Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28503 del 15/12/2020

Cassazione civile sez. VI, 15/12/2020, (ud. 06/11/2020, dep. 15/12/2020), n.28503

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. GRASSO Gianluca – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25580-2019 proposto da:

M.K., domiciliata in ROMA presso la Cancelleria della Corte

di cassazione e rappresentata e difesa dall’avvocato RAFFAELE

CARROZZA giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il

13/08/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

06/11/2020 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le memorie della ricorrente

 

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

La Corte d’Appello di Catania con decreto n. 4364 del 13 agosto 2019 ha parzialmente accolto l’opposizione proposta da M.K. avverso il decreto della stessa Corte d’Appello di Roma con il quale il Ministero della Giustizia era stato condannato a pagare la somma di Euro 1.866,69 a titolo di indennizzo per la durata irragionevole del processo civile, iniziato in primo grado dinanzi al Tribunale di Siracusa con atto di citazione del 2005, e conclusosi dinanzi alla Corte d’Appello di Catania nel maggio del 2018.

Il decreto emesso in sede di opposizione riteneva corretta la quantificazione dell’indennizzo liquidato in proprio all’opponente, atteso che non ricorrevano i presupposti per addivenire ad una liquidazione in misura superiore al minimo previsto, mentre riteneva fondato il motivo di opposizione con il quale si lamentava che non fosse stato riconosciuto anche l’indennizzo per il danno subito dal marito, anche egli parte in causa nel giudizio presupposto, e deceduto dopo la sentenza di primo grado, e del quale la ricorrente era unica erede.

Per l’effetto riconosceva anche l’indennizzo iure hereditario che quantificava nell’importo di Euro 1.335,35, atteso il ritardo di cinque anni nella definizione del processo di primo grado.

Infine, liquidava le spese di lite in favore dell’opponente nell’importo di Euro 1.100,00.

Per la cassazione di questo decreto l’originaria parte ricorrente ha proposto ricorso sulla base di tre motivi.

Il Ministero della Giustizia ha resistito con controricorso.

In prossimità dell’udienza parte ricorrente ha depositato memorie.

Con il primo motivo si deduce la violazione di norme processuali determinante la nullità della sentenza (rectius del decreto) in quanto connotata da motivazione omessa e/o apparente.

Si deduce che a fronte della censura dell’istante che lamentava il fatto che l’indennizzo fosse stato liquidato in misura pari al minimo di legge (Euro 400,00 annui), la Corte distrettuale ha confermato la correttezza della valutazione del giudice della fase monitoria, senza indicare alcuna ragione che giustificasse la detta quantificazione (poi ulteriormente ridotta di un terzo attesa la soccombenza della ricorrente nel giudizio presupposto).

Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, nonchè dell’art. 6 CEDU, par. 13, e dell’art. 1 Prot. Add. 1 alla CEDU per avere il giudice di merito disatteso i criteri legali e convenzionali sui quali deve fondarsi la giusta quantificazione dell’indennizzo. Nella specie gli interessi in gioco nel processo presupposto erano elevati ed incidevano anche sul piano personale, tenuto conto anche del valore cospicui del contratto di appalto della cui risoluzione si controverteva.

Per l’effetto il parametro di liquidazione annuo non poteva essere indicato in misura corrispondente al minimo legale.

I motivi, che per la loro connessione possono essere congiuntamente esaminati, sono inammissibili ex art. 360 bis c.p.c., n. 1.

Ritiene la Corte di dover dare seguito alla propria giurisprudenza che già ha affermato che (Cass. n. 14974/2015) in tema di equa riparazione per violazione del termine ragionevole del processo la L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2 bis, relativo alla misura ed ai criteri di determinazione dell’indennizzo, rimette al prudente apprezzamento del giudice di merito – sindacabile in sede di legittimità nei soli limiti ammessi dall’art. 360 c.p.c., n. 5 – la scelta del moltiplicatore annuo, compreso tra il minimo ed il massimo ivi indicati, da applicare al ritardo nella definizione del processo presupposto, orientando il “quantum” della liquidazione equitativa sulla base dei parametri di valutazione, tra quelli elencati nel comma 2 della stessa disposizione, che appaiano maggiormente significativi nel caso specifico.

Il precedente citato, sebbene relativo alla formulazione dell’art. 2 bis anteriore a quella in concreto applicata (che differisce solo in minima parte quanto alla soglia minima di liquidazione, senza che ciò possa incidere sulla valutazione anche di conformità della previsione alla Costituzione, già ravvisata da Cass. n. 14047/2016), ha condivisibilmente precisato che il legislatore ha nei fatti recepito le stesse indicazioni provenienti dalla giurisprudenza Europea al fine di contemperare la serietà dell’indennizzo con l’effettiva consistenza della pretesa fatta valere nel giudizio presupposto.

La scelta circa l’entità della somma liquidata, purchè compresa tra il minimo ed il massimo legislativo, è rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito, il quale deve decidere tenendo conto (come recita la norma) dei parametri di valutazione elencati nel medesimo art. 2-bis, comma 2, lett. da a) a d), che costituiscono indicatori cui il giudice può variamente attingere per orientare il quantum della liquidazione equitativa dell’indennizzo. La norma, se da un lato esclude che siano valorizzabili fattori di natura diversa, dall’altro non detta dei tassativi temi di accertamento, tutti e ciascuno oggetto di specifica indagine e di singola valutazione in punto di fatto. Il giudice di merito, pertanto, nel determinare l’ammontare dell’equa riparazione non è tenuto ad esaminare ognuno dei suddetti parametri, ma deve tenere conto di quelli tra questi che ritiene maggiormente significativi nel caso specifico.

Lo scrutinio e la valutazione degli elementi della fattispecie che consentono di formulare il giudizio di sintesi sul patema derivante dalla durata irragionevole del processo, costituisce un caratteristico apprezzamento di puro fatto, come tale sindacabile in sede di legittimità nei soli limiti ammessi dall’art. 360 c.p.c., n. 5. Correlativamente, non è censurabile che il giudice di merito non abbia considerato tutti gli elementi del fatto ovvero li abbia valutati in maniera difforme dalle aspettative della parte. Infatti, l’art. 360 c.p.c., n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciarle per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). L’omesso esame di elementi istruttori, invece, non integra di per sè il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (cfr. Cass. S.U. n. 8053/14). Ne deriva che allorquando il ricorrente lamenti che la sentenza impugnata abbia omesso di “considerare” elementi di prova o deduzioni logiche favorevoli alla propria tesi difensiva, si verte nell’ambito non del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 nuovo testo, ma di un’inammissibile censura di puro merito.

Nello specifico, la Corte territoriale non ha omesso l’esame del fatto, ossia della connotazione del patema d’animo secondo le indicazioni di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2-bis, comma 2, ma ha ritenuto che non sussistessero ragioni specifiche che consentissero una liquidazione in misura superiore al minimo legale.

In tal senso si veda da ultimo Cass. n. 14521/2019, che ha affermato che il giudice deve fare riferimento, da un lato, ai valori minimi e massimi indicati dalla L. n. 89 del 2001, art. 2-bis, comma 1 – nel testo novellato dalla L. n. 208 del 2015, applicabile “ratione temporis” ai ricorsi depositati a decorrere dal 1 gennaio 2016 -, e dall’altro ai parametri elencati al medesimo art. 2-bis, comma 2, tra i quali rientra anche l’apprezzamento dell’esito del giudizio nel cui ambito il ritardo si è maturato, avendo il giudice altresì la facoltà di applicare “nel caso di integrale rigetto delle domande della parte ricorrente” la specifica decurtazione di un terzo prevista dalla normativa in esame, art. 2-bis, comma 1-ter, essendo precluso alla Corte di cassazione sindacare la concreta determinazione del “quantum” dell’indennizzo operata dal giudice di merito, trattandosi di valutazione di fatto, ovvero l’applicazione della riduzione di cui al richiamato art. 2-bis, comma 1-ter, in quanto esplicazione di potere discrezionale il cui esercizio è rimesso al predetto giudice di merito.

Inoltre, quanto all’individuazione in Euro 400,00 del minimo indennitario annuo, si veda anche Cass. n. 25837/2019, secondo cui, in assenza di norme che dispongano diversamente e in forza dell’art. 11 disp. att. c.c., la L. n. 89 del 2001, art. 2 bis, commi 1 e 1 ter, introdotti dalla L. n. 208 del 2015, dettando una nuova disciplina che prevede l’applicabilità dell’abbassamento a 400 Euro del minimo annuo, nonchè la riducibilità ulteriore di un terzo in caso di rigetto della domanda nel procedimento cui l’azione per l’equa riparazione si riferisce, costituiscono uno “ius superveniens”, che trova applicazione nei soli giudizi introdotti dopo Il gennaio 2016, quale appunto quello in esame.

Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione e/o falsa applicazione delle previsioni di cui al D.M. n. 55 del 2014, in quanto la Corte di merito aveva liquidato le spese di lite al disotto del minimo legale.

Come già rilevato da questa Corte, e proprio con specifico riferimento alla liquidazione delle spese di lite nelle procedure di cui alla L. n. 89 del 2001 (Cass. n. 1018/2018), l’opinione secondo la quale il decreto del Ministero della Giustizia n. 55 del 10/3/2014, nella parte in cui stabilisce un limite minimo ai compensi tabellarmente previsti (art. 4) non può considerarsi derogativo del Decreto n. 140, emesso dallo stesso Ministero il 20/7/2012, il quale, stabilendo in via generale i compensi di tutte le professioni vigilate dal Ministero della Giustizia, al suo art. 1, comma 7, dispone che “In nessun caso le soglie numeriche indicate, anche a mezzo di percentuale, sia nei minimi che nei massimi, per la liquidazione del compenso, nel presente decreto e nelle tabelle allegate, sono vincolanti per la liquidazione stessa”, non è condivisibile in quanto il D.M. n. 140, risulta essere stato emanato allo scopo di favorire la liberalizzazione della concorrenza e del mercato, adempiendo alle indicazioni della UE, a tal fine rimuovendo i limiti massimi e minimi, così da lasciare le parti contraenti (nella specie, l’avvocato e il suo assistito) libere di pattuire il compenso per l’incarico professionale.

Viceversa, il giudice resta tenuto ad effettuare la liquidazione giudiziale nel rispetto dei parametri previsti dal D.M. n. 55, il quale non prevale sul D.M. n. 140, per ragioni di mera successione temporale, bensì nel rispetto del principio di specialità, poichè, diversamente da quanto affermato dall’Amministrazione resistente, non è il D.M. n. 140 evidentemente generalista e rivolto a regolare la materia dei compensi tra professionista e cliente a prevalere, ma il D.M. n. 55, il quale detta i criteri ai quali il giudice si deve attenere nel regolare le spese di causa.

Tornando al caso in esame la liquidazione effettuata dalla Corte locale in complessivi Euro 1.100,00 si pone al di sotto dei limiti imposti dal D.M. n. 55, tenuto conto del valore della causa (da Euro 1.100,00 a Euro 5.200,00) e pur applicata la riduzione massima, in ragione della speciale semplicità dell’affare (citato art. 4), atteso che il minimo al di sotto dl quale non era possibile scendere è pari ad Euro 1.198,50 (Euro 255,00 per la fase di studio, Euro 255,00 per la fase introduttiva, Euro 283,50 per la fase istruttoria, Euro 405,00 per la fase decisionale).

Il decreto impugnato deve pertanto essere cassato in relazione al motivo accolto, ma non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa nel merito, rideterminando le spese del giudizio di opposizione nell’importo di Euro 1.198,50, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi ed accessori di legge con attribuzione all’avv. Raffaele Carrozza, dichiaratosene anticipatario.

Atteso il parziale accoglimento del ricorso, ricorrono i presupposti che legittimano la compensazione delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

accoglie il terzo motivo di ricorso e dichiarati inammissibili i primi due motivi, cassa la decisione impugnata e decidendo nel merito ridetermina le spese del giudizio di opposizione in Euro 1.198,50, oltre spese generali, pari al 15 % sui compensi ed accessori di legge, con attribuzione all’avv. Raffaele Carrozza, dichiaratosene anticipatario;

compensa le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 6 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 15 dicembre 2020

 

 

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