Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28465 del 05/11/2019

Cassazione civile sez. II, 05/11/2019, (ud. 11/09/2019, dep. 05/11/2019), n.28465

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARRATO Aldo – Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – rel. Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15556/2015 proposto da:

T.M., M.C., T.E.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CLAUDIO MONTEVERDI 16, presso

lo studio dell’avvocato PATRIZIA AMORETTI, rappresentati e difesi

dagli avvocati FRANCESCO PAOLO MANSI, RAFFAELE TORTORIELLO;

– ricorrenti –

contro

TU.MA.LU., elettivamente domiciliata in ROMA, V. CICERONE

49, presso lo studio dell’avvocato SVEVA BERNARDINI, rappresentata e

difesa dall’avvocato ARMANDO CALOGERO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1901/2014 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 30/04/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio

dell’11/09/2019 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA.

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

T.M., M.C. ed T.E. hanno presentato ricorso articolato in tre motivi avverso la sentenza della Corte di appello di Napoli n. 1091/2014 depositata in data 30 aprile 2014.

Tu.Ma.Lu. ha resistito con controricorso.

Con atto di citazione notificato il 28 aprile 2004, Tu.Ma.Lu., proprietaria dell’immobile sito in (OMISSIS), convenne dinanzi al Tribunale di Napoli T.M., M.C. ed T.E., i primi due quali usufruttuari e la terza quale nuda proprietaria dell’immobile “porticato”, sito nel medesimo fabbricato condominiale e confinante con l’appartamento dell’attrice, la quale domandò la condanna dei convenuti alla rimozione della struttura in legno e del casotto realizzati dai convenuti su due lati del “porticato”, infissi nel cornicione ed ai pilastri del fabbricato. Tu.Ma.Lu. dedusse la violazione dell’art. 1102 c.c., comma 2 e dell’art. 7 del regolamento di condominio, che sancisce il divieto assoluto di apportare qualsiasi modifica alle parti esterne o nelle zone comuni dell’edificio, che comunque alterino l’aspetto architettonico dell’immobile.

I convenuti si costituirono proponendo domanda riconvenzionale per l’eliminazione delle grate in ferro apposte in corrispondenza delle due finestre della facciata posteriore dell’appartamento di Tu.Ma.Lu..

Il Tribunale di Napoli, con sentenza n. 5648 del 2006, rigettò le reciproche domande, escludendo la compromissione del decoro architettonico, anche per la presenza di altre quattro verande a chiusura dei balconi.

Tu.Ma.Lu. propose appello, osservando che la staccionata in legno ed il casotto fossero comunque infissi ai pilastri del fabbricato ed incidessero, quindi, sul bene comune. Si costituirono T.M., M.C. ed T.E., proponendo appello incidentale condizionato in ordine alla eliminazione anche delle grate in ferro poste alle due finestre della facciata posteriore dell’appartamento di proprietà Tu..

La Corte di appello di Napoli, con sentenza n. 1091/2014, accolse sia l’appello principale che quello incidentale condizionato, condannando T.M., M.C. ed T.E. alla rimozione della struttura in legno, delle canne intrecciate e del casotto in legno posti sui lati del “porticato” e condannando Tu.Ma.Lu. alla rimozione delle grate in ferro poste alle finestre del proprio appartamento, rigettando le reciproche richieste risarcitorie e compensando le spese di lite di entrambi i gradi del processo.

In particolare, la Corte di Napoli ha ritenuto che le opere dei convenuti costituissero una violazione dell’art. 7 del regolamento condominiale, intesa come norma di contenuto più ampio dell’art. 1120 c.c., giacchè fondata sul generico concetto di “aspetto architettonico” e facente espresso riferimento proprio ai divisori ed all’utilizzo dei pilastri, come avvenuto nel caso in esame.

La trattazione del ricorso è stata fissata in Camera di consiglio, a norma dell’art. 375 c.p.c., comma 2 e art. 380 bis.1 c.p.c..

I ricorrenti hanno depositato memoria in data 1 agosto 2019, e dunque senza osservare il termine “non libero” di dieci giorni anteriori alla data dell’adunanza ex art. 380 bis.1 c.p.c., operando il criterio generale di cui all’art. 155 c.p.c., comma 1, nonchè la proroga di cui dell’art. 155 c.p.c., comma 4, in relazione alla scadenza in giorno festivo (domenica 1 settembre 2019), e tenuto altresì conto della sospensione dei termini processuali durante il periodo feriale, ai sensi della L. n. 742 del 1969, art. 1 (come sostituito dal D.L. n. 132 del 2014, art. 16, comma 1, conv., con modif. in L. n. 162 del 2014), che comporta la sottrazione del medesimo periodo dal relativo computo a ritroso.

LII primo motivo di ricorso di T.M., M.C. ed T.E. deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1120 e 1127 c.c. e degli artt. 2 e 7 del regolamento del condominio sito in (OMISSIS), per aver erroneamente ritenuto la Corte di appello che l’art. 7 del regolamento di condominio, nel limitare gli eventuali interventi dei condomini, facesse espresso riferimento “proprio ai divisori ed all’utilizzo dei pilastri, cioè a situazione perfettamente coincidente con la fattispecie qui decisa, dove si tratta appunto di una parete divisoria – oltre che della installazione di una specie di baracca in legno – che innesta nei pilastri”. La Corte di Napoli, proseguono i ricorrenti, avrebbe poi erroneamente aggiunto che la disciplina del menzionato art. 7, più rigorosa rispetto all’art. 1120 c.c., che vieta le modifiche all'”aspetto architettonico” dell’edificio e non solo al “decoro” dello stesso, è perfettamente legittima e compatibile, da ciò concludendo la sentenza impugnata che avrebbero dovuto essere eliminate le barriere frangivento in questione. I ricorrenti osservano che la Corte di Napoli ha omesso di considerare che il regolamento condominiale, proprio in relazione ai terrazzi di copertura delle varie parti del fabbricato ed all’unità immobiliare in questione, specifica come la “costruttrice Soc. M.E.P. successivamente trasformata in Fin Med. S.p.a., dante causa degli attuali ricorrenti, si riserva anche il diritto di costruire in sopraelevazione senza corrispondere nulla ai condomini sulla parte di essa sovrastante il corpo principale, sia del porticato sovrastante le autorimesse nn. 1, 2, 3 e 4”. Pertanto, i proprietari ed usufruttuari dell’unità immobiliare porticato ben avrebbero potuto realizzare una sopraelevazione. Inoltre, a dire dei ricorrenti, i giudici di secondo grado non avrebbero rilevato che l’art. 7 del regolamento condominiale contempla solo un divieto di “apportare qualsiasi modifica alle parti esterne dell’edificio o nelle zone comuni” e non, come avvenuto nel caso in esame, all’interno della proprietà esclusiva.

Col secondo motivo di ricorso i ricorrenti censurano la violazione e falsa applicazione degli artt. 1120 e 1127 c.c. e degli artt. 2 e 7 del regolamento del condominio sito in (OMISSIS), per avere la Corte d’appello erroneamente ritenuto che l’art. 7 del medesimo regolamento condominiale facesse riferimento al concetto di “aspetto architettonico”, più rigoroso di quello di “decoro architettonico”, e che comunque esso andasse interpretato in modo da vietare qualsiasi modifica allo stato dell’edificio, non tenendo in alcun modo conto dell’esistenza di precedenti modifiche che avevano già ampiamente alterato l’aspetto e il decoro architettonici dell’edificio.

Il terzo motivo di ricorso lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, per avere la Corte di appello trascurato di considerare sia l’esistenza delle precedenti modifiche alla facciata interessata dagli interventi, sia la vigenza dell’art. 2 del regolamento di condominio, in base al quale avrebbero potuto apporsi le strutture in questione sul terrazzo anche in deroga all’art. 1127 c.c..

1.1. I tre motivi di ricorso vanno congiuntamente esaminati, perchè connessi. Gli stessi motivi sono connotati da profili di inammissibilità, si rivelano comunque infondati.

Quanto, in particolare, alla terza censura, questa Corte ha ormai chiarito come l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, abbia introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. U, 07/04/2014, n. 8053). Costituisce, peraltro, un “fatto”, agli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non una “questione” o un “punto”, ma un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza naturalistica, un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante (Cass. Sez. 1, 04/04/2014, n. 7983; Cass. Sez. 1, 08/09/2016, n. 17761; Cass. Sez. 5, 13/12/2017, n. 29883; Cass. Sez. 5, 08/10/2014, n. 21152; Cass. Sez. U., 23/03/2015, n. 5745; Cass. Sez. 1, 05/03/2014, n. 5133). In tal senso, la sentenza della Corte d’Appello di Napoli ha chiaramente preso in considerazione la preesistenza di interventi modificatori del decoro architettonico (punto 2. Sul pregiudizio al decoro architettonico, pagina 3). Trattasi, comunque, di fatto che non rivela alcuna decisività, avendo i giudici di secondo grado incentrato la loro motivazione sulla violazione dell’art. 7 del regolamento condominiale.

In ordine invece alla portata dell’art. 2 del medesimo regolamento di condominio, che riservava alla costruttrice il diritto di costruire in sopraelevazione anche sul porticato sovrastante le autorimesse (diritto ceduto ai ricorrenti in forza di atto del 1 aprile 1992), si tratta di questione di cui non vi è cenno nella sentenza impugnata, comunque postulante indagini ed accertamenti non compiuti dai giudici di merito e non eseguibili nel procedimento di cassazione mediante diretto accesso agli atti. Il ricorrente per cassazione, che, come nella specie, proponga questioni che implicano accertamenti di fatto e delle quali non si faccia menzione alcuna nella sentenza impugnata, ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, agli effetti dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 6, non solo di allegare l’avvenuta tempestiva deduzione delle questioni dinanzi al giudice di merito, nel rispetto dei termini di operatività delle preclusioni relative al “thema decidendum” previsti nell’art. 183 c.p.c., ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto (e cioè di specificare il “dato”, testuale o extratestuale, da cui essa risulti devoluta, nonchè il “come” e il “quando” tali questioni siano stata oggetto di discussione processuale tra le parti), onde dar modo alla Corte di cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito le questioni stesse.

Circa le indicazioni delle norme di diritto che in ricorso si assumono violate, deve considerarsi come sia erroneo il riferimento che viene fatto dai ricorrenti (come anche dalla sentenza impugnata, che in tal senso occorre correggere) all’art. 1120 c.c.: secondo l’interpretazione di questa Corte, che va qui ribadita, in tema di condominio negli edifici, si distinguono, sia dal punto di vista oggettivo, che da quello soggettivo, le innovazioni, di cui propriamente all’art. 1120 c.c., dalle modificazioni, disciplinate invece dall’art. 1102 c.c.: sotto il profilo oggettivo, le prime consistono in opere di trasformazione, che incidono sull’essenza della cosa comune, alterandone l’originaria funzione e destinazione, mentre le seconde si inquadrano nelle facoltà riconosciute al condomino, con i limiti indicati nello stesso art. 1102 c.c., per ottenere la migliore, più comoda e razionale utilizzazione della cosa; per quanto concerne, poi, l’aspetto soggettivo, nelle innovazioni rileva l’interesse collettivo di una maggioranza qualificata, espresso con una deliberazione dell’assemblea, elemento che invece difetta nelle modificazioni, che non si confrontano con un interesse generale, bensì con quello del singolo condomino, al cui perseguimento sono rivolte (da ultimo, Cass. Sez. 2, 04/09/2017, n. 20712).

E’ altrettanto irrituale il riferimento agli artt. 2 e 7 del regolamento di condominio nei primi due motivi di ricorso, coi quali si lamenta la violazione o falsa applicazione di norme di diritto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), non avendo il regolamento condominiale natura di atto normativo generale e astratto (Cass. Sez. 2, 07/06/2011, n. 12291; Cass. Sez. 6 – 2, 07/08/2018, n. 20567).

Emerge comunque l’infondatezza delle censure.

Invero, l’orientamento consolidato di questa Corte – proprio con riguardo a disposizioni che, come l’art. 7 del regolamento del Condominio di (OMISSIS), stabiliscano il “divieto assoluto di apportare qualsiasi modifica alle parti esterno dell’edificio o nelle zone comuni, che comunque alterino l’attuale aspetto architettonico dell’edificio” – riconosce all’autonomia privata la facoltà di stipulare convenzioni che pongano limitazioni nell’interesse comune ai diritti dei condomini, anche relativamente al contenuto del diritto dominicale sulle parti comuni o di loro esclusiva proprietà. Inoltre, il regolamento può validamente dare del limite del decoro architettonico una definizione più rigorosa di quella accolta dall’art. 1120 c.c. e supposta dal medesimo art. 1102 c.c., arrivando al punto di imporre la conservazione degli elementi attinenti alla simmetria, all’estetica ed all’aspetto generale dell’edificio (cfr. indicativamente Cass. Sez. 2, 21/05/1997, n. 4509; Cass. Sez. 2, 02/05/1975, n. 1680; Cass. Sez. 2, 29/04/2005, n. 8883; Cass. Sez. 2, 24/01/2013, n. 1748; Cass. Sez. 2, 19/12/2017, n. 30528.).

Il regolamento di condominio può, del resto, validamente derogare alle disposizioni dell’art. 1102 c.c. (Cass. Sez. 2, 09/11/1998, n. 11268).

L’elaborazione della giurisprudenza di legittimità, cui si è sostanzialmente uniformata la Corte d’Appello di Napoli (affermando la ravvisabilità del contrasto col divieto regolamentare posto dal citato art. 7 della modifica realizzata dai ricorrenti, in quanto apportata su di una parete divisoria, elemento strutturale espressamente contemplato dalla prescrizione del regolamento), spiega come le modificazioni apportate da uno dei condomini, nella specie alle parti comuni, in violazione del divieto previsto dal regolamento di condominio, connotano tali opere come abusive e pregiudizievoli al decoro architettonico dell’edificio e configurano l’interesse processuale del singolo condomino che agisca in giudizio a tutela della cosa comune (cfr. Cass. Sez. 2, 09/06/1988, n. 3927; Cass. Sez. 2, 15/01/1986, n. 175).

Il decoro architettonico, che caratterizzi la fisionomia dell’edificio condominiale, è un bene comune, ai sensi dell’art. 1117 c.c., il cui mantenimento è tutelato a prescindere dalla validità estetica assoluta delle modifiche che si intendono apportare (Cass. Sez. 2, 04/04/2008, n. 8830). Il giudizio relativo all’impatto di un’innovazione sul decoro architettonico dell’edificio si basa, peraltro, su un’indagine di fatto tipicamente demandata al giudice del merito (Cass. Sez. 2, 11/05/2011, n. 10350; Cass. Sez. 2, 07/02/1998, n. 1297), rimanendo il relativo apprezzamento sindacabile in sede di legittimità soltanto nei limiti di cui al vigente art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

E’ stato parimenti più volte ribadito che la tutela del decoro architettonico – di cui all’art. 1120 c.c., comma 2, nella formulazione applicabile alla fattispecie in esame ratione temporis (art. 1120 c.c., comma 4, art. 1122 c.c., comma 1 e art. 1122-bis c.c., dopo le modifiche introdotte con L. n. 220 del 2012) – è apprestata in considerazione della apprezzabile alterazione delle linee e delle strutture fondamentali dell’edificio, od anche di sue singole parti o elementi dotati di sostanziale autonomia, e della consequenziale diminuzione del valore dell’intero edificio e, quindi, anche di ciascuna delle unità immobiliari che lo compongono. Ne consegue che il giudice, per un verso, deve adottare, caso per caso, criteri di maggiore o minore rigore in considerazione delle caratteristiche del singolo edificio e/o della parte di esso interessata, accertando anche se esso avesse originariamente ed in qual misura un’unitarietà di linee e di stile, suscettibile di significativa alterazione in rapporto all’innovazione dedotta in giudizio, nonchè se su di essa avessero o meno già inciso, menomandola, precedenti innovazioni. Per altro verso, il giudice deve accertare che l’alterazione sia appariscente e di non trascurabile entità e tale da provocare un pregiudizio estetico dell’insieme suscettibile di un’apprezzabile valutazione economica, mentre detta alterazione può affermare senza necessità di siffatta specifica indagine solo ove abbia riscontrato un danno estetico di rilevanza tale, per entità e/o natura, che quello economico possa ritenervisi insito.

Il decoro, peraltro, proprio perchè non è correlato alla sola estetica del fabbricato, ma anche alle condizioni di singoli elementi o di singole parti dello stesso, differisce dall’aspetto architettonico, cui invece fa riferimento l’art. 1127 c.c., comma 3, quale limite alle sopraelevazioni, giacchè quest’ultimo sottende il riferimento allo stile del fabbricato, alla fisionomia ed alle linee impresse dal progettista, in modo percepibile da qualunque osservatore (Cass. Sez. 6-2, 12/09/2018, n. 22156).

Ove tuttavia, come nel caso in esame, sia presente nel regolamento di condominio un divieto di apportare “qualsiasi modifica alle parti esterne dell’edificio o nelle zone comuni, che comunque alterino l’attuale aspetto architettonico dell’edificio, e ciò con particolare riferimento ai divisori e ringhiere di balconi, ai rivestimenti dei pilastri e delle murature, alla schermatura della facciata posteriore, alle fioriere,..,” ecc., non è censurabile in sede di legittimità, sotto il profilo della violazione e falsa applicazione degli artt. 1120 e 1127 c.c. (come appunto fatto in ricorso) l’interpretazione negoziale di tale divieto nel senso che esso renda superfluo, in caso di sua inosservanza, l’esame giudiziale circa il rispetto, o meno, del decoro architettonico del complesso immobiliare (arg. da Cass. Sez. 2, 13/06/2013, n. 14898).

Si consideri, infatti, come l’interpretazione delle clausole di un regolamento condominiale contrattuale è sindacabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale, ovvero per l’omesso esame di fatto storico ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. Sez. 2, 30/06/2011, n. 14460; Cass. Sez. 2, 31/07/2009, n. 17893; Cass. Sez. 2, 23/01/2007, n. 1406; Cass. Sez. 2, 14/07/2000, n. 9355; Cass. Sez. 2, 02/06/1999, n. 5393).

In un precedente di questa Corte, venne confermata, in tal senso, la decisione dei giudici di merito, che aveva ritenuto che la clausola del regolamento di condominio, richiamato negli atti di acquisto, che faceva divieto di effettuare qualunque modifica o variazione esterna all’edificio, costituisse altresì titolo per l’esclusione del diritto di sopraelevazione riconosciuto al proprietario dell’ultimo piano dall’art. 1127 c.c. (Cass. Sez. 2, 14/01/1993, n. 395).

Quanto alla nuova considerazione, introdotta nel giudizio di legittimità, che vorrebbe far qualificare proprio come sopraelevazione il manufatto realizzato “lungo i lati del porticato” nella disponibilità T.M., M.C. ed T.E., va ancora ricordato che questa Corte ha più volte affermato come, ai fini dell’art. 1127 c.c., la sopraelevazione di edificio condominiale è costituita soltanto dalla realizzazione di nuove opere (nuovi piani o nuove fabbriche) nell’area sovrastante il fabbricato, per cui l’originaria altezza dell’edificio è superata con la copertura dei nuovi piani o con la superficie superiore terminale delimitante le nuove fabbriche (Cass. Sez. 6-2, 20/12/2018, n. 33037; Cass. Sez. 2, 24/10/1998, n. 10568; Cass. Sez. 2, 10/06/1997, n. 5164; Cass. Sez. 2, 24/01/1983, n. 680; Cass. Sez. 2, 07/09/2009, n. 19281).

II. Consegue il rigetto del ricorso, regolandosi le spese del giudizio di cassazione secondo soccombenza in favore del controricorrente

Sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione rigettata.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna in solido i ricorrenti a rimborsare al controricorrente le spese sostenute nel giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti in via solidale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 11 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2019

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