Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28499 del 06/11/2019

Cassazione civile sez. lav., 06/11/2019, (ud. 04/06/2019, dep. 06/11/2019), n.28499

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. DE GREGORIO Federico – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27241-2012 proposto da:

UNIVERSITA’ CATTOLICA DEL SACRO CUORE DI MILANO, in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, PIAZZALE CLODIO 32, presso lo studio dell’avvocato LIDIA

SGOTTO CIABATTINI, che la rappresenta e difende unitamente agli

avvocati MARIA LUISA GROSSO, CLAUDIO SAVANCO;

– ricorrente principale –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, C.F. (OMISSIS), in

persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso

l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli

Avvocati ANTONINO SGROI, LELIO MARITATO, EMANUELE D’ALOISIO DE ROSE,

CARLA D’ALOISIO;

– resistente con mandato –

e da:

L.V.J., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

FEDERICO CONFALONIERI 5, presso lo studio dell’avvocato LUIGI MANZI

rappresenta e difesa all’avvocato LORENZO PICOTTI;

– controricorrente – ricorrente incidentale –

contro

UNIVERSITA’ CATTOLICA DEL SACRO CUORE DI MILANO;

– ricorrente principale – controricorrente incidentale –

e contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, C.F. (OMISSIS), in

persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso

l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli

Avvocati ANTONINO SGROI, LELIO MARITATO, EMANUELE DE ROSE, CARLA

D’ALOISIO;

– resistente con mandato –

avverso la sentenza n. 7028/2011 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 13/12/2011 R.G.N. 546/2009.

Fatto

RILEVATO

CHE:

il Tribunale di Milano ha accertato, con sentenza n. 1509/2008, l’esistenza di un unitario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a far data dal 1991 e fino al 2002, tra L.V.J. e l’Università Cattolica del Sacro Cuore, dapprima di lettorato e poi di collaborazione linguistica, condannando la medesima Università al pagamento in favore del lavoratore delle differenze retributive, anche per t.f.r., maturate e calcolate sulla base del trattamento previsto per i ricercatori confermati a tempo definito, oltre rivalutazione ed interessi e versamento della relativa contribuzione, il tutto nei limiti della prescrizione quinquennale;

la Corte d’Appello di Milano, con la sentenza qui impugnata, ha solo parzialmente riformato tale pronuncia, escludendo la maturazione della prescrizione e quindi disponendo che il riconoscimento del diritto alle differenze retributive dovesse avere corso fin dal 1.11.1991;

l’Università ha proposto ricorso per cassazione con sette motivi, resistiti dal L. mediante controricorso, contenente anche tre motivi di ricorso incidentale, cui l’originaria ricorrente principale ha a propria volta replicato attraverso apposito controricorso;

l’Università e il L. hanno infine anche depositato memoria illustrativa;

l’I.N.P.S., già contradddittore nei gradi di merito, ha depositato procura, senza svolgere difese.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

con il primo motivo del ricorso principale, l’Università afferma la violazione e falsa applicazione (art. 360 c.p.c., n. 3) della L. n. 240 ddel 2010, art. 26, in quanto la Corte non ha considerato che, essendosi riconosciuta nel caso di specie l’operatività della predetta norma, il giudizio avrebbe dovuto essere consequenzialmente dichiarato estinto, come previsto dalla medesima disposizione;

tuttavia, come ritenuto da Cass., S.U., 2 agosto 2017, n. 19164, l’esegesi della L. n. 240 del 2010, art. 26, comma 3, nella parte in cui prevede l’estinzione dei giudizi pendenti, deve essere orientata alla salvaguardia del diritto di azione, sicchè l’estinzione può operare solo qualora rilevi il nuovo assetto dato dal legislatore alla materia, senza che ne derivi una vanificazione dei diritti azionati;

l’estinzione prevista dalla L. n. 240 del 2010, art. 26 ragione, del pieno riconoscimento a favore degli ex lettori di madrelingua straniera del bene della vita al quale i medesimi aspirano con la proposizione del contenzioso” (Corte Cost. n. 38/2012) e, pertanto, la disposizione è applicabile nei soli casi in cui la pretesa fatta valere in giudizio sia esattamente coincidente con quanto stabilito dalla norma di interpretazione autentica in merito alla quantificazione del trattamento economico spettante agli ex lettori (Cass. nn. 6341, 3910, 3814 del 2019 e Cass. nn. 20765 e 15019 del 2018);

poichè, come dimostra anche il tenore del ricorso incidentale del L., oggetto del processo sono anche profili ulteriori e diversi rispetto a quanto stabilito dall’art. 26 cit., correttamente la Corte territoriale non ha pronunciato la predetta estinzione;

il secondo e terzo motivo del ricorso principale sono dedicati al tema della prescrizione e con essi si sostiene (secondo motivo, ex art. 360 c.p.c., n. 3) la violazione e falsa applicazione degli artt. 2946 e 2948 c.c., nonchè della L. n. 300 del 1970, artt. 18 e 35 nel testo antecedente alle modifiche di cui alla L. n. 92 del 2012 e (terzo motivo, ex art. 360 c.p.c., n. 5) la contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia;

secondo l’Università, poichè ai rapporti di lavoro in essere presso di essa si applicava, stanti le dimensioni datoriali, il regime di stabilità reale, era infondato l’assunto della Corte d’Appello secondo cui tale garanzia si sarebbe avuta solo a partire dalla sentenza di primo grado o dalla conclusione del contratto di collaborazione linguistica o dalla entrata in vigore della L. n. 236 del 1995;

viceversa, afferma la ricorrente principale, poichè una corretta ricostruzione fattuale e giuridica della vicenda avrebbe imposto di affermare che la data esatta di stipula del contratto a tempo indeterminato era il 26.5.1995, la prescrizione era da considerarsi maturata, in mancanza di atti interruttivi, per tutti i diritti di credito maturati anteriormente al quinquennio precedente la domanda giudiziale del 27.1.2006;

i motivi sono infondati, avendo questa Corte affermato, con principio che è qui condiviso, che “in tema di trattamento economico degli ex lettori di madre lingua straniera delle Università, disciplinato dal D.L. n. 2 del 2004, art. 1 conv. con modif. in L. n. 63 del 2004, come interpretato autenticamente dalla L. n. 240 del 2010, art. 26 il termine di prescrizione per l’esercizio del diritto a percepire tale trattamento comincia a decorrere solo dalla data in cui il diritto stesso poteva essere esercitato, vale a dire dall’entrata in vigore della nuova normativa, atteso che le sentenze della Corte di giustizia UE che avevano in precedenza accertato la violazione del principio di non discriminazione in relazione al mancato riconoscimento dei diritti quesiti non avevano tuttavia indicato nè le modalità con cui detti diritti dovevano essere garantiti nè l’esatto ammontare della retribuzione da riconoscere” (Cass. 25 maggio 2018, n. 13175);

pertanto, poichè appunto la domanda fu introdotta nel 2006 e il termine di prescrizione è quinquennale, dall’entrata in vigore del D.L. n. 2 del 2004 cit., che è la norma da cui derivano i diritti retributivi riconosciuti, nessuna prescrizione può essere maturata;

il quarto motivo del ricorso principale censura la sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, per avere omesso di motivare rispetto all’eccepita prescrizione dei debiti contributivi, con riferimento a quanto in ipotesi maturato a titolo retributivo in epoca anteriore rispetto al quinquennio precedente all’introduzione della domanda giudiziale;

quanto argomentato rispetto alla prescrizione dei crediti retributivi vale tuttavia anche rispetto ai crediti contributivi, essendo evidente che, se l’obbligo contributivo sorge in ragione di un certo diritto retributivo è solo con il nascere di quest’ultimo che puc maturare il debito previdenziale e decorrere la relativa prescrizione;

pertanto, poichè come detto i diritti retributivi sono sorti solo nel 2004, anche i conseguenti obblighi contributivi non possono essere antecedenti e dunque neppure rispetto ad essi può avere utile ingresso l’eccezione di prescrizione;

con il quinto motivo la ricorrente principale sostiene la violazione e falsa applicazione (art. 360 c.p.c., n. 3) dell’art. 1422 c.c., per essere stata respinta l’eccezione di prescrizione rispetto all’accertamento della natura subordinata o autonoma del primo contratto e dei termini apposti ai primi tre contratti tra le parti;

secondo l’Università, i giudici di merito avrebbero mal richiamato l’art. 1422 c.c., in quanto non era stata domandata la declaratoria di nullità di alcun contratto, ipotesi cui si riferiva la predetta norma;

il motivo è inammissibile, come eccepito dal L.;

non è vero infatti che, come sostiene l’Università nella memoria illustrativa, la sentenza di appello contenga per relationem la conferma degli argomenti spesi dal primo giudice, sotto il profilo della imprescrittibilità dell’azione di nullità e dunque del disposto dell’art. 1422 c.c., per respingere le predette eccezioni di prescrizione dell’azione di accertamento della natura subordinata ed a tempo indeterminato del rapporto;

tali eccezioni sono assolutamente specifiche, ma non risultano trattate dalla sentenza di secondo grado, che si occupa soltanto della diversa questione relativa alla prescrizione dei diritti retributivi e contributivi, quali accertati come conseguenza di quanto statuito (e da essa confermato) in primo grado, rispetto alla natura del rapporto intercorso tra le parti;

pertanto, l’Università, onde insistere sul profilo di cui al motivo in esame, avrebbe dovuto precisare, nell’ambito del ricorso per cassazione, in qual modo la questione sulla prescrizione delle azioni di accertamento fosse stata proposta presso il giudice di appello, dovendosi altrimenti ritenere formato il giudicato interno sul punto;

tale onere non è stato assolto e dunque il motivo non può avere valido ingresso in questa sede;

con il sesto motivo l’Università sostiene, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2094 c.c., affermando l’infondatezza dell’affermazione della Corte territoriale secondo cui era “pacifico, in quanto non contestato dall’Università, che il ricorrente prestava la sua attività con caratteristiche rimaste immutate nel tempo”; viceversa, l’Università afferma di avere rilevato che, in tanto sarebbe stato possibile disporre la conversione del rapporto di lavoro autonomo in lavoro subordinato, in quanto vi fosse stato accertamento delle concrete caratteristiche del singolo rapporto; inoltre era mancata in concreto prova dell’asserita subordinazione, stante il notorio principio per cui ogni attività umana può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato, sia di rapporto di lavoro autonomo;

anche tale motivo è inammissibile per ragioni analoghe a quanto già detto per il quinto motivo;

infatti, nella sentenza impugnata non è trattata la questione sulla natura subordinata, che la sentenza dà per scontata, o meno del rapporto inter partes;

pertanto, essendo pacifico che tale natura fosse stata affermata dal giudice di primo grado, era onere della ricorrente, sulla base dei principi già sopra menzionati, dimostrare, riportando i passaggi deduttivi ed argomentativi in proposito, che tale profilo fosse stato oggetto di impugnazione in sede di appello, come però non è stato fatto;

con il settimo motivo la ricorrente principale sostiene che la Corte territoriale avrebbe omesso la considerazione di un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5) e, comunque, deciso con violazione e/o falsa applicazione (art. 360 c.p.c., n. 3) del D.P.R. n. 382 del 1980, art. 28 e ciò per non avere valutato che la Cattolica è Università “libera” dunque non soggiace ai c.c.n.l. che il Ministero ha stipulato per le Università statali, con riferimento ai lettori prima e poi ai Collaboratori Esperti Linguistici;

anche tale motivo è inammissibile, in quanto esso è incoerente rispetto alla ratio decidendi;

la sentenza impugnata, pur se sul punto non sempre chiarissima, va palesemente letta nel senso che il rapporto del ricorrente va inteso come unico nel tempo e sottoposto al regime di miglior favore di cui al D.L. n. 2 del 2004, art. 1 e L. n. 240 del 2010, art. 26 nel senso che il L., come stabilito dalla sentenza di primo grado e confermato in appello, ha diritto, pur risultando da inquadrare ora come C.E.L., al mantenimento del trattamento previsto per i ricercatori a tempo definito;

in tal senso la pronuncia è stata intesa dalla stessa Università, secondo quanto evidenzia il primo motivo del ricorso principale, come anche dal L. e d’altra parte tale conseguenza deriva de plano dall’applicazione delle predette norme, la cui legittimità Eurounitaria è richiamata anche dalla sentenza impugnata;

ne deriva, intanto, che è mal posta, con il motivo, la questione in ordine violazione del D.P.R. n. 382 del 1980, art. 28 perchè non è quella la norma che è stata in concreto applicata;

la definizione della causa sulla base della disciplina del D.L. n. 2 del 2004 e dell’art. 26 cit., esclude poi che abbia rilievo (almeno fino a quando non si pongano questioni di avvenuto assorbimento del trattamento di miglior favore, che tuttavia l’Università avrebbe interesse più a sollecitare che non a contestare) l’applicazione del c.c.n.l. destinato a regolare il trattamento retributivo dei C.E.L., in quanto ciò che è stato stabilito è il mantenimento del trattamento previsto per i ricercatori a tempo definito richiamato appunto dal D.L. n. 2 del 2004 cit., art. 1;

nè la Corte territoriale afferma che, rispetto a tali ricercatori, si debba applicare un certo c.c.n.l., sicchè il motivo, al di là della fondatezza o meno degli assunti di merito con esso proposti, risulta anche da questo punto di vista inconferente rispetto alla decisione quale in concreto assunta;

con il primo motivo del ricorso incidentale il L. sostiene la violazione e/o falsa applicazione (art. 360 c.p.c., n. 3) degli artt. 1418, 1419 e 1325 c.c., in relazione alla L. n. 230 del 1962, artt. 1 e 2 e L. n. 236 del 1995, art. 4 nonchè dell’art. 39 del Trattato CE (ora art. 112 TFUE) e degli artt. 1 e 7, comma 4 del Regolamento CEE 1612/68 e ciò in quanto, essendo stata accertata in giudizio l’invalidità del termine apposto ai contratti di lettorato stipulati ai sensi del D.P.R. n. 382 del 1980, art. 28 egli era – a suo dire – da considerare già dipendente a tempo indeterminato allorquando l’Università lo ha formalmente assunto di nuovo con il contratto di Collaborazione Esperto Linguistico, il quale dunque era privo di causa e come tale nullo, senza contare che il contratto sarebbe da considerare nullo anche per violazione dell’art. 39.2 del Trattato CE (ora art. 112 TFUE) relativo alla libera circolazione dei lavoratori, garantita attraverso l’abolizione di qualsiasi discriminazione, anche indiretta, fondata sulla nazionalità dei lavoratori, laddove la categoria dei collaboratori ed esperti linguistici ed a maggior ragione quella dei lettori, era individuata sulla base della cittadinanza, riguardando cittadini di altri paesi chiamati all’insegnamento in Italia della lingua straniera;

il motivo è infondato, avendo le Sezioni Unite, nel risolvere il contrasto con più pronunce contestualmente rese (Cass. S.U. n. 19164/2017, cit. e Cass., S.U., 23 ottobre 2017, n. 24963), affermato che la continuità normativa e l’analogia tra la posizione soppressa degli ex lettori di lingua straniera e quella di nuova istituzione dei collaboratori linguistici comporta che, se l’ex lettore abbia ottenuto l’accertamento della sussistenza del rapporto di lavoro a tempo indeterminato per la nullità della clausola di durata con sentenza passata in giudicato, va, comunque, applicata l2 relativa disciplina di fonte legale dettata dal D.L. n. 2 del 2004, come interpretato autenticamente dalla L. n. 240 del 2010, art. 26 che nel presente giudizio è intervenuto in pendenza del giudizio di appello;

Cass. 24963/2017, cit., ha osservato al riguardo, richiamando la motivazione della sentenza della Corte di Giustizia del 26.6.2001, che “la trasformazione ope legis (e quindi anche per sentenza definitiva) del rapporto a tempo determinato in contratto a tempo indeterminato deve essere equiparata alla conclusione di un nuovo contratto, seppure stipulato all’esito di procedure selettive, in quanto in entrambi i casi l’interesse perseguito è comunque quello di realizzare, dal punto di vista contenutistico e non formale, la medesima finalità di stabilizzazione del rapporto”;

le Sezioni Unite (Cass. 19164/2017, cit.) hanno anche escluso che, convertito il rapporto di lettorato, possa essere ritenuto nullo per assenza di causa il contratto individuale stipulato ai sensi della nuova normativa, ed hanno precisato che, pur a fronte di un rapporto unitario ed ininterrotto, le parti possono modificare il regolamento pattizio, in quanto nel rapporto di lavoro, che è un rapporto di durata, si può parlare di diritti quesiti solo in relazione a prestazioni già rese o ad una fase già esaurita;

infondato è anche l’assunto secondo cui la normativa determinerebbe una discriminazione ai danni di lavoratori stranieri, ostativa al principio di libera circolazione, in quanto il trattamento è univoco per l’intera categoria considerata, nè possono ipotizzarsi, dato il contributo mera mente integrativo rispetto agli insegnamenti principali di riferimento, paragoni con la docenza universitaria in senso stretto, caratterizzata dalla responsabilità, anche sotto il profilo scientifico, della materie di insegnamento;

gli altri due motivi del ricorso incidentale sostengono che la Corte territoriale avrebbe indebitamente rigettato la domanda di risarcimento del danno, formulata in ragione dell’attribuzione, nella veste di C.E.L., di una qualifica inferiore rispetto a quella di docente, cui dovevano reputarsi appartenere i lettori (secondo motivo) ed inoltre l’erroneità della pronuncia nella parte in cui essa aveva applicato il parametro retributivo stabilito dalla L. n. 63 del 2004 (ricercatore confermato a tempo definito), senza comparare l’attività svolta con il parametro massimo, fissato del D.P.R. n. 382 del 1980, art. 28 per i lettori, del trattamento proprio del professore associato a tempo definito;

i predetti motivi sono inammissibili;

il secondo motivo consiste infatti della sola prospettazione della diverse tesi del L., senza misurarsi con l’affermazione della Corte territoriale, in cui si incentra la ratio decidendi, secondo cui “la de qualificazione è insussistente, non essendo indicati elementi idonei a dimostrare le differenze di contenuto, di autonomia e di professionalità delle mansioni affidate nel tempo”, rimaste peraltro, aggiunge la Corte, sempre uguali e non sussistendo alcun “diritto alla qualifica, che presuppone quantomeno il possesso di requisiti soggettivi specifici e il superamento di un concorso”;

la censura contiene in sostanza considerazioni difensive che però non si pongono in argomentata posizione critica rispetto alle menzionate affermazioni della Corte territoriale, difettando così una reale valenza impugnatoria;

non diversamente, il terzo motivo, pur sostenendo che l’attività svolta dal L. fosse da considerare “superiore, per quantità e qualità, a quella minima di cui al D.P.R. n. 382 del 1980, art. 28”, sicchè – se ne deduce – sarebbe fondata la pretese di applicazioni di parametri superiori a quelli propri del ricercatore a tempo definito adottati dalla Corte territoriale in forza della normativa sopravvenuta, risulta formulato con modalità aspecifiche, in quanto fa riferimento soltanto ad un generico “vero e proprio insegnamento della lingua straniera”, senza riportare, nell’argomentazione, i precisi tratti dell’attività in concreto svolta che determinerebbero l’assurgere del ruolo del lettore fino a quello, scientificamente assai qualificato, del professore associato e che imporrebbero, per assicurare il rispetto dell’art. 36 Cost., il riconoscimento di un corrispettivo superiore a quello riconosciuto agli ex lettori secondo il D.L. n. 2 del 2004 ed la L. n. 240 del 2010, art. 26;

anche il ricorso incidentale va quindi disatteso;

la reiezione dei contrapposti ricorsi delle parti che hanno concretamente svolto difese in sede di legittimità giustifica, in ragione della reciproca soccombenza che si determina, la compensazione delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale ed il ricorso incidentale. Compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 4 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 6 novembre 2019

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