Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28467 del 07/11/2018

Cassazione civile sez. VI, 07/11/2018, (ud. 25/09/2018, dep. 07/11/2018), n.28467

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – rel. Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7451/2017 proposto da:

IRETI S.P.A., P.I./C.F. (OMISSIS), già IREN EMILIA S.P.A., già ENIA

PIACENZA S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DI RIPETTA n. 22, presso lo

studio dell’avvocato GERARDO VESCI, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

e da

IREN S.P.A., P.I./C.F. (OMISSIS), già IRIDE S.P.A., in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA DI RIPETTA n. 22, presso lo studio dell’avvocato GERARDO

VESCI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato FABIOLA

ZAMBON;

– ricorrente ad adiuvandum –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, (OMISSIS), in

persona del legale rappresentante in proprio e quale procuratore

speciale della SOCIETA’ DI CARTOLARIZZAZIONE DEI CREDITI I.N.P.S.

(S.C.C.I.) S.p.A. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

CESARE BECCARIA 29, presso la sede dell’AVVOCATURA dell’Istituto

medesimo, rappresentato e difeso dagli avvocati CARLA D’ALOISIO,

ANTONINO SGROI, LELIO MARITATO, EMANUELE DE ROSE, GIUSEPPE MATANO,

ESTER ADA VITA SCIPLINO;

– controricorrente –

e contro

EQUITALIA CENTRO SPA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 677/2016 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 21/09/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata del 25/09/2018 dal Consigliere Dott. PAOLA GHINOY.

Fatto

RILEVATO

che:

1. la Corte d’appello di Bologna confermava la sentenza del Tribunale di Piacenza che aveva rigettato l’opposizione proposta da Iren Emilia s.p.a. avverso l’avviso di addebito con il quale l’Inps aveva intimato il versamento della contribuzione cigo, cigs e mobilità per il periodo dicembre 2011-giugno 2012, e delle relative sanzioni civili.

2. Per la cassazione della sentenza Ireti s.p.a., già Iren Emilia s.p.a., e Iren s.p.a. già Iride s.p.a., hanno proposto ricorso, cui ha resistito con controricorso l’Inps – SCCI S.p.A.. Equitalia Centro s.p.a. è rimasta intimata.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. con il primo motivo le società ricorrenti, deducendo plurime violazioni di norme di diritto nonchè vizio di motivazione, hanno censurato la decisione per avere ritenuto dovuti i contributi per cigs e cigo. Ricostruita l’evoluzione normativa in tema di modalità di gestione dei servizi pubblici da parte degli enti locali, rilevato che in base al disposto della L. n. 448 del 2001, art. 35, detti enti, per la gestione di servizi, reti, impianti e beni sono tenuti ad avvalersi di soggetti allo scopo costituiti nella forma di società di capitali con la partecipazione maggioritaria degli enti locali, anche associati, hanno sostenuto che la partecipazione di soggetti pubblici al capitale sociale comportava che esse ricorrenti dovessero essere annoverate nell’ambito delle imprese industriali degli enti pubblici, anche municipalizzate, esonerate, in base al disposto del D.L.C.P.S. n. 869 del 1947, art. 3, dall’applicazione delle norme sull’integrazione dei guadagni degli operai dell’industria. Hanno quindi dedotto il vizio di motivazione della decisione impugnata con riferimento alle allegate caratteristiche della società che, in ragione del peculiare oggetto, della presenza di capitale pubblico, della “assoluta dominanza” dell’ente pubblico, dell’assoggettamento al regime di concessione pubblica ed al controllo della Corte dei Conti, non si prestano ad essere inquadrate, come invece ha fatto la decisione impugnata, nell’ambito delle normali società per azioni di diritto comune. Sostengono che la loro tesi sarebbe confermata dal D.Lgs. n. 148 del 2015, art. 10,che ha espressamente previsto l’assoggettamento alla cassa integrazione (e alla relativa contribuzione) delle imprese industriali degli enti pubblici a far data dal 24.9.2015, nonchè dalla L. n. 208 del 2015, art. 1, comma 309.

2. Con il secondo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 16 commi 1 e 2, nonchè vizio di motivazione, hanno censurato la decisione per avere affermato la sussistenza dell’obbligo al pagamento del contributo per mobilità. Hanno richiamato le argomentazioni svolte a sostegno del primo motivo, per sostenere che non rientravano nel campo di applicazione della disciplina dell’intervento di integrazione salariale di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 14, ed erano pertanto sottratta anche alla contribuzione per mobilità.

3. Con il terzo motivo le società hanno dedotto, in via subordinata, la violazione dell’art. 115 c.p.c. e L. n. 388 del 2000, art. 116, comma 8, lett. a) e comma 15, nonchè la motivazione illogica e contraddittoria. Lamentano che la Corte d’appello abbia ritenuto inammissibile il motivo d’appello relativo alla statuizione del Tribunale che aveva ritenuto dovute le somme aggiuntive, mentre nessun giudicato poteva ritenersi formato sul punto in quanto la sentenza del Tribunale era argomentata sulla base di una mera tautologia, il ricorso in appello riproponeva la questione e successivamente alla proposizione dell’appello erano stati emanati il D.Lgs. n. 148 del 2015 e la L. n. 208 del 2015, che avevano reso ancor più controvertibile l’imposizione contributiva oggetto di causa. Aggiungono che nel frattempo la contribuzione è stata pagata, seppur con salvezza del contenzioso e riserva di ripetizione, come da documento che producono.

4. Il primo ed il secondo motivo, che vengono esaminati congiuntamente per ragioni di connessione, posto che l’obbligo di pagamento dei contributi per mobilità sussiste nei confronti delle sole imprese rientranti nel campo di applicazione della disciplina dell’intervento di integrazione salariale, sono manifestamente infondati (v. in precedente analogo da ultimo Cass. n. 19504 del 23/7/2018).

Secondo il consolidato orientamento di questa Corte (v., tra le altre, Cass. n. 14847/2009, n. 5816/2010, n. 19087, n. 20818, n. 20819, n. 22318, n. 27513/2013, n. 14089 e n. 13721/2014) in tema di contribuzione previdenziale, le società a capitale misto, ed in particolare le società per azioni a prevalente capitale pubblico, aventi ad oggetto l’esercizio di attività industriali sono tenute al pagamento dei contributi previdenziali previsti per la cassa integrazione guadagni e la mobilità, non potendo trovare applicazione l’esenzione stabilita per le imprese industriali degli enti pubblici, trattandosi di società di natura essenzialmente privata, finalizzate all’erogazione di servizi al pubblico in regime di concorrenza, nelle quali l’amministrazione pubblica esercita il controllo esclusivamente attraverso gli strumenti di diritto privato, e restando irrilevante, in mancanza di una disciplina derogatoria rispetto a quella propria dello schema societario, la mera partecipazione – pur maggioritaria, ma non totalitaria – da parte dell’ente pubblico.

E’ stato in particolare precisato che la forma societaria di diritto privato è per l’ente locale la modalità di gestione degli impianti consentita dalla legge e prescelta dall’ente stesso per la duttilità dello strumento giuridico, in cui il perseguimento dell’obiettivo pubblico è caratterizzato dall’accettazione delle regole del diritto privato e che la finalità perseguita dal legislatore nazionale e comunitario nella promozione di strumenti non autoritativi per la gestione dei servizi pubblici locali è specificamente quella di non ledere le dinamiche della concorrenza, assumendo rilevanza determinante, in ordine all’obbligo contributivo, il passaggio del personale addetto alla gestione del servizio dal regime pubblicistico a quello privatistico (Cass. n. 20818/2013, Cass. n. 27513/2013).

Le argomentazioni dell’odierna ricorrente ripropongono questioni già esaminate e disattese dai precedenti giurisprudenziali richiamati ai quali, pertanto, va data continuità (cfr. in termini Cass. 1.12.2014 n. 25394), nè risultano decisive le argomentazioni formulate per contrastare la ricostruzione fattuale assunta dalla Corte territoriale.

5. Resta da aggiungere che le suesposte conclusioni non possono essere scalfite nè dal D.Lgs. n. 148 del 2015, art. 10, il quale – per quanto qui interessa – ha espressamente previsto l’assoggettamento alla cassa integrazione (e alla relativa contribuzione) delle imprese industriali aventi ad oggetto la “produzione e distribuzione dell’energia, acqua e gas”, dal momento che la sua natura innovativa rispetto al quadro ordinamentale già esistente è già stata espressamente disconosciuta dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. in tal senso Cass. nn. 9816 del 2016, 26016 e 26202 del 2015), nè a fortiori dalla L. n. 208 del 2015, art. 1, comma 309, il quale, nel far salvo dal novero delle abrogazioni previste dal D.Lgs. n. 148 del 2015, art. 46, D.L.C.P.S. n. 869 del 1947, art. 3 (a norma del quale “sono escluse dall’applicazione delle norme sulla integrazione dei guadagni degli operai dell’industria (…) le imprese industriali degli enti pubblici, anche se municipalizzate, e dello Stato”), ha semmai confermato la voluntas legis di escludere dall’area di operatività delle disposizioni concernenti l’integrazione salariale soltanto quei soggetti che possano qualificarsi come “imprese industriali dello Stato o di altri enti pubblici”, tra le quali, per le ragioni anzidette, non possono figurare le imprese gestite in forma di società a partecipazione pubblica (così Cass. nn. 7332 e 8704 del 2017, dove il richiamo a Cass. S.U. nn. 26283 del 2013 e 5491 del 2014).

6. Il terzo motivo di ricorso, che concerne il regime sanzionatorio, è inammissibile.

La motivazione della Corte territoriale che ha ritenuto formatosi il giudicato per mancata specifica impugnazione della sentenza del Tribunale in punto sanzioni non può essere infatti revocata in dubbio in ragione della qualità della motivazione che il Tribunale aveva assunto, nè sulla base di fatti sopravvenuti al giudicato stesso.

7. Occorre peraltro rilevare che non risulta che parte ricorrente abbia tempestivamente allegato di avere provveduto all’integrale pagamento dei contributi dovuti, circostanza questa che, secondo quanto già affermato da questa Corte (Cass. 01/03/2016 n. 4077, Cass. 10/12/2013 n. 27513), il citato comma 15 pone come premessa per la riduzione delle sanzioni civili, in caso di ritardato o omesso pagamento dei contributi “derivanti da oggettive incertezze connesse a contrastanti ovvero sopravvenuti diversi orientamenti giurisprudenziali o determinazioni amministrative sulla ricorrenza dell’obbligo contributivo successivamente riconosciuto in sede giurisdizionale o amministrativa in relazione alla particolare rilevanza delle incertezze interpretative che hanno dato luogo inadempienza”. Tale fatto risulta infatti inammissibilmente dedotto solo nel presente giudizio di cassazione, in cui non sono proponibili nuove questioni di diritto o temi di contestazione diversi da quelli dedotti nel giudizio di merito, a meno che si tratti di questioni rilevabili di ufficio o, nell’ambito delle questioni trattate, di nuovi profili di diritto compresi nel dibattito e fondati sugli stessi elementi di fatto dedotti. (Cass. n. 23675 del 18/10/2013, Cass. n. 4787 del 26/03/2012, Cass. n. 3664 del 21/02/2006).

8. Il ricorso, manifestamente infondato ex art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5, deve quindi essere rigettato con ordinanza in camera di consiglio, così confermandosi la proposta formulata dal relatore ex art. 380 bis c.p.c..

9. La regolamentazione delle spese processuali in favore del controricorrente, liquidate come da dispositivo, segue la soccombenza. Nulla per le spese nei confronti della parte rimasta intimata.

10. Sussistono i presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

rigetta il ricorso. Condanna le ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore dell’Inps, che liquida in complessivi Euro 6.000,00 per compensi, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, rimborso delle spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.Lgs. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte delle ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 25 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 7 novembre 2018

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