Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28506 del 15/12/2020

Cassazione civile sez. VI, 15/12/2020, (ud. 06/11/2020, dep. 15/12/2020), n.28506

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. GRASSO Gianluca – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28646-2019 proposto da:

R.P., R.B.V., elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA BANCO DI S. SPIRITO 48, presso lo studio dell’avvocato

GIOVANNI BARDANZELLU, che li rappresenta e difende unitamente

all’avvocato FRANCA MARIA VOLPIN giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI

PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo

rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il

15/02/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

06/11/2020 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le memorie dei ricorrenti.

 

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

La Corte d’Appello di Bologna con decreto n. 1144 del 25 febbraio 2019 ha accolto parzialmente l’opposizione proposta da R.B.V. e R.P. avverso il decreto della stessa Corte d’Appello di Bologna con il quale il Ministero della Giustizia era stato condannato a pagare la somma di Euro 4.400,00 a titolo di indennizzo per la durata irragionevole del processo civile, iniziato in primo grado dinanzi al Tribunale di Bologna nel 1998, riassunto dinanzi al Tribunale di Ferrara nel 2002, e poi estintosi dinanzi alla Corte d’Appello di Bologna in data 26 marzo 2018, a seguito di mancata riassunzione dopo la sua interruzione.

Il decreto emesso in sede di opposizione riteneva corretta la quantificazione dell’indennizzo nell’importo di Euro 400,00 per ogni anno di ritardo (essendosi ritenuto che tale ritardo ammontasse ad undici anni, atteso che il processo nei due gradi era durato per ben 16 anni), disattendendo le contestazioni mosse sul quantum dagli opponenti, che lamentavano la carenza di una valutazione approfondita ed idonea con riguardo ai parametri normativi e giurisprudenziali dettati sul punto.

In tal senso la Corte d’Appello reputava che i parametri dettati dalla L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, non fossero in contrasto con quelli enucleati dalla giurisprudenza della CEDU, rispondendo comunque a criteri di ragionevolezza.

A ciò andava aggiunto che il processo presupposto si era estinto, ma che la valutazione del consigliere designato che aveva attribuito l’indennizzo doveva intendersi come un’implicita valutazione di inoperatività della presunzione di assenza di pregiudizio.

Per l’effetto, pur ammettendo che fosse stata vinta la presunzione di insussistenza del danno, la vicenda induceva a ritenere che non fosse stata fornita la dimostrazione di un pregiudizio di entità maggiore rispetto a quanto già riconosciuto.

Era invece accolto il motivo di opposizione che investiva il quantum delle somme liquidate a titolo di spese vive, il cui importo era stato documentato essere superiore a quanto invece riconosciuto.

Per la cassazione di questo decreto l’originaria parte ricorrente ha proposto ricorso sulla base di due motivi.

Il Ministero ha resistito con controricorso.

In prossimità dell’udienza parte ricorrente ha depositato memorie.

Preliminarmente occorre dare atto dell’inammissibilità del controricorso in quanto tardivamente notificato, atteso che il ricorso è stato notificato in data 25/92019 ed il termine per la notifica del controricorso scadeva il 4/11/2019, essendo invece stato proposto solo in data 13//11/2019.

Con il primo motivo di ricorso si denunzia la violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, nonchè la nullità della sentenza, in quanto la liquidazione dell’indennizzo sarebbe avvenuta con un evidente scostamento dai principi dettati dalla giurisprudenza EDU, e senza alcuna motivazione in merito alle ragioni per le quali è stato liquidato un importo corrispondente al minimo di legge.

Il secondo motivo invece denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, e l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non avendo la Corte d’Appello tenuto conto che il giudizio si era sì estinto ma solo a seguito della conclusione di una transazione da parte dei ricorrenti, al fine di evitare il protrarsi di un giudizio che già aveva avuto una durata considerevole.

I due motivi che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione sono inammissibili ex art. 360 bis c.p.c., n. 1.

Ed, invero ritiene la Corte di dover dare seguito alla propria giurisprudenza che già ha affermato che (Cass. n. 14974/2015) in tema di equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo la L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 bis, relativo alla misura ed ai criteri di determinazione dell’indennizzo, rimette al prudente apprezzamento del giudice di merito – sindacabile in sede di legittimità nei soli limiti ammessi dall’art. 360 c.p.c., n. 5 – la scelta del moltiplicatore annuo, compreso tra il minimo ed il massimo ivi indicati, da applicare al ritardo nella definizione del processo presupposto, orientando il “quantum” della liquidazione equitativa sulla base dei parametri di valutazione, tra quelli elencati nel comma 2 della stessa disposizione, che appaiano maggiormente significativi nel caso specifico.

Il precedente citato, sebbene relativo alla formulazione dell’art. 2 bis anteriore a quella in concreto applicata (che differisce solo in minima parte quanto alla soglia minima di liquidazione, senza che ciò possa incidere sulla valutazione anche di conformità della previsione alla Costituzione, già ravvisata da Cass. n. 14047/2016), ha condivisibilmente precisato che il legislatore ha nei fatti recepito le stesse indicazioni provenienti dalla giurisprudenza Europea al fine di contemperare la serietà dell’indennizzo con l’effettiva consistenza della pretesa fatta valere nel giudizio presupposto per l’applicabilità di tali principi anche a ricorsi cui sia applicabile la novellata previsione di cui all’art. 2-bis, si veda Cass. n. 3157/2019).

Peraltro, è stato anche di recente chiarito che (Cass. n. 7616/2019) solo nel caso in cui sia inapplicabile “ratione temporis” l’art. 2 bis introdotto nella cd. legge Pinto dall’art. 55, comma 1, lett. b) del D.L. n. 83 del 2012, convertito in L. n. 134 del 2012, il giudice nazionale, ai fini della liquidazione del danno, deve tener conto dei criteri applicati dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo e può discostarsi da essi solo con adeguata motivazione, che dia conto delle peculiari circostanze concrete della singola vicenda che impongono l’adozione di criteri di commisurazione diversi da quelli indicati in sede Europea, affermazione questa che deve reputarsi estensibile anche al caso in cui sia invocabile la previsione normativa indicata a seguito della riformulazione di cui alla novella del 2015.

La scelta circa l’entità della somma liquidata, purchè compresa tra il minimo ed il massimo legislativo, è rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito, il quale deve decidere tenendo conto (come recita la norma) dei parametri di valutazione elencati nel medesimo art. 2-bis, comma 2, lett. da a) a d), che costituiscono indicatori cui il giudice può variamente attingere per orientare il quantum della liquidazione equitativa dell’indennizzo. La norma, se da un lato esclude che siano valorizzabili fattori di natura diversa, dall’altro non detta dei tassativi temi di accertamento, tutti e ciascuno oggetto di specifica indagine e di singola valutazione in punto di fatto. Il giudice di merito, pertanto, nel determinare l’ammontare dell’equa riparazione non è tenuto ad esaminare ognuno dei suddetti parametri, ma deve tenere conto di quelli tra questi che ritiene maggiormente significativi nel caso specifico.

Lo scrutinio e la valutazione degli elementi della fattispecie che consentono di formulare il giudizio di sintesi sul paterna derivante dalla durata irragionevole del processo, costituisce un caratteristico apprezzamento di puro fatto, come tale sindacabile in sede di legittimità nei soli limiti ammessi dall’art. 360 c.p.c., n. 5.

Correlativamente, non è censurabile che il giudice di merito non abbia considerato tutti gli elementi del fatto ovvero li abbia valutati in maniera difforme dalle aspettative della parte. Infatti, l’art. 360 c.p.c., n. 5, riformulato dal D.L. n. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciarle per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). L’omesso esame di elementi istruttori, invece, non integra di per sè il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (cfr. Cass. S.U. n. 8053/14). Ne deriva che allorquando il ricorrente lamenti che la sentenza impugnata abbia omesso di “considerare” elementi di prova o deduzioni logiche favorevoli alla propria tesi difensiva, si verte nell’ambito non del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 nuovo testo, ma di un’inammissibile censura di puro merito.

Inoltre, è stato di recente ribadito che (Cass. n. 28109/2018) il decreto che provvede sulla domanda di equa riparazione, in caso di violazione del termine ragionevole del processo, necessita, per esigenze di concisione e speditezza, di motivazione anche soltanto in forma sintetica, potendo il giudice limitarsi ad indicare i criteri alla base del proprio giudizio, con riguardo alla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2.

Nello specifico, la Corte territoriale non ha omesso l’esame del fatto, ossia della connotazione del patema d’animo secondo le indicazioni di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2-bis, comma 2, ma ha valutato, con un tipico apprezzamento di merito, la natura degli interessi coinvolti, ponendo in rilievo che il giudizio presupposto si era comunque estinto, e che anche a voler reputare superata la presunzione relativa che la legge pone circa l’insussistenza del pregiudizio, l’estinzione imponeva di attenersi ai valori minimi di liquidazione (sicchè l’intervenuta transazione della lite assume carattere non decisivo, avuto riguardo alla valutazione del giudice di merito che ha messo in evidenza l’eccezionalità del riconoscimento dell’indennizzo a fronte dell’avvenuta estinzione del giudizio a quo).

Quanto poi alla dedotta violazione dell’art. 2-bis, in merito ai criteri di liquidazione ed al suo contrasto con i principi ricavabili dalla giurisprudenza EDU, va evidenziato che il procedimento in esame risulta introdotto in data 24/10/2018, e quindi in epoca successiva alla modifica dell’art. 2 bis da parte della L. n. 208 del 2015.

Va al riguardo fatto richiamo a quanto di recente affermato da questa Corte che (Cass. n. 25837/2019), secondo cui, in assenza di norme che dispongano diversamente e in forza dell’art. 11 disp. att. c.c., la L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, commi 1 e 1 ter, introdotti dalla L. n. 208 del 2015, dettando una nuova disciplina che prevede l’applicabilità dell’abbassamento a 400 Euro del minimo annuo, nonchè la riducibilità ulteriore di un terzo in caso di rigetto della domanda nel procedimento cui l’azione per l’equa riparazione si riferisce, costituiscono uno “ius superveniens”, che trova applicazione nei soli giudizi introdotti dopo il 1 gennaio 2016.

In motivazione si è poi evidenziato che, a differenza di quanto avvenuto a seguito dell’introduzione dell’art. 2 bis ad opera della L. n. 134 del 2012, che aveva inizialmente limitato la misura dell’indennizzo in una somma di denaro, non inferiore a 500 Euro e non superiore a 1.500 Euro per anno di ritardo, ove era stato dettato un espresso regime transitorio, il quale rendeva operante la nuova disciplina per i soli ricorsi depositati a decorrere dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione, nella fattispecie mancava un’analoga previsione.

Si è però ricordato che le disposizioni in tema di misura dell’indennizzo di equa riparazione per violazione del termine ragionevole di durata del processo, introdotte dal D.L. n. 83 del 2012, secondo l’interpretazione di questa Corte), non avevano natura di interpretazione autentica nè efficacia retroattiva, pur essendone esclusa l’illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 117 Cost., comma 1, in relazione all’art. 6 CEDU, par. 1, atteso che la derogabilità dei criteri ordinari di liquidazione e la ragionevolezza del criterio di 500 Euro per anno di ritardo recepivano comunque, nella sostanza, le indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte E.D.U. e della stessa Corte di cassazione (Cass. Sez. 2, 22/09/2014, n. 19897; Cass. Sez. 2, 27/10/2014, n. 22772).

Invero, l’indennizzo calcolato in Euro 500,00 per anno di ritardo, come fatto nell’originaria formulazione della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 bis, non poteva essere di per sè considerato irragionevole, e quindi lesivo dell’adeguato ristoro per violazione del termine di durata ragionevole del processo, essendosi più volte affermato in passato, nei precedenti di questa Corte, che la quantificazione del danno non patrimoniale dovesse essere, di regola, non inferiore ad Euro 750,00 per i primi tre anni di ritardo eccedente il termine di ragionevole durata, e salire per il periodo successivo ad Euro 1.000,00, e che, tuttavia, la valutazione dell’entità della pretesa patrimoniale azionata (c.d. posta in gioco) potesse giustificare l’eventuale scostamento, in senso sia migliorativo che peggiorativo, dai parametri indennitari fissati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, non legittimandosi unicamente il riconoscimento di un importo irragionevolmente inferiore a quello risultante dall’applicazione dei predetti criteri, dal momento che solo la liquidazione di un indennizzo poco più che simbolico o comunque manifestamente inadeguato contrasterebbe con l’esigenza, posta a fondamento della L. n. 89 del 2001, di assicurare un serio ristoro al pregiudizio subito dalla parte per effetto della violazione dell’art. 6 Convenzione, par. 1 (Cass. Sez. 2, 24/07/2012, n. 12937; Cass. Sez. 1, 24/07/2009, n. 17404; Cass. Sez. 2, 27/10/2014, n. 22772).

Al giudice, nel determinare la quantificazione del danno non patrimoniale subito per ogni anno di ritardo, è dato scendere anche al di sotto del livello di “soglia minima” L. n. 89 del 2001, ex art. 2-bis (la quale è tendenziale, vale cioè “di regola”), là dove, in considerazione del carattere bagatellare o irrisorio della pretesa patrimoniale azionata nel processo presupposto, parametrata anche sulla condizione sociale e personale del richiedente, l’accoglimento della pretesa azionata renderebbe il risarcimento del danno non patrimoniale del tutto sproporzionato rispetto alla reale entità del pregiudizio sofferto (Cass. Sez. 2, 24/07/2012, n. 12937; Cass. Sez. 1, 12/07/2011, n. 15268).

La L. n. 89 del 2001, art. 2-bis, nello stabilire la misura ed i criteri di determinazione dell’indennizzo a titolo di equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo, rimette, quindi, al prudente apprezzamento del giudice di merito – sindacabile in sede di legittimità nei soli limiti ammessi dall’art. 360 c.p.c., n. 5 – la scelta del moltiplicatore annuo, compreso tra il minimo ed il massimo ivi indicati (dapprima non inferiore a 500 Euro e non superiore a 1.500 Euro, per ciascun anno, poi non inferiore a 400 Euro e non superiore a 800 Euro per ciascun anno), da applicare al ritardo nella definizione del processo presupposto, orientando il “quantum” della liquidazione equitativa sulla base dei parametri di valutazione, tra quelli elencati nel comma 2 stessa disposizione, che appaiano maggiormente significativi nel caso specifico (Cass. Sez. 6 – 2, 16/07/2015, n. 14974; Cass. Sez. 6 – 2, 01/02/2019, n. 3157). La L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, commi 1-bis e 1-ter, poi introdotti dalla L. n. 208 del 2015, art. 1, comma 777, hanno inoltre stabilito le ipotesi in cui la somma da liquidare può essere diminuita fino al 20 per cento o fino al 40 per cento, in relazione al numero delle parti del processo presupposto, ovvero fino a un terzo in relazione all’esito dello stesso.

In particolare, la riduzione dell’indennizzo introdotta dalla L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2-bis, comma 1-ter, per l’ipotesi di integrale rigetto delle richieste del ricorrente nel procedimento presupposto, sovverte la risalente interpretazione giurisprudenziale, secondo la quale il diritto all’equa riparazione di cui alla L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, spetterebbe indipendentemente dall’esito del processo presupposto, ad eccezione del caso in cui il soccombente, consapevole dell’inconsistenza delle proprie istanze, abbia proposto una lite temeraria, difettando soltanto in questi casi la stessa condizione soggettiva di incertezza (cfr., tra le tante, Cass. Sez. 1, 12/05/2011, n. 10500; Cass. Sez. 6-2, 11/03/2015, n. 4890; Cass. Sez. 1, 20/08/2010, n. 18780).

Trattandosi di nuova disciplina di diritto sostanziale, che conforma il potere discrezionale del giudice di liquidare il danno in via equitativa ai sensi dell’art. 2056 c.c., in forma di jus superveniens costituente parametro normativo dei valori di aestimatio dell’indennizzo, e non avendo la L. n. 208 del 2015, dettato al riguardo un regime transitorio derogante alla regola generale dell’irretroattività della legge, posta dall’art. 11 preleggi, comma 1, legittimamente la Corte d’Appello di Bologna ha applicato l’art. 2-bis, comma 1 (indennizzo annuo di Euro 400,00, nella liquidazione dell’indennizzo spettante ai ricorrenti per la durata non ragionevole della causa civile presupposta. Le norme in esame sono infatti entrate in vigore il 1 gennaio 2016 (L. 28 dicembre 2015, n. 208, art. 1, comma 999) e ben possono essere applicate a domande di equa riparazione (quale quella in esame) proposte dopo tale data, ancorchè relative ad indennizzi di irragionevole durata preesistente, atteso che, ai fini della disciplina sulla misura dell’indennizzo disposta dalla nuova legge, tali norme devono essere prese in considerazione in se stesse, restando escluso che, attraverso tale applicazione, sia modificata la disciplina giuridica del fatto generatore del danno (arg. da Cass. Sez. U, 12/12/1967, n. 2926).

Le considerazioni svolte denotano altresì la manifesta infondatezza delle questioni di incostituzionalità dedotte con riferimento la L. n. 89 del 2001, art. 2-bis, citati comma 1 e comma 1-ter.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato.

Nulla a disporre per le spese, attesa l’inammissibilità del controricorso

Non sussistono i presupposti di legge sul raddoppio del contributo unificato (Cass. n. 2273/2019) come si desume da D.P.R. n. 115 del 2002, art. 10 (conf. Cass. S.U. n. 4315/2020).

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 6 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 15 dicembre 2020

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