Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28498 del 15/12/2020

Cassazione civile sez. VI, 15/12/2020, (ud. 06/11/2020, dep. 15/12/2020), n.28498

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19607-2019 proposto da:

C.P., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA AVEZZANA 6,

presso lo studio dell’avvocato MATTEO ACCIARI, rappresentata e

difesa dall’avvocato BRUNO GUARALDI, giusta procura in calce al

ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di SALERNO, depositata il

05/12/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

06/11/2020 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO.

 

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

La Corte d’appello di Salerno con decreto del 5 dicembre 2018 n. 9131 ha rigettato l’opposizione proposta da C.P. avverso il decreto del Consigliere delegato del 5 marzo 2018 con il quale era stata rigettata la domanda di equo indennizzo proposta dalla ricorrente per la violazione della durata ragionevole della procedura fallimentare riguardante la C., alla quale era stata riunita la procedura relativa alla società in accomandita della quale era socia, iniziata il 16/04/1996 dinanzi al Tribunale di Salerno e conclusasi con decreto di chiusura del 19/04/2017.

La Corte distrettuale rilevava che in relazione alle procedure concorsuali, occorre tenere conto di vari fattori, tra cui il numero dei soggetti falliti, della quantità dei creditori, delle questioni indotte dalla verifica dei crediti, delle controversie giudiziarie innestatesi nel fallimento, dell’entità e del patrimonio da liquidare e della consistenza delle operazioni di riparto. Inoltre, è colui che ritiene che il notevole protrarsi della procedura sia dipeso da neghittosità o dall’inerzia ingiustificata dei suoi organi a doverne fornire la prova ai fini della liquidazione dell’equo indennizzo.

Nella specie il fallimento riguardava anche una società della quale la C. era accomandante e nella cui gestione si era indebitamente intromessa.

La procedura era stata poi connotata da un’opposizione allo stato passivo proposta da un istituto di credito che aveva una garanzia ipotecaria su di un bene suscettibile di incrementare il valore della massa attiva.

Tale giudizio, protrattosi per tre gradi aveva poi consentito di accertare la natura simulata sia del mutuo garantito che della garanzia ipotecaria, entrambi risalenti a data prossima a quella della dichiarazione di fallimento.

Ancora, a fronte di un passivo di una certa consistenza e con la presenza di numerosi creditori, nella procedura si era innestato anche un procedimento penale a carico della C. e degli altri soci, procedimento che sebbene poi conclusosi con declaratoria di prescrizione del reato, aveva prolungato ulteriormente i tempi della procedura.

Pertanto, la condotta della fallita non aveva agevolato le operazioni di recupero delle somme, essendo stata la durata della procedura influenzata negativamente anche dalla conclusione di atti simulati in frode dei creditori prima dell’apertura del fallimento, con la conseguenza che non poteva essere riconosciuto alcun indennizzo.

Per la cassazione di tale decreto ha proposto ricorso C.P. sulla base di un motivo.

Il Ministero della Giustizia ha resistito con controricorso.

Il motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, in relazione alla CEDU, art. 6, par. 1, al primo protocollo addizionale, art. 1, ed agli artt. 111 e 117 Cost..

Si sottolinea che la legge non condiziona in alcun modo il diritto del fallito all’equo indennizzo per l’irragionevole protrarsi della procedura fallimentare alla circostanza di avere agevolato le azioni di recupero, essendo questo un compito affidato agli organi della procedura.

Inoltre, la durata della procedura ai fini del riconoscimento dell’indennizzo è ormai predeterminata in maniera rigida dalla legge.

La Corte distrettuale al fine di rigettare la domanda ha considerato elementi estranei a qualsiasi previsione legale, violando i principi che tradizionalmente sono seguiti in materia. Il motivo è fondato.

La L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2 bis, introdotto dal D.L. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, stabilisce che “si considera rispettato il termine ragionevole se… la procedura concorsuale si è conclusa in sei anni”.

Orbene, effettivamente questa Corte ha affermato che (Cass. n. 8497/2008, citata nel decreto gravato) in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo, non essendo possibile predeterminare astrattamente la ragionevole durata del fallimento, il giudizio in ordine alla violazione del relativo termine richiede un adattamento dei criteri previsti dalla L. 24 marzo 2001, n. 89, e quindi un esame delle singole fasi e dei subprocedimenti in cui la procedura si è in concreto articolata, onde appurare se le corrispondenti attività siano state svolte senza inutili dilazioni o abbiano registrato periodi di stallo non determinati da esigenze ben specifiche e concrete, finalizzate al miglior soddisfacimento dei creditori concorsuali. A tal fine, occorre tener conto innanzitutto del numero dei soggetti falliti, della quantità dei creditori concorsuali, delle questioni indotte dalla verifica dei crediti, delle controversie giudiziarie innestatesi nel fallimento, dell’entità del patrimonio da liquidare e della consistenza delle operazioni di riparto. Secondariamente, chi ritiene che il notevole protrarsi della procedura sia dipeso dalla condotta dei suoi organi ne deve provare l’inerzia ingiustificata o la neghittosità nello svolgimento delle varie attività di rispettiva pertinenza, o nel seguire i processi che si siano innestati nel tronco della procedura.

Tuttavia, anche in relazione alla situazione anteriore alla novella del 2012, la Corte ha precisato che (Cass. n. 23982/2017) la durata delle procedure fallimentari, secondo lo standard ricavabile dalle pronunce della Corte Europea dei diritti dell’uomo, è di cinque anni nel caso di media complessità e, in ogni caso, per quelle notevolmente complesse – a causa del numero dei creditori, della particolare natura o situazione giuridica dei beni da liquidare (partecipazioni societarie, beni indivisi, ecc.), della proliferazione di giudizi connessi o della pluralità di procedure concorsuali interdipendenti – non può superare la durata complessiva di sette anni (conf. Cass. n. 8468/2012; Cass. n. 9254/2012), sicchè i vari elementi potrebbero al più influire sulla individuazione del termine di durata ragionevole della procedura, ma pur sempre nel rispetto dell’indicato limite cronologico.

In tal senso, si è ribadito che nella durata complessiva delle procedure fallimentari devono essere inclusi anche i tempi impiegati per la risoluzione di vicende processuali parallele o incidentali, trattandosi di fasi ed attività processuali eventuali, che comunque ineriscono all’unico processo concorsuale, dovendosi la durata ulteriore ragionevolmente attribuire a disfunzioni o inadeguatezze del sistema giudiziario, così arrivando al più a ritenere ragionevole una durata fino a sette anni, allorquando il procedimento fallimentare si sia presentato particolarmente complesso, anche appunto per la proliferazione di giudizi connessi (Cass. Sez. 1, 23/09/2005, n. 18686; Cass. Sez. 1, 27/12/2011, n. 28858; Cass. Sez. 6 – 1, 07/06/2012, n. 9254; Cass. Sez. 2, 03/01/2019, n. 7).

Quanto poi alla titolarità del diritto all’equo indennizzo in capo al fallito va confermata la risposta positiva al quesito (cfr. Cass. n. 13605/2013), occorrendo altresì ricordare che secondo i principi affermati da questa Corte, e dai quali risulta essersi evidentemente discostata la pronuncia impugnata (cfr. Cass. n. 12807/2003) in tema di equa riparazione ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, il comportamento della parte rileva nella misura in cui abbia determinato un ingiustificato allungamento dei tempi del processo in cui si assume essersi verificata una violazione della CEDU, art. 6, paragrafo 1, dovendosi escludere che abbia influenza il comportamento anteriore al processo, ancorchè al processo medesimo esso abbia dato causa. Pertanto, il fatto che il fallito abbia, con il suo comportamento anteriore alla dichiarazione di fallimento, posto (sia pure con piena consapevolezza) le premesse delle azioni revocatorie successivamente esercitate dalla curatela fallimentare a tutela delle ragioni della massa, non vale a giustificare la durata delle azioni revocatorie medesime, e di riflesso del procedimento fallimentare (conf. Cass. n. 10074/2008, quanto alla condotta del fallito consistente nella vendita di beni in epoca anteriore all’apertura del fallimento, in merito al ritardo nella definizione dei giudizi volti al recupero di detti beni, non imputabile a negligenza della curatela, dovendo tenersi conto, nell’accertamento della violazione, anche del comportamento degli uffici giudiziari investiti della decisione di cause pregiudiziali o collegate, e potendo le predette circostanze trovare adeguata considerazione nell’ambito della valutazione della complessità della vicenda processuale, nonchè ai fini della quantificazione della misura della riparazione).

Se appare quindi non corretto il richiamo da parte della Corte distrettuale alla condotta anteriore della fallita per negare il diritto all’equo indennizzo, quanto alle condotte successive va ricordato come questa Corte abbia affermato che (Cass. n. 2247/2007) non possa considerarsi motivazione pertinente e logica, ai fini del rigetto delle richieste di equo indennizzo, il richiamo operato dal giudice della equa riparazione alla mancanza di iniziative da parte del fallito nei confronti degli organi della procedura fallimentare per accelerarne la definizione, quale indice rivelatore di una sofferenza e patema d’animo meno avvertiti, avuto anche riguardo alla posizione di mera attesa cui il fallito è assoggettato nel corso della procedura di cui si tratta.

La plurima violazione dei principi affermati dal giudice di legittimità ad opera del provvedimento impugnato ne impone la cassazione, con rinvio ad altra Sezione della Corte d’Appello di Salerno che provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

accoglie il ricorso e cassa la decisione impugnata con rinvio a diversa Sezione della Corte d’Appello di Salerno, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 6 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 15 dicembre 2020

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