Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28555 del 20/12/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 28555 Anno 2013
Presidente: VIDIRI GUIDO
Relatore: BLASUTTO DANIELA

SENTENZA

sul ricorso 23068-2010 proposto da:
I.N.P.D.A.P. – ISTITUTO NAZIONALE DI PREVIDENZA PER I
DIPENDENTI DELL’AMMINISTRAZIONE PUBBLICA C.F.
97095380586, in persona del legale rappresentante pro
tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE
BECCARIA 29, presso lo studio dell’avvocato MASSAFRA
2013
3146

PAOLA, che lo rappresenta e difende, giusta delega in
atti;
– ricorrente contro

MAFFETTONE

FILOMENA

C.F.

MFFFMN68P41A794H,

Data pubblicazione: 20/12/2013

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA AGRI l, presso
lo studio dell’avvocato NAPPI PASQUALE, che la
rappresenta e difende unitamente all’avvocato BOIOCCHI
PIERLUIGI, giusta delega in atti;
– controricorrente

di BRESCIA, depositata il 25/09/2009 r.g.n. 278/2008;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 06/11/2013 dal Consigliere Dott. DANIELA
BLASUTTO;
udito l’Avvocato MASSAFRA PAOLA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. CARMELO CELENTANO che ha concluso per
l’inammissibilità in subordine rigetto.

avverso la sentenza n. 372/2009 della CORTE D’APPELLO

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza depositata il 25 settembre 2009 la Corte di appello di Brescia

Tribunale di Bergamo, che, in parziale accoglimento della domanda proposta da
Maffettone Filomena, aveva condannato l’Istituto al pagamento, in favore della
lavoratrice, di una somma a titolo di risarcimento del danno alla professionalità.
Osservava la Corte territoriale che l’INPDAP non aveva preso in esame le
argomentazioni svolte dal primo giudice a sostegno della riferita soluzione,
limitandosi a riportare le tesi sostenute in primo grado; il difetto di specificità dei
motivi di gravame ai sensi dell’art. 342 cod. proc. civ. – e nel rito del lavoro dell’art.
434 cod. proc. civ. – comportava il vizio radicale ed insanabile di nullità dell’atto.
Per la cassazione di tale sentenza l’INPDAP propone ricorso affidato a tre motivi.
Resiste Maffettone Filomena con controricorso.
L’INPDAP ha altresì depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ..
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione degli
artt. 342 e 434 cod. proc. civ. (art. 360 n. 3 cod. proc. civ.), in relazione all’art. 111
Cost., in lettura integrata con l’art. 6 CEDU, per avere la Corte di appello fornito
una lettura formalistica del principio di specificità dei motivi di impugnazione,
imponendo alla parte appellante l’ossequio a canoni tipici di redazione dell’atto, non
previsti da alcuna norma e in contrasto con il principio del giusto processo, avente
fondamento costituzionale e radici nel diritto della Convenzione E.D.U. L’atto di
appello conteneva gli elementi essenziali attraverso i quali poter comprendere la sua
diretta e chiara riferibilità alla sentenza impugnata e ai suoi passaggi motivazionali;
RG. n. 23068/2010
Udienza 6 novembre 2013
INPDAP c/Maffettone F.

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dichiarava inammissibile l’appello proposto dall’INPDAP avverso la sentenza del

aveva altresì i requisiti per ritenere raggiunto lo scopo di consentire all’appellata di
difendersi e al giudice di comprendere le questioni devolute alla sua cognizione.
D’altra parte, un appello che sia logicamente incompatibile con la decisione

argomentativi, poiché questi sono già contraddetti radicalmente dalla diversa tesi
interpretativa posta a fondamento del gravame.
Con il secondo motivo l’INPDAP lamenta la nullità della sentenza o del
procedimento (art. 360 n. 4 cod. proc. civ. ) in relazione ai principi di cui all’art. 111
Cost., in una lettura integrata con l’art. 6 CEDU, addebitando al giudice di appello
di avere omesso di interpretare l’atto di gravame.
Il terzo motivo denuncia la contraddittorietà della motivazione (art. 360 n. 5 cod.
proc. civ.) che, pur ravvisando la genericità dell’atto di appello, aveva dato atto che
esso aveva affrontato “varie questioni” ed esaminato le “risultanze della prova
testimoniale”; che erano state illustrate le ” tesi sostenute…”; che vi era il richiamo
“ad alcuni passaggi” che si contrapponevano “…concettualmente alle tesi della
sentenza…”. La decisione era dunque carente sotto il profilo della correttezza
giuridica e della coerenza logico formale; la soluzione adottata si fondava su assiomi
ed appariva caratterizzata da concetti esposti in modo sterile ed acritico.
I motivi, che possono essere trattati congiuntamente in ragione della loro stretta
connessione, sono infondati.
Nella recente elaborazione giurisprudenziale di questa Corte, è stato affermato
che la necessità di assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa di cui all’art. 24
Cost., nell’ambito del rispetto dei principi del giusto processo di cui all’art. 111,
secondo comma, Cost. e in coerenza con l’art. 6 CEDU, comporta l’attribuzione di

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impugnata non richiede la compiuta disamina dei suoi singoli passaggi

una maggiore rilevanza allo scopo del processo – costituito dalla tendente
finalizzazione ad una decisione di merito – che non solo impone di discostarsi da
interpretazioni suscettibili di ledere il diritto di difesa della parte o, comunque,

del suddetto scopo (v, tra le applicazioni più recenti del principio, Cass. 18410 del 1
agosto 2013, e, nelle peculiari situazioni processuali interessate dallmoverruling”,
Cass. Sez. Un. n. 15144/2011; v. pure Cass. 7755 del 2012).
Il principio non può tuttavia essere interpretato come idoneo a giustificare
generalizzate disapplicazioni di decadenze e preclusioni. Deve difatti notarsi come
nel caso emblematico del revirement giurisprudenziale in materia processuale il
carattere dell’imprevedibilità di un mutamento del consolidato orientamento
pregresso costituisce un evento idoneo a produrre una scissione tra il fatto (e cioè il
comportamento della parte risultante “ex post” non conforme alla corretta regola
del processo) e l’effetto, di preclusione o decadenza, che ne dovrebbe derivare, con
la conseguenza che – in considerazione del bilanciamento dei valori in gioco, tra i
quali assume preminenza quello del giusto processo (art. 111 Cost.), è esclusa
l’operatività della preclusione o della decadenza nei confronti della parte che abbia
confidato incolpevolmente (e cioè non oltre il momento di oggettiva conoscibilità
dell’arresto nomofilattico correttivo, da verificarsi in concreto) nell’orientamento
pregresso. In siffatta evenienza, lo strumento processuale tramite il quale realizzare
la tutela della parte va modulato in correlazione alla peculiarità delle situazioni
processuali interessate dal revirement giurisprudenziale.
Tale regola non può trovare applicazione nel caso in esame, poiché in tema di
specificità dei motivi di appello l’interpretazione dei principi dettati dagli artt. 342 e

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Udienza 6 novembre 2013
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risultino ispirate ad un eccessivo formalismo, tale da ostacolare il raggiungimento

434 cod. proc. civ. non è stata interessata da alcun mutamento giurisprudenziale, né
l’interpretazione seguita dalla Corte di appello – che ai principi del consolidato
orientamento si è attenuta, facendone corretta applicazione – ha ostacolato in alcun

richiesto ed omesso nella specie.
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (v., ex plurimis, Cass. n. 4068
del 12 febbraio 2009), ai fini della validità dell’appello non è sufficiente che l’atto di
gravame consenta di individuare le statuizioni concretamente impugnate, ma è
altresì necessario, pur quando la sentenza di primo grado sia stata censurata nella
sua interezza, che le ragioni sulle quali si fonda il gravame siano esposte con
sufficiente grado di specificità, da correlare, peraltro, con la motivazione della
sentenza impugnata, con la conseguenza che se, da un lato, il grado di specificità dei
motivi non può essere stabilito in via generale ed assoluta, dall’altro lato, esso esige
pur sempre che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano
contrapposte quelle dell’appellante, volte ad incrinare il fondamento logico-giuridico
delle prime.
Più recentemente, le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato (sent. n.
23299 del 9 novembre 2011) che, affinché un capo di sentenza possa ritenersi
validamene impugnato, non è sufficiente che nell’atto d’appello sia manifestata una
volontà in tal senso, ma è necessario che sia contenuta una parte argomentativa che,
contrapponendosi alla motivazione della sentenza impugnata, con espressa e
motivata censura, miri ad incrinarne il fondamento logico-giuridico.
Anche nel caso in cui l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto, invocate a
sostegno del gravame, si sostanzino nella prospettazione delle medesime ragioni
addotte nel giudizio di primo grado, occorre pur sempre, affinché ciò costituisca

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modo l’esercizio del diritto della parte di impugnare, in ragione dell’adempimento

una critica adeguata e specifica della decisione impugnata, che sia comprensibile per
il giudice del gravame con certezza il contenuto delle censure in riferimento alle
statuizioni adottate dal primo giudice. Non spetta, difatti, al giudice di appello

interpretativi – il raffronto tra sentenza di primo grado e tesi difensive
dell’appellante per ricercarne i nessi e, all’interno del coacervo gli argomenti,
stabilire se e su quale capo, punto o questione la tesi difensiva dell’appellante si
opponga alla sentenza di primo grado, per poi esaminarne il fondamento.
Questa Corte ha già affermato che l’appellante non può esaurire la sua ragione di
doglianza nella reiterazione delle sue richieste e nell’affermazione della loro
maggiore meritevolezza di accoglimento, ma ha l’onere di indicare specificamente, a
pena di inammissibilità del ricorso, gli errori di fatto e di diritto attribuibili alla
sentenza (cfr. Cass. 25218 del 2011). Negli stessi termini si erano già espresse le
Sezioni Unite (sent. n. 28057 del 25 novembre 2008) affermando che, ai fini della
specificità dei motivi richiesta dall’art. 342 cod. proc. civ., l’esposizione delle ragioni
di fatto e di diritto, invocate a sostegno dell’appello, possono sostanziarsi anche
nella prospettazione delle medesime ragioni addotte nel giudizio di primo grado,
purché ciò determini una critica adeguata e specifica della decisione impugnata e
consenta al giudice del gravame di percepire con certezza il contenuto delle censure,
in riferimento alle statuizioni adottate dal primo giudice.
Tra le sentenze più recenti che hanno ribadito il principio vi è Cass. n. 6978 del 20
marzo 2013, secondo cui il principio della necessaria specificità dei motivi di appello
– previsto dall’art. 342, comma primo, cod. proc. civ., e, nel rito del lavoro, dall’art.
434, comma primo, cod. proc. civ., nella formulazione anteriore alla novella operata
dall’art. 54, d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in 1. 7 agosto 2012, n. 134 – prescinde

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operare – con inevitabile soggettivismo e con possibilità di cadere in equivoci

da qualsiasi particolare rigore di forme, essendo sufficiente che al giudice siano
esposte, anche sommariamente, le ragioni di fatto e di diritto su cui si fonda
l’impugnazione, ovvero che, in relazione al contenuto della sentenza appellata, siano

ragioni per cui è chiesta la riforma della pronuncia di primo grado, con i rilievi posti
a base dell’impugnazione, in modo tale che restino esattamente precisati il
contenuto e la portata delle relative censure. E’ pertanto inammissibile l’atto di
appello che, senza neppure menzionare per sintesi il contenuto della prima
decisione, risulti totalmente avulso dalla censura di quanto affermato dal primo
giudice e si limiti ad illustrare la tesi giuridica già esposta in primo grado.
Non è il grado di analiticità con cui viene riproposta in appello la tesi difensiva
della parte che integra il requisito di specificità dei motivi di cui all’art. 434, primo
comma e 342, primo comma, cod. proc. civ., ma è il grado di pertinenza del motivo
all’ordine argomentativo posto a base della sentenza impugnata, la quale non è
rimossa dal mondo giuridico per il solo fatto di essere stata impugnata, ma
costituisce il punto di partenza per lo svolgimento e l’illustrazione delle tesi
difensive che, seppure nella sostanza costituiscano la riproposizione di tesi già
sostenute dalla parte in primo grado, devono confrontarsi con la soluzione accolta
dal primo giudice e quindi essere riproposte in ragionata contrapposizione ad essa.
A tali principi si è attenuta la Corte di appello che, nell’evidenziare che non era
stata in alcun modo presa in esame la motivazione della sentenza impugnata,
neppure menzionata per sintesi, ha ritenuto l’atto di appello del tutto avulso dal
contesto che si intendeva censurare. L’illustrazione delle questioni di fatto e di
diritto contenuta nel ricorso in appello era stata condotta senza alcuna esposizione
delle ragioni che avrebbero dovuto incrinare il fondamento logico-giuridico della

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anche indicate, oltre ai punti e ai capi formulati e seppure in forma succinta, le

sentenza impugnata sui medesimi punti e perfino senza alcuna indicazione delle
parti della sentenza contenenti gli errori o i vizi che dal raffronto comparativo
avrebbero dovuto emergere.

poiché questa, esaminando il contenuto dell’atto di appello, ha ritenuto che
l’illustrazione delle tesi giuridiche svolte, seppure analitica, ma avulsa da qualsiasi
correlazione – nel senso sopra chiarito – con le parti della sentenza impugnata
contenenti la disamina alla quale ci si intendeva opporre, non soddisfacevano
quell’onere di specificità richiesto ai fini della validità della impugnazione, da cui la
nullità insanabile dell’atto di gravame.
Aspetti di parziale novità della questione oggetto del ricorso giustificano la
compensazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, il 6 novembre 2013
Il Consigliere est.

Il Presidente

Nessuna contraddizione logica è dunque ravvisabile nella sentenza impugnata,

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