 24, 101, 102 e 111 Cost. e art. 117 Cost., comma 1. (v. Cass. 31
gennaio 2012 n. 1409).
Inoltre, nel giudizio di legittimità, lo “ius superveniens”, che
introduca una nuova disciplina del rapporto controverso, può trovare
applicazione alla condizione, necessaria, che la normativa sopraggiunta
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risarcitorio non ammette la detrazione dell’ aliunde percoturn. Sicché

sia pertinente rispetto alle questioni agitate nel ricorso, posto che i
principi generali dell’ordinamento in materia di processo per
cassazione – e soprattutto quello che impone che la funzione di
legittimità sia esercitata attraverso l’individuazione delle censure
espresse nei motivi di ricorso e sulla base di esse – richiedono che il

coinvolto nella disciplina sopravvenuta, oltre che sussistente sia
ammissibile secondo la disciplina sua propria. Ne consegue che – ove
sia invocata l’applicazione dell’art. 32, commi 5, 6 e 7, legge n.183 del
2010 con riguardo alle conseguenze economiche della dichiarazione di
nullità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro – è
necessario che i motivi del ricorso investano specificamente le
conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del termine, non
essendo possibile chiedere l’applicazione diretta della norma al di fuori
del motivo di impugnazione (Cass. 1 ottobre 2012 n. 16642; v. pure
Cass. 2 marzo 2012 n.3305). E’ stato pure affermato da questa Corte
che è necessario che i motivi del ricorso, oltre ad investire
specificamente le conseguenze patrimoniali dell’accertata nullità del
termine, non siano tardivi, generici o affetti da altra causa di
inammissibilità, ivi compresa la mancata osservanza del precetto di cui
all’art. 366 bis cod. proc. civ. (nella specie, comunque non applicabile
“ratione temporis”), determinandosi, in caso contrario, la stabilità ed
irrevocabilità delle statuizioni di merito contestate (Cass. n. 26 luglio
2011 n. 16266).
Nel caso in esame, la soc. Poste Italiane denuncia sia la violazione di
norme e principi in tema di messa in mora, sia quelle in tema di
corrispettività della prestazioni. Sostiene che non possono essere
riconosciute a titolo risarcitorio tutte le retribuzioni perdute
occorrendo una specifica offerta delle prestazioni lavorative, non
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motivo del ricorso, con cui è investito, anche indirettamente, il tema

ravvisabile nella domanda di impugnativa del termine illegittimo o
nell’esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione ed essendo
il diritto alla retribuzione collegato sinallagmaticamente alla prestazione
lavorativa.
Quest’ultimo motivo è sufficientemente specifico, nonché pertinente

involgendo l’ an e il quantum della retribuzione dovuta quale effetto
della trasformazione de iure del rapporto di lavoro.
Ne consegue che lo ius superveniens trova applicazione. Da qui la
cassazione con rinvio dovendo farsi applicazione della disciplina
sopravvenuta.
Occorre ulteriormente aggiungere che l’art. 32, comma 7, della legge
n. 183 del 2011, nel prevedere che “il giudice fissa alle parti un termine
per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed
esercita i poteri istruttori ai sensi dell’articolo 421 del codice di
procedura civile”, premette l’inciso “ove necessario” con valore
disgiuntivo/inclusivo, a dimostrazione che la possibilità di modifiche
del “petitum e” di esercizio dei poteri istruttori va modulata in ragione
dello stato e del grado in cui si trova il processo. In caso di ripristino
della sede di merito, il giudice di rinvio deve tenere conto di quanto
affermato da Cass. 2 marzo 2012, n. 3305, secondo cui la modifica di
domande ed eccezioni può avvenire solo in primo grado (in caso di
ricorso “per saltum”), mentre in appello resta consentito solo
l’eventuale esercizio dei poteri istruttori d’ufficio.
Si designa, quale giudice di rinvio, la Corte di appello di Ancona in
diversa composizione, che provvederà anche in ordine alle spese del
giudizio di legittimità.
P.Q.M.

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alla questione del risarcimento del danno e della sua commisurazione,

La Corte rigetta i primi tre motivi; accoglie il quinto, assorbito il
quarto; cassa la sentenza impugnata nei limiti del motivo accolto e
rinvia alla Corte di appello di Ancona, anche per le spese del giudizio
di legittimità.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 17 ottobre 2013

Il Presidente

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