Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28519 del 20/12/2013


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Civile Sent. Sez. 5 Num. 28519 Anno 2013
Presidente: DI IASI CAMILLA
Relatore: FERRO MASSIMO

2.íe.9

Data pubblicazione: 20/12/2013

SENTENZA

Sul ricorso proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore p.t., rappr. e dif. dall’Avvocatura
Generale dello Stato, elett. dom. nei relativi uffici, in Roma, via dei Portoghesi n.12
-ricorrente Contro

SIMEC s.p.a., in persona del 1.r.p.t., rappr. e dif. dall’avv. Francesco D’Ayala Valva
e dall’avv. Vittorio Emanuele Falsitta, elett. dom. presso lo studio del primo in
Roma, viale Parioli n.43, come da procura a margine dell’atto
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estensore c

-controricorrenteper la cassazione della sentenza Comm. Tribut. Regionale di Milano 9.10.2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del giorno 1 ottobre 2013
dal Consigliere relatore dott. Massimo Ferro;

udito il P.M. in persona del sostituto procuratore generale doti Zeno Immacolata,
che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

IL PROCESSO
Agenzia delle Entrate impugna la sentenza della Commissione Tributaria
Regionale di Milano, 9.10.2007, che, a conferma della sentenza C.T.P. di Milano n.
132/27/2005, ebbe a respingere l’appello dell’Ufficio (oltre che quello incidentale
dell’appellata SIMEC s.p.a.), così ribadendo la non legittimità del silenzio-rifiuto
dell’Amministrazione Finanziaria relativamente all’istanza di rimborso che la società
contribuente aveva interposto (il 19.4.2004), quanto alle annualità 1994-1996, per
imposte versate e sanzioni subite. La citata istanza era motivata sul presupposto che
le imposte andavano retrocesse alla società poiché in precedenza pagate sul reddito
nel frattempo venuto meno a seguito del risarcimento del danno corrisposto ad
AMSA s.p.a. (la società municipalizzata di Milano per conto della quale SIMEC
aveva gestito nel periodo 1989-1996 raccolta e smaltimento di rifiuti solidi urbani
nella discarica di Cerro Maggiore) e Comune di Milano: con tali enti gli ex
amministratori e sindaci della società contribuente avevano concluso un accordo (il
28 maggio 2002) per il risarcimento del danno, mentre il successivo 12 luglio 2002
veniva a definirsi ai sensi dell’art.444 cod.proc.pen. il relativo procedimento penale,
per la cui sentenza (di patteggiamento) vi era stato assenso del P.M. subordinato al
risarcimento ad AMSA per la somma di Euro 49.603.405,40.
In precedenza, il 21 settembre 2000, il contenzioso tributario con la società era
chiuso con verbale di conciliazione e definizione delle tre annualità accertate, con
avvisi appunto per gli anni dal 1992 al 1996 e rettifica per gli anni da 1994 al 1996
(per illecita sovrafatturazione). Si trattava, secondo la tesi di SIMEC, di imposte,
interessi e sanzioni parametrati su una base imponibile che, in prosieguo, si era
rivelata diversa da quella reale, per un di più di Euro 9.758.235,77 e che doveva
essere restituita, in coerenza della risposta ad apposito quesito già rivolto alla
Direzione generale delle Entrate e della sostanziale imputazione proprio a SIMEC
anche delle somme solo formalmente risarcite agli enti dagli ex componenti dei suoi
organi societari, stante la complessità della transazione cui tutti, danneggiati e
danneggianti avevano aderito.
Ritenne la C.T.R., rigettato l’appello sul punto dell’omessa motivazione della
sentenza di primo grado, che il meccanismo risarcitorio e restitutorio allestito in
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estensore cons

uditi l’avvocato Gianni De Bellis per l’Avvocatura dello Stato e l’avvocato Vittorio
Emanuele Falsitta per parte controricorrente;

I FATTI RILEVANTI DELLA CAUSA E LE RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, si deduce il vizio di violazione e falsa applicazione dell’art.14
della 1. n. 537/1993, in relazione all’art.360 n.3 cod.proc.civ., avendo erroneamente la
C.T.R. ritenuto che la restituzione dei proventi del reato ai danneggiati potesse
giustificarne la sottrazione all’area di imponibilità, mentre la norma esonerativa ha
riguardo solo a quelli già sottoposti a sequestro o confisca penale.
Con il secondo motivo, si deduce il vizio di violazione e falsa applicazione della
medesima norma, in relazione all’art.360 n. 3 cod.proc.civ., avendo la C.T.R., anche
per l’ipotesi che il cit. art.14, co.4 concerna anche i casi di restituzione dei proventi
da reato, omesso di considerare che la relativa restituzione non è avvenuta dal
contribuente (SIMEC) bensì da altri soggetti (i suoi ex amministratori e sindaci), né
potendo assumere rilevanza, oltre le parti paciscenti, gli accordi di regolazione
restitutoria ai due enti Comune di Milano ed AMSA rispetto alle pretese fiscali su
SIMEC.
Con il terzo motivo, si deduce ancora violazione e falsa applicazione dell’art.14 cit.,
in relazione all’art. 360 n.4 cod.proc.civ., avendo erroneamente la C.T.R. assunto
come avvenuta la pretesa restituzione dei proventi da reato con riguardo ad epoca
successiva al periodo d’imposta nel quale si era verificato il presupposto imponibile.
Con il quarto motivo, si deduce il vizio di violazione e falsa applicazione dell’art.
48 d.lgs. n. 546/1992, in relazione all’art.360 n.3 cod.proc.civ., avendo la C.T.R.
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estensore cons.

plurime sedi processuali coordinate — che annoverano, quanto a quella penale, anche
SIMEC come parte civile degli illeciti dei suoi ex amministratori e sindaci — aveva
reso indenne anche Comune di Milano ed AMSA da ogni pregiudizio, tant’è che a
tali enti era stato corrisposto direttamente, all’esito del patteggiamento citato, il
risarcimento e la società SIMEC si poteva avvalere della rinunzia ad azioni nei suoi
confronti, i proventi illecitamente conseguiti divenendo perciò restituiti e pertanto
non più nella disponibilità della SIMEC stessa. Inoltre, la sentenza impugnata
riconosce il legittimo affidamento della società SIMEC su un parere dell’Ufficio
(DRE), attivato su sua richiesta e benché pervenuto dopo la conciliazione ed il
versamento delle imposte in esame: con esso detta Direzione si era espressa in senso
favorevole circa il riconoscimento del diritto alla restituzione delle maggiori imposte,
da apprezzare siccome in eccesso ove il citato danno fosse stato risarcito e così
provandosi la buona fede della contribuente: a questa, dopo la prospettazione di una
modalità di rientro nelle somme mediante lo strumento dell’istanza di rimborso,
nulla era stato obiettato sul punto. Per tale ragione, anche secondo la C.T.R., la
regola di computo del credito citato non doveva per forza integrare una
sopravvenienza passiva nell’anno in cui la restituzione era avvenuta, tra l’altro
essendo spirato il periodo in cui estrinsecare tale facoltà, facendo così valere la
perdita del possesso del reddito ed avendo senso il richiamo alla prescrizione (fissata
dalla DRE all’epoca di corresponsione del risarcimento) solo assumendo corretta la
strada della richiesta di rimborso.
Il ricorso è affidato a nove motivi, resistito dalla contribuente con controricorso
e successiva illustrazione di memoria.

1.
Il primo motivo è inammissibile. Ostano al suo esame sia la configurazione finale
del relativo quesito di diritto (formulato come mero interpello, così non assolvendo
alla funzione di integrare il punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico
e l’enunciazione del principio giuridico generale, Cass. 3530/2012), sia la novità della
censura, per la quale la ricorrente ha omesso di evidenziare in quali sedi processuali e
con quale tempestività la medesima questione sia stata ritualmente avanzata (Cass.
17041 /2013).
2.
Il secondo motivo è inammissibile. Con esso Agenzia delle Entrate, contestando che
nella gittata operativa dell’art.14, co.4 1. n.537/1993 rientri anche, quale restituzione
del provento illecito, una retrocessione operata da terzi, cioè da soggetto diverso dal
contribuente cui fosse stata imputata, per effetto dell’illecito stesso, una diversa e
maggiore imposizione, trascura di evidenziare quale sia stato il ruolo di tale
proposizione normativa nella ratio decidendi della C.T.R., non messa in adeguata luce ed
in realtà non rinvenibile nei termini presupposti dalla censura. La C.T.R. ha invece
ricostruito, accogliendo la prospettazione plurisoggettiva della vicenda negoziale e
comunque della fattispecie che condusse al risarcimento dei danni patiti dalle parti
civili pubbliche Comune di Milano ed AMSA, il fatto della restituzione integrale
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contravvenuto al principio per cui la natura novativa della conciliazione giudiziale
conclusa dalla società non poteva più essere rimessa in discussione per vicende
estranee e successive.
Con il quinto motivo, si deduce il vizio di violazione e falsa applicazione dell’art.112
cod.proc.civ., in relazione all’art.360 n.4 cod.proc.civ., avendo erroneamente la
C.T.R. omesso di pronunciare sulla domanda con cui l’Ufficio aveva chiesto di
negare ogni idoneità alla restituzione dei proventi da reato ai fini della richiesta di
rimborso della maggiore imposta versata, semmai potendo la circostanza —
verificatasi in un’annualità successiva a quella dell’assoggettamento ad imposizione
del maggior provento – dar luogo a contabilizzazione come sopravvenienza passiva.
Con il sesto motivo, si deduce il vizio di violazione e falsa applicazione dell’art. 66
TUIR, in relazione all’art.360 n. 3 cod.proc.civ., avendo erroneamente la C.T.R. non
considerato che la sopravvenienza passiva andava contabilizzata nell’anno d’imposta
in cui una delle ipotesi di cui alla norma si era verificata, com’era al limite ipotizzabile
per la restituzione dei proventi da reato.
Con il settimo motivo, si deduce il vizio di motivazione (omessa) su fatto decisivo,
in relazione all’art.360 n. 5 cod.proc.civ., avendo la C.T.R. fondato il proprio
convincimento sull’affidamento legittimo della contribuente con riguardo al parere
della DRE lombarda senza però assumere in toto il relativo documento.
Con l’ottavo motivo, si deduce il vizio di violazione e falsa applicazione dell’art.10
della 1. n. 212/2000, in relazione all’art.360 n.3 cod.proc.civ., avendo la C.T.R.
conferito rilevanza di legittimo affidamento ad un parere della DRE pervenuto dopo
la definizione, anche con esecuzione, della conciliazione giudiziale.
Con il nono motivo, si deduce il vizio di violazione e falsa applicazione ancora
dell’art.10 della 1. n. 212/2000, in relazione all’art.360 n.3 cod.proc.civ., avendo la
C.T.R. erroneamente attribuito rilevanza ad un legittimo affidamento che non poteva
dirsi sorto in capo alla SIMEC per effetto di circostanze riferibili invece a terzi.

3. Il terzo motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato. L’art.14 co.4 della 1. n.537
del 1993 individua una condizione negativa di imponibilità, nell’ipotesi di
spossessamento dei proventi illeciti che avvenga per effetto di sequestro o confisca nel
medesimo periodo in cui si sia verificato il presupposto imponibile. Sul punto, anche
di recente questa Corte ha statuito che “in tema di imposte sui redditi e con riguardo alla
tassazione dei proventi derivanti da attività illecite, ai sensi dell’art. 14, comma 4, della legge n. 537
del 1997, affinché operi la causa di esclusione dell’imponibilità costituita dalla circostanza che i detti
proventi risultino ngià sottoposti a sequestro o confisca penale”, occorre che il provvedimento ablatorio
sia intervenuto nello stesso periodo di imposta cui il provento si riferisce, così operando il principio di
capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. Ne consegue che se l’accertamento riguardi illeciti
proventi relativi a più annualità, il sequestro o la confisca sono opponibili al fisco soltanto con
rifirimento all’annualità in cui detti alti ablatori siano stati posti in essere e non per quelle
precedenti.” (Cass. 869/2010; 23623/2011). Nella fattispecie decisa, e come esaminato
sub 2), risulta tuttavia acclarata un’ipotesi di successiva ablazione dei proventi, tale
dovendosi intendere il risultato sostanziale (alla stregua di causa concreta) conseguito
dal complesso meccanismo restitutorio, congegnato — sulla base di chiare convergenze
consensuali – in modo essenziale con la partecipazione di SIMEC e che condusse al
materiale risarcimento del danno pari ad Euro 49.063.405,40. Il motivo non coglie
dunque in modo puntuale la retti() decidendi della pronuncia impugnata che ascrive a tale
circostanza, non di per sé collegata all’applicazione del citato art.14, co.4, 1.
n.537/1993 ma per l’affidamento sul parere della DRE a tal proposito interpellata, il
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siccome imputabile a SIMEC dell’intero provento da illecito alla stessa già imputato,
quale effetto di sovrafatturazioni. La circostanza, quale vicenda ablativa successiva
all’imposizione, fu con chiarezza e nella sua materialità in sentenza elevata a prova
della mancanza di disponibilità, in capo alla società, dei proventi stessi e fu perciò,
inscindibilmente, collegata ad un diritto alla restituzione che, per quella stessa
fattispecie, era basato su una corrispondente aspettativa di fondatezza, dovuta
all’affidamento di SIMEC sul parere reso dalla stessa DRE, a tal fine interpellata. Ne
consegue, da un lato, il difetto di pertinenza del motivo, con il quale si contesta
solamente una data interpretazione della norma, mentre invece centrale nel
ragionamento della corte di merito è la imputabilità sostanziale di quella restituzione
sul bilancio della società, gravato delle equivalenti rinunce alle azioni risarcitorie verso
gli imputati del reato, già definenti la responsabilità penale ex art.444 cod.proc.pen. ed
autori delle restituzioni, con quelle modalità, anche di contro alla parte civile costituita
SIMEC stessa. Né, dall’altro, appare ammissibile che la decisione sia ridiscussa quanto
alla effettiva imputazione soggettiva di restituzione del provento illecito, avvenuta
secondo la C.T.R. in modo indiretto ma certo con effetti depauperativi, così
determinanti il difetto di disponibilità dei proventi stessi in capo alla società: a tal fine
appare del tutto inidonea la prospettazione del vizio di violazione di legge della
norma, anziché, semmai, ai sensi dell’art. 360 co.1 n.5 cod.proc.civ., dovendo ogni
ricorso essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed
inequivoca ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata
disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta
indicazione numerica di una delle predette ipotesi (Cass. s.u. 17931/2013).

4. Il quarto motivo è inammissibile. La censura, rispetto alle ragioni di gravame avanzate
dinnanzi al giudice di secondo grado, appare nuova, né la ricorrente ha
opportunamente riportato gli originari elementi enunciativi dell’appello e la sequenza
processuale in cui quella difesa sarebbe stata prospettata, in violazione dell’art.56 d.lgs.
n.546/1992 (Cass. 14925/2011; 21506/2010).
5. Il quinto motivo di ricorso è infondato. Come sopra rilevato sub 2 e 3), la C.T.R. ha
inscindibilmente collegato il diritto al rimborso mettendo in relazione la sopravvenuta
restituzione dei proventi illeciti alle conseguenze restitutorie, in punto di imposte nel
frattempo pagate, quali prospettate nella richiesta di parere alla DRE, assorbendo
dunque (e rigettando) in modo inequivoco la tesi, inconciliabile con l’affermato diritto,
secondo la quale l’ablazione successiva de qua avrebbe costituito titolo, al più, per una
sopravvenienza passiva, ex art,66 TUIR ratione temporis vigente, ma nel successivo anno
d’imposta della restituzione. Non vi è stata pertanto alcuna omissione di pronuncia
come tale censurabile ai sensi dell’art.112 cod.proc.civ.
6. Il sesto motivo di ricorso è inammissibile perché, per quanto riportato sub 2), 3) e 5),
esso non coglie la ratio decidendi della pronuncia, vertente nel riconoscere il diritto al
rimborso come proiezione soggettiva della facoltà di valorizzazione, da parte del
contribuente, della sopravvenuta ablazione dei proventi illeciti in relazione
all’affidamento riposto su quella prerogativa a seguito del parere specifico reso alla
società dalla DRE Lombardia. Si tratta di un’applicazione coerente di un principio che
ha oramai assunto immanenza in tutti i rapporti di diritto pubblico e che questa Corte
ha di recente definito alla stregua di fondamento dello Stato di diritto nelle sue diverse
articolazioni, ove implica una limitazione, in favore ed a tutela del cittadino, della
stessa attività legislativa ed amministrativa (Cass. 21454/2013).Una censura che isoli,
partitamente, la violazione di singole discipline, ancorchè in ipotesi alternative, non
mostra dunque di integrare il necessario requisito di specificità e pertinenza, limite
evidente anche nel generico quesito di diritto (Cass. 7197/2009).
7. Il settimo motivo è inammissibile, poiché non è stato formulato il cd. quesito di fatto,
mancando la conclusione a mezzo di apposito momento di sintesi, ritenuto necessario
anche quando l’indicazione del fatto decisivo controverso sia rilevabile dal complesso
della formulata censura, attesa la ratio che sottende la disposizione indicata, associata
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fondamento di un giustificabile diritto al rimborso, conseguenza sostanziale cui
comunque si perviene per ogni vicenda di spossessamento dei proventi illeciti. A sua
volta, la disposizione asseritamente violata si limita a disciplinare l’ablazione del
provento illecito subita al più entro la fine del periodo d’imposta, così operando
sequestro o confisca penale quale causa di non imponibilità originaria, ma non estende
la sua disciplina altresì ad eventi posteriori al realizzarsi dell’imponibilità, cioè
successivi al sorgere dell’obbligo di dichiarazione e versamento, per i quali comunque
si pone una questione di diritto al rimborso o restituzione dell’imposta divenuta
indebita, che è il tema risolto dalla sentenza impugnata e con soluzione non censurata
in modo appropriato.

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8. L’ottavo motivo è infondato. Contestando la rilevanza in concreto del principio di cui
all’art.10 Statuto del contribuente, Agenzia delle Entrate deduce una violazione della
portata interpretativa della norma invero assente, poiché la sequenza degli atti del
contribuente, a cominciare dall’istanza di rimborso (del 2004) e per retroagire alla
restituzione agli enti danneggiati dei proventi illeciti (del 2002), si situa in condizione
di netta posteriorità rispetto al parere reso dalla DRE, rilasciato il 14.11.2000, tale
essendo la fattispecie sussunta nella norma dalla C.T.R.
9. Il nono motivo è inammissibile. Con esso la ricorrente censura l’apprezzamento
effettuato dalla C.T.R. del legittimo affidamento riposto dalla contribuente società nel
comportamento della RA., in relazione alla propria richiesta di rimborso e quale
prospettata, su propria istanza, nel parere della DRE Lombardia. Il motivo, già per
questo limite, sconfina in una deduzione che dà per acquisito un elemento di fatto
diverso da quello su cui invece il giudicante si è soffermato, allorché si è riferito
proprio alla SIMEC come soggetto cui imputare il risarcimento del danno agli enti
pregiudicati dagli illeciti penali.
Il ricorso va dunque respinto, con condanna del ricorrente alle spese, liquidate
secondo la regola della soccombenza e come da dispositivo.

P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso, ai sensi di cui in motivazione, condanna la ricorrente
alle spese del procedimento, che liquida in Euro 50.000, quanto ai compensi, oltre ad
Euro 500 per esborsi, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 1 ottobre 2013.

alle esigenze nomofilattiche della riforma sul ricorso alla S.C., la quale deve essere
posta in condizione di comprendere, dalla lettura del solo quesito, quale sia l’errore
commesso dal giudice di merito (Cass. 24255/2011).

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