Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28460 del 19/12/2013


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Civile Sent. Sez. 3 Num. 28460 Anno 2013
Presidente:
Relatore:

SENTENZA
sul ricorso 4288-2008 proposto da:
COMUNE GRAGNANO 00646300632, in persona del Sindaco
pro tempore, elettivamente domiciliato ex lege in
ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE,
rappresentato e difeso dall’avvocato CASTALDI FILIPPO
in 84014 NOCERA INFERIORE (SA), Piazza D’Amora 3,
2013

giusta delega in atti;
– ricorrenti –

1881

contro

INGENITO ADRIANA NGNDRN42L70E131W, PATRIARCA ANNARITA
PTRNRT71L67F839H, PATRIARCA ILARIA PTRLRI74B47C129U,

1

Data pubblicazione: 19/12/2013

PATRIARCA ALESSANDRO PTRLSN77C08C129J, elettivamente
domiciliati in ROMA, VIA COLA DI RIENZO 271, presso lo
studio dell’avvocato TORNITORE ANTONELLO, che li
rappresenta e difende giusta delega in atti;
ANAS

S.P.A.,

in

persona

del

proprio

legale

in ROMA,

VIA TEULADA 38-A,

presso lo studio

dell’avvocato LOCATELLI GIOVANNI MARIA, che la
rappresenta e difende unitamente all’avvocato VENDITTI
STEFANO giusta procura speciale notarile del Dott.
Notaio LEONARDO MILONE in ROMA del 15/02/2008 rep. n.
61327;
BONIFAZI

LUCIANA

BNFLCN30A59G224H,

LONGOBARDI

PASQUALINA LNGPQL64A69G8130, LONGOBARDI FRANCESCO
LNGFNC39M30G813A, CALABRESE ROSA CLBRS038H59E131U,
LONGOBARDI MARIA LNGMRA35A44G813H, FALABRETTI ELENA
FLBLNE29S51C129L, CUOMO TERESINA O MARIA TERESA
CMUTSN21E71I300I, RUSSO FRANCESCA RSSFNC49C45C129A,
elettivamente domìciliati in ROMA, VIA MARIANNA
DIONIGI 57, presso lo studio dell’avvocato BONIFAZI
LUCIANA, rappresentati e difesi dagli avvocati TORRE
BRUNO, TORRE FRANCESCA, TORRE GIANLUCA giusta delega
in atti;
– controricorrenti nonchè contro

CUOMO MARIO, BUONOCORE LUIGI, TORELLA GIUSEPPE, AGEN

2

rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliata

PROMOZIONE SVIL MEZZOGIORNO , TAGLIAFERRO CARMELA,
SANSEVERINO VITTORIO, PROTA TOMMASO, OTTONE CIRO,
SECONDULFO GENNARO;
– intimati sul ricorso 7436-2008 proposto da:

TOMMASO

PRTTMS37S22E131Z,

elettivamente

domiciliato in ROMA, VIALE DEI COLLI PORTUENSI 187,
presso lo studio dell’avvocato GUERRIERO UGO,
rappresentato e difeso dall’avvocato FURNO ERIK giusta
delega in atti;
– ricorrente contro

ANAS S.P.A., in persona del proprio rappresentante
legale pro-tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,
VIA TEULADA 38-A, presso lo studio dell’avvocato
VENDITTI STEFANO, che la rappresenta e difende
unitamente all’avvocato LOCATELLI GIOVANNI MARIA
giusta procura speciale notarile del Dott. Notaio
LEONARDO MILONE in ROMA del 26/03/2008 REP. N. 61490;
– controrícorrente nonchè contro

PATRIARCA ANNARITA PTRNRT71L67F839H, OTTONE CIRO,
PATRIARCA ILARIA PTRLRI74B47C129U, PATRIARCA
ALESSANDRO PTRLSN77C08C129J, SECONDUFLO GENNARO, COM
GRAGNANO 00646300632, LONGOBARDI PASQUALINA
LNGPQL64A69G8130, INGENITO ADRIANA NGNDRN42L70E131W,

3

PROTA

AGEN PROMOZIONE SVIL MEZZOGIORNO EX CASMEZ, TORELLA
GIUSEPPA, LONGOBARDI FRANCESCO LNGFNC39M30G813A,
CALABRESE ROSA CLBRS038H59E131U, TAGLIAFERRO CARMELA,
BONIFAZI LUCIANA BNFLCN30A59G224H, CUOMO TERESINA O
MARIA TERESA CMUTSN21E71I300I, FALABRETTI ELENA

MARIA LNGMRA35A44G813H, BUONOCORE LUIGI;
– intimati –

avverso la sentenza n. 1641/2007 della CORTE D’APPELLO
di NAPOLI, depositata il 18/05/2007 R.G.N. 2249/01,
2331/01, 2613/01, 3438/01;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 11/10/2013 dal Consigliere Dott. RAFFAELE
FRASCA;
udito l’Avvocato ANNA CUCCHIARINI per delega;
udito l’Avvocato MECHELLI per delega orale dell’Avv.
GIOVANNI MARIA LOCATELLI;
udito l’Avvocato ERIK FURNO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. CARMELO SGROI che ha concluso, previa
riunione, per il rigetto di entrambi i ricorsi.

4

FLBLNE29S51C129L, SANSEVERINO VITTORIO, LONGOBARDI

R.g.n. 4288-08; 7436-08 (ud. 11.10.2013)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

§1. Il Comune di Gragnano ha proposto ricorso per cassazione, iscritto al n.r.g. 4288
del 2008 avverso la sentenza del 18 maggio 2007, resa in grado d’appello dalla Corte di
Appello di Napoli, con cui è stata parzialmente riformata la sentenza resa in primo grado
dal Tribunale di Napoli su tre giudizi riuniti, rispettivamente introdotti:

Fumagalli e di padre di Costanza Francesconi, per ottenere il risarcimento dei danni
sofferti per la loro morte a seguito di una frana di ingenti dimensioni proveniente dalla
cima del Monte Pendolo, che nel gennaio del 1971 aveva travolto alcune villette ed un’ala
dell’albergo “La selva”, siti sulle falde della montagna e poco tempo prima costruiti;
b) nel luglio del 1985 dallo stesso Francesconi, sempre per ottenere il risarcimento
del danno, contro Ciro Ottone, tecnico redigente i progetti di costruzione delle unità
immobiliari travolte ed imprenditore, Luigi Buonocore, in qualità di autore
dell’allargamento di un viottolo nella zona interessata, Tommaso Prota, capo dell’Ufficio
Tecnico del Comune, Francesco Patriarca, all’epoca dei fatti sindaco del Comune: in tale
giudizio l’Ottone, oltre a svolgere domanda riconvenzionale di risarcimento danni contro
gli altri convenuti, chiedeva ed otteneva di chiamare in causa Vittorio Sanseverino,
imprenditore, Giuseppe Torella, direttore dei lavori, Gennaro Secundulfo, committente e
Carmela Tagliaferri, proprietaria del terreno sui cui era stato edificato l’albergo, l’ANAS e
l’Acquedotto Ausino Sorrentino (poi scomparso nella sentenza impugnata), indicandoli
come responsabili e svolgendo domanda risarcitoria nei loro riguardi;
c) sempre nel luglio del 1985 da Rosa Calabrese, in proprio e quale legale
rappresentante della figlia Maria Rosaria Alfano, entrambe eredi di Luigi Alfano, cuoco
dell’albergo, deceduto nell’evento, da Maria Teresa Cuomo e Armando Acanfora, nella
qualità di genitori del figlio Vincenzo, perito nel disastro, da Elena Falabretti, che aveva
subito gravi lesioni nel sinistro, contro l’Ottone (che chiamava in giudizio il Sanseverino, il
Torella, il Secundulfo e la Taglaferri), il Buonocore, il Prota, ed il Patriarca.
§2. Nel corso dello svolgimento dei giudizi riuniti seguivano un’interruzione per il
decesso di uno dei difensori dei convenuti, la rimessione all’istituito Tribunale di Torre
Annunziata ex 1. n. 126 del 1992, la declaratoria di incompetenza di quest’ultimo ai sensi
dell’art. 25 c.p.c. e la riassunzione dinanzi al Tribunale di Napoli nel settembre del 1997 da
parte dei danneggiati (con subentro quale erede di Raffaello Francesconi, della vedova
Luciana Bonifazi, in proprio e nella qualità di legale rappresentante di Franca e Adele

Est. Cons. Reffae1e Frasca

a) nel febbraio 1979 da Raffaello Francesconi, nella qualità di coniuge di Luigia

R.g.n. 4288-08; 7436-08 (ud. 11.10.2013)

Francesconi, e, per quello che si legge nella sentenza impugnata gli eredi di Gennaro
Longobardi – non nominato in precedenza nello svolgimento processuale della sentenza qui
.. impugnata – e fra essi Maria Longobardi anche in proprio). La riassunzione, per quello che
si legge in sentenza, veniva effettuata nei confronti del Comune di Gragnano, del Patriarca,
del Prota, dell’Ottone, del Buonocore, del Sanseverino, del Torella, della Tagliaferro, del
Sectmdulfo, dell’ANAS e della Casmez (della cui legittimazione nulla si dice).
Con sentenza del 2000 il Tribunale di Napoli, in persona di un G.O.A., concludeva il

lungo iter processuale di primo grado riconoscendo la responsabilità di tutti i convenuti in
riassunzione dei giudizi riuniti e condannandoli al pagamento di varie somme a titolo
risarcitorio in favore della Bonifazi, della Calabrese, della Cuomo e dell’Acanfora, della
Falabretti, nonché di Pasquale, Francesco e Maria Longobardi, nella qualità di eredi di
Gennaro Longobardi e l’ultima anche in proprio. Rigettava, invece, la domanda
riconvenzionale dell’Ottone
§3. La sentenza veniva fatta oggetto di separati appelli in via principale dal Patriarca,
dall’ANAS, dal Sanseverino e dal Prota, nonché in via incidentale dal Comune di
Gragnano, dall’Ottone (che si doleva anche del rigetto della riconvenzionale), dall’Agenzia
per la Promozione dello sviluppo del Mezzogiorno (ex Casmez), dal Secondulfo e dalla
Tagliaferro, nonché dai danneggiati sul quantum debeatur.
Riuniti gli appelli, nella contumacia del Buonocore e del Torella, la Corte d’Appello
di Napoli, con la sentenza impugnata, in parziale riforma della sentenza di primo grado ed
in accoglimento dei rispettivi appelli principali ed incidentali, rigettava le domande
proposte contro il Sanseverino, il Torella, la Tagliaferro, il Secundulfo, il Patriarca, la già
Casmez, mentre rigettava gli appelli principali ed incidentali del Comune di Gragnano, del
Prota, dell’Ottone e dei danneggiati.
§4. Il ricorso del Comune di Gragnano, iscritto al n.r.g. 4288 del 2008 è stato
proposto contro: 1) Luciana Bonifazi, vedova Francesconi, nella qualità di erede del
medesimo e di legale rappresentante di Franca e Adele Francesconi; 2) Teresina (o Maria
Teresa) Cuomo, in proprio e quale erede di Armando Acanfora, in persona del suo
procuratore speciale Mario Cuomo (che già la rappresentava nel giudizi di appello); 3)
Pasquale, Francesco e Maria Longobardi, nella qualità di eredi di Gennaro Longobardi e
l’ultima anche in proprio; 4) Elena Falabretti; 5) Rosa Calabrese; 6) Adriana Ingenito,
moglie ed erede di Francesco patriarca, deceduto il 7 dicembre 2007, Annarita, Ilaria ed
Alessandro Patriarca, figli ed eredi del detto de cuius; 7) l’A.N.A.S.- Ente Nazionale per le
Strade; 8) Vittorio sanseverino; 9) Tommaso Prota; 10) Carmela Tagliaferro; 11) Ciro

6
Est. Cons. R ffaele Frasca

R.g.n. 4288-08; 7436-08 (ud. 11.10.2013)

ottone; 12) Gennaro Secondulfo; 13) l’Agenzia per la Promozione e lo Sviluppo del
Mezzogiorno (ex CASMEZ); 14) Lugi Buonocore; 15) Giuseppe Torella.
§4.1. Al suddetto ricorso principale hanno resistito con un congiunto controricorso la
Bonifazi (quale vedova ed erede di Raffaello Francesconi e procuratrice speciale di Franca
ed Adele Francesconi), Teresina o Maria Teresa Cuomo (quale vedova ed erede di
Armando Acanfora), Francesco Longobardi, Francesca Russo e Pasqualina Longobardi
Longobardi (tutti e quattro in proprio e nella qualità di eredi di Gennaro Longobardi),
Elena Falabretti e Rosa Calabrese.
Con altro controricorso hanno resistito la Ingenito ed i Patriarca nelle qualità di eredi
di Francesco Patriarca e con altro ancora ha resistito la s.p.a. ANAS.
Ha resistito, inoltre, il Prota con separato controricorso, nel quale ha svolto ricorso
incidentale iscritto al n.r.g. 7436 del 2008.
A tale ricorso ha resistito con controricorso l’ANAS.
§5. Hanno depositato memorie l’ANAS e il Prota.
MOTIVI DELLA DECISIONE
§1. Preliminarmente il ricorso incidentale proposto dal Prota, iscritto al n.r.g. 7436
del 2008, dev’essere riunito al ricorso principale proposto dal Comune di Gragnano, in
seno al quale è stato proposto.
§1.1. Va poi rilevato che il Comune di Gragnano ha depositato copia autentica della
sentenza incompleta, perché in essa manca la pagina 20. La copia completa, nella quale si
rinviene la pagina è stata, invece, prodotta dal ricorrente incidentale. La valutazione d
procedibilità de ricorso deve farsi separatamente, non potendo l’incompletezza del
deposito della copia autentica del primo ricorso, adempimento ricollegato alla scadenza del
termine per il deposito del ricorso (Cass. sez. un. n. 9005 del 2009), avvenire tramite un
atto aliunde e soprattutto successivo ala scadenza di quel termine. Nel caso di specie,
tuttavia, la mancanza della pagina non impedirebbe lo scrutinio di tutto il ricorso, ma
semmai solo di taluni motivi, onde il ricorso principale non può essere dichiarato
improcedibile e, come si vedrà, anche lo scrutinio dei motivi che si correlano alla pagina
20 risulterà comunque possibile.

Est. Cons. afIe Frasca

(nella qualità rispettiva di moglie e figlia di Pasquale Longobardi e di sue eredi), e Maria

R.g.n. 4288-08; 7436-08 (ud. 11.10.2013)

§2. Con il primo motivo di ricorso principale si deduce “violazione e/o falsa
applicazione degli artt. 2043 e 1223 c.c., 40 e 41 c.p., 31-32-33, 1. 17 agosto 1942 n. 1150,
5 1. 1684/62 (art. 360, 1° co, n. 3 c.p.c.)”.
Nella sua illustrazione, sulla premessa che la pronunzia affermativa della
responsabilità del Comune di Gragnano adottata dalla Corte territoriale si fonderebbe, in
primo luogo, sulla circostanza che l’ente territoriale aveva rilasciato la licenza edilizia,
edilizio relativo a tredici villette e ad un albergo che ne erano oggetto ed in tal modo
avrebbe violato il dovere generale del neminem laedere, che deve informare l’attività della
p.a., nonché su quella che l’atto autoritativo si sarebbe posto come antecedente logico
dell’intervento edilizio che aveva originato la frana, si sostiene che la Corte territoriale non
avrebbe considerato: a) che in forza della normativa urbanistica vigente all’epoca in cui
furono realizzate le costruzioni, il jus aedificandi era considerato una facoltà inerente il
diritto di proprietà, ancorché il suo concreto esercizio fosse subordinata al rilascio
dell’autorizzazione amministrativa, la cosiddetta licenza edilizia di cui all’articolo 31 della
legge numero 1150 del 42, come sostituito dall’art. 10 della 1. n. 765 del 1967; b) che il
procedimento comunale di rilascio della licenza edilizia si esauriva nel mero riscontro della
conformità del progetto presentato dal richiedente alle previsioni urbanistiche vigenti, quali
il rispetto dell’indice di fabbricazione, quello dell’alte772 massima e simili e non investiva
la sicurezza dell’opera da realizzarsi, che invece gravava tutto sul proprietario e su altri
organi estranee all’amministrazione comunale, come gli uffici del Genio Civile; c) che le
funzioni amministrative allora attribuite dalla legislazione urbanistica al Comune erano
dirette esclusivamente ad assicurare che l’edificazione, tendenzialmente libera, si
sviluppasse in modo ordinato, decoroso ed igienico.
Tali assunti sarebbero confermati dalla lettura degli arti 7, 33 e 34 della legge
urbanistica, che fissavano il contenuto dei piani regolatori comunali, dei regolamenti
edilizi e dei piani di fabbricazione. D’altro canto — si sostiene ulteriormente – l’attività di
controllo attribuita, all’epoca, al sindaco in materia urbanistica sarebbe stata un’attività di
mero controllo estrinseco, che non involgeva il profilo della stabilità e/o sicurezza degli
interventi edilizi. Tanto troverebbe conferma: al) nell’art. 2 della 1. n. 1150 del 1942; bl)
nell’ultimo comma dell’art. 31 di detta legge, stabilente la responsabilità del committente
titolare della licenza, del direttore dei lavori dell’assuntore dei lavori per l’inosservanza
delle norme generali di legge di regolamento come delle modalità esecutive stabilite nella
licenza edilizia; cl) nell’art. 5 della 1. n. 1684 del 1962, là dove stabiliva il divieto di

Est. Cons. RàffJe Frasca

omettendo di controllare, a tutela della pubblica incolumità, la liceità del vasto programma

R.g.n. 4288-08; 7436-08 (ud. 11.10.2013)

costruire sul ciglio o al piede di dirupi, su terreni di eterogenea struttura, detritici, franosi o
comunque soggetti a scoscendere, nonché il controllo sull’accertamento eseguito dal
costruttore delle condizioni della natura del terreno da parte del competente ufficio del
Genio Civile.
Da tanto si fa discendere che, contrariamente a quanto opinato dalla Corte
napoletana l’amministrazione comunale non era tenuta a verificare la sicurezza del sito di
impianto delle costruzioni e le modalità di esecuzione delle stesse, poiché detti

accertamenti sarebbero stati di competenza del costruttore e dell’ufficio del genio civile.
A sostegno di tale assunto viene citata Cass. sez. un. n. 5346 del 1978, i cui principi
vengono riprodotti.
§2.1. Il motivo non può trovare accoglimento, in quanto non solo non risulta
procedibile per l’incompletezza della sentenza, ma, anche a volere superare tale rilievo,
propone una lettura della motivazione della sentenza impugnata che non corrisponde alla
sua effettività e che, dunque, lo rende infondato.
La Corte territoriale dopo avere espressamente ricordato, per la gran parte
riproducendolo proprio nella pagina 20 mancante, il principio di diritto affermato dalla
citata sentenza delle Sezioni Unite (secondo cui «Al privato danneggiato dal crollo di un
edificio deve negarsi il diritto al risarcimento del danno nei confronti del comune, per fatti
commissivi od omissivi ascrivibili ai dipendenti del comune stesso in materia di rilascio di
licenze edilizie o di controllo e vigilanza sull’esecuzione delle costruzioni poiché la lesione
e conseguenza dell’operato del soggetto che ha eseguito la costruzione, e non della
concessione della licenza, anche se illegittima, e perche non e configurabile neppure un
concorso di cause, considerato che il diniego di autorizzazione non rende impossibile
l’operato medesimo, mentre, infine, la vigilanza sulle costruzioni si ricollega a finalità
generali di sicurezza estrinseca nel corso dell’esecuzione dei lavori, ma non mira ad
assicurare la statica e resistenza degli edifici, ne a difendere e tutelare la pubblica
incolumità.»), ha infatti osservato sempre nella pagina 20 quanto segue: <> (Cass. n. 3939 del 1996).
Il motivo è, pertanto, rigettato.
§3. Con il secondo motivo si deduce “violazione e/o falsa applicazione degli arti.
2043, 1223, 2055 c.c., 40 e 41 c.p., 28 e 97 Costituzione, 22 D.P.R. 3/1957, 31-32-33 1.

Nel motivo, sulla premessa che la responsabilità del Comune è stata riconosciuta nel
presupposto di quella, attribuita anche in sede penale all’Ing. Tommaso Prota, capo
dell’Ufficio Tecnico Comunale, e particolarmente in ragione del rapporto di
immedesimazione organica con il Comune, si ripropongono sostanzialmente le stesse
argomentazioni svolte nel precedente motivo in ordine alla circostanza che nel rilascio
della licenza edilizia, e segnatamene nell’espletamento dell’attività preliminare di rilascio
del parere in funzione del rilascio della licenza edilizia, non veniva in rilievo un potere di
controllo del profilo della stabilità e sicurezza dell’attività costruttiva come tale. Viene
nuovamente evocata la già citata sentenza delle Sezioni Unite.
Ne segue che il motivo non coglie anche in questo caso la rado decidendi della
sentenza impugnata, che, come s’è veduto esaminando il motivo precedente, ha rinvenuto
la responsabilità del Comune in ragione di un’efficacia del rilascio della licenza quale
concausa dell’evento franoso per la circostanza che la licenza non avrebbe dovuto
rilasciarsi a cagione della notoria franosità ed instabilità della zona e non sulla base di un
preteso mancato controllo sulla idoneità della divisata attività costruttiva come tale.
Efficacia che, come s’è visto, la sentenza, per quanto attiene al Comune desume, sulla base
della condivisione della valutazione delle perizie penali fatta dal primo giudice e non
dell’efficacia del giudicato penale a carico del Prota. Perizie che avevano evidenziato che
nell’esprimere il parere il predetto ingegnere doveva conoscere la franosità della zona del
divisato intervento edilizio.
E’ palese, poi, che le considerazioni svolte riguardo al primo motivo a proposito
dell’esistenza in capo al Comune e, quindi, dei soggetti in rapporto di immedesimazione
con esso, qual era il Prota, di una posizione che comunque nello svolgimento delle attività
funzionali al rilascio della licenza imponeva, in ragione dei poteri attribuiti al Comune in
ambito di edilizia sul territorio, di osservare comunque il principio del neminem laedere.
§3.1. Nell’ultima proposizione illustrativa del motivo si sostiene, poi, che ai sensi
della 1. n. 1150 del 1942 nel testo vigente all’epoca dei fatti il dirigente dell’ufficio tecnico

13
Est. Cons. Ra ael rasca

1150/1942, 5 1. 1684/62 (art. 360, 1° co, n. 3 c.p.c.)”.

R.g.n. 4288-08; 7436-08 (ud. 11.10.2013)

comunale <>, donde l’assenza di
responsabilità del Prota e, quindi, del Comune.
§3.1.1. La censura è gradatamente inammissibile e comunque infondata.
La sua inammissibilità deriva innanzitutto dal fatto che ad essa nulla corrisponde nel

solo alla questione: ne segue che in parte qua il motivo non rispetta l’art. 366-bis c.p.c.,
perché non è concluso da alcun pertinente quesito di diritto.
Ulteriore causa di inammissibilità discende, poi, dal fatto che non si dice se e dove la
relativa questione, cioè, l’avere il Prota rilasciato un parere in carenza di competenza,
sarebbe stata introdotta nel giudizio di merito. L’omissione è tanto più rilevante, in quanto
la questione involgeva anche accertamenti di fatto circa il modus procedendi temporibus

illis

presso il Comune di Gragnano. Ne segue che non è dato sapere se la questione fosse

stata introdotta nel giudizio di merito e possa ora prospettarsi in questo giudizio di
legittimità, tanto più che la sentenza impugnata non ne reca traccia.
La causa di inammissibilità deriva dall’inosservanza dell’art. 366 n. 6 c.p.c., che
imponeva di indicare specificamente gli atti, in questo caso processuali, nei quali la
questione era stata proposta ed era pervenuta all’esame della Corte territoriale.
Il motivo, nella sua astratta prospettazione di una quaestio iuris che non si dimostra
rilevante in relazione all’impugnazione della sentenza, sarebbe stato, d’altro canto, anche
privo di fondamento, atteso che non si comprende come e perché la mera esecuzione di
un’attività in posizione di incompetenza da parte di un funzionario possa riverberare nella
rottura del nesso di immedesimazione organica dell’agire del medesimo rispetto al
Comune. Sul punto neppure si spende alcuna attività in iure dimostrativa.
§3.1.2. Il motivo è dichiarato conclusivamente inammissibile.
§4. Il terzo motivo deduce “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 651 (già art.
28) c.p.p. (art. 360, 1° co, n. 3, c.p.p.)”.
Vi si sostiene che la Corte partenopea avrebbe desunto la responsabilità del Prota
sulla scorta delle sentenze penali emesse in sede di appello e di legittimità, ancorché esse
avessero, pur avendo negato il proscioglimento del medesimo per mancanza di una prova
evidente della sua innocenza, dichiarato prescritti i reati. In tal modo quella Corte avrebbe
attribuito efficacia di giudicato sull’esistenza del reato dette sentenze in violazione delle
norme evocate nell’intestazione del motivo.

14
Est. Cons. R

le Frasca

quesito di diritto che conclude l’illustrazione del motivo, posto che in esso si fa riferimento

R.g.n. 4288-08; 7436-08 (ud. 11.10.2013)

§4.1. Il motivo — in disparte che appare singolare l’indicazione di due norme violate,
l’una del c.p.p. del 1930 e l’altra di quello del 1989 senza dire quale sarebbe stata
applicabile ed in disparte che, fondandosi sulle sentenze penali, omette di fornire
l’indicazione specifica ai sensi del mentovato art. 366 n. 6 c.p.c., il che lo renderebbe
inammissibile — è, comunque, inammissibile, perché non si correla alla motivazione della
sentenza impugnata.
giudicata alle sentenze penali, ma — come emerge dalle pagine 17-18 — ha espressamente
richiamato fra virgolette la motivazione della sentenza di questa Corte in sede penale sul
punto in cui avevano affermato la responsabilità del Prota ed ha dichiarato espressamente
di condividerla, onde è come se l’avesse ripetuta e fatta propria e, dunque, esternata come
suo convincimento autonomo e non già determinato da vincolo di cosa giudicata. Si
aggiunga che, come s’è già veduto a proposito dei primi due motivi, la sentenza impugnata
ha fatto riferimento alle ed ha argomentato dalle perizie penali, cui aveva fatto riferimento
il Tribunale in primo grado.
Il motivo è, pertanto, dichiarato inammissibile alla stregua del principio di diritto
secondo cui << Il motivo d'impugnazione è rappresentato dall'enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, della o delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d'impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, in quanto per denunciare un errore bisogna identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l'esercizio del diritto d'impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell'esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo. In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un "non motivo", è espressamente sanzionata con l'inammissibilità ai sensi dell'art. 366 n. 4 cod. proc. civ.>>
(Cass. n. 359 del 2005, seguita da numerose conformi).
§5. Con il quarto motivo si denuncia “violazione degli artt. 33 1. 1150/42, 220 R.D.
27.7.34 n. 1365, 2055 c.c., 28 Cost., 22 D.P.R. 3/1957 (art. 360, 1° co, n. 3 c.p.c.)”.
Vi è svolta la stessa censura che era accennata in chiusura del secondo motivo.

15
Est. Cons. Ra

le Frasca

Essa non ha ritenuto di affermare la responsabilità del Prota dando rilievo di cosa

R.g.n. 4288-08; 7436-08 (ud. 11.10.2013)

Anche questo motivo presenta le stesse ragioni di inammissibilità evidenziate sopra
in sede di esame del secondo motivo e, gradatamente, quelle di infondatezza, posto che
nuovamente si vorrebbe che dalla (pretesa) mera incompetenza del Prota derivasse rottura
del nesso di immedesimazione organica ai fini della responsabilità.
§6. Con il quinto motivo si denuncia “violazione e/o falsa applicazione degli artt.
2043 c.c. e 651 (già art. 28) c.p.p. (art. 360, n. 3 , c.p.c.)”.
parte di motivazione della sentenza impugnata, che la Corte territoriale avrebbe affermato
la responsabilità del Comune in ragione della responsabilità penale accertata dal giudice
penale, così estendendo al Comune il relativo giudicato, ancorché esso non avesse preso
parte al giudizio penale.
§6.1. Il motivo — in disparte che appare nuovamente singolare l’indicazione di due
norme violate, l’una del c.p.p. del 1930 e l’altra di quello del 1989 senza scelta su quale
sarebbe stata applicabile ed in disparte che, fondandosi sulle sentenze penali, omette di
fornire l’indicazione specifica ai sensi del mentovato art. 366 n. 6 c.p.c., il che lo
renderebbe già inammissibile — è inammissibile (giusta il principio di diritto di cui a Cass.
n. 359 del 2005) perché anche in questo caso non si correla alla motivazione della sentenza
impugnata, atteso che, come s’è già detto a proposito del terzo motivo, essa ha proceduto
ad una autonoma valutazione della responsabilità e non ha affatto esteso al Comune il
giudicato penale.
§7. Con il sesto motivo si denuncia “violazione degli artt. 2043, 1310, 2055 e 2909
c.c., 651 (già art. 28) c.p.p., 28 Costituzione (art. 360, n. 3 c.p.c.)”.
§7.1. Il motivo, non è dato comprendere perché, ripropone la stessa censura svolta
nel motivo precedente e con la stessa tecnica illustrativa che omette di riferirsi alla
motivazione della sentenza impugnata. Ne segue che merita la stessa valutazione svolta a
proposito del detto motivo e, dunque, è inammissibile.
§8. Con il settimo motivo si prospetta “violazione o falsa applicazione degli artt. 91 e
195 c.p.p. previgenti, degli artt. 2909 c.c., 324 e 329 c.p.c., art. 28 Cost. e art. 2055 c.c.
(art. 360, 1° co., nn. 3 e 4 c.p.c.)”.
L’illustrazione del motivo è conclusa dai seguenti quesiti di diritto: «Dica la
Suprema Corte se, nel caso in cui la persona offesa, costituita parte civile nel
procedimento di primo grado, ometta di impugnare la sentenza con la quale l ‘imputato sia
stato assolto “perché il fatto non costituisce reato”, tale pronuncia acquisti, o meno,
efficacia di giudicato negativo per la parte civile, in riferimento all’azione risarcitoria,

14
Est. Cons. Raffate Frasca

Vi si sostiene, con breve ed assertoria illustrazione e senza alcun riferimento alla

R.g.n. 4288-08; 7436-08 (ud. 11.10.2013)

anche se la sentenza venga riformata a seguito dell’appello del pubblico ministero. Dica,
altresì, la Suprema Corte se sia rilevabile, o meno, anche in sede di legittimità, il giudicato
esterno che risulti da atti che siano stati acquisiti nel corso del giudizio di merito. In
conseguenza di ciò, dica la Suprema Corte se, ritenuta, per tali ragioni, la esistenza del
giudicato, a favore dell’imputato prosciolto in primo grado, sulla non risarcibilità del
danno alle parti civili, tale giudicato sia, o meno, ostativo alla condanna dell’ente
l’imputato assolto. >>.
§8.1. I tre quesiti proposti sono inidonei ad assolvere al requisito di cui all’art. 366-

bis c.p.c., norma che, in ragione dell’irretroattività della sua abrogazione, continua a
regolare I ricorso. L’inidoneità – che si risolve in nullità della formulazione e, dunque, la
rende incapace di assolvere al requisito prescritto a pena di inammissibilità – deriva dalla
mancanza in essi del requisito della conclusività, cioè di un pur sommario e riassuntivo
riferimento alla vicenda oggetto della controversia e di un altrettale riferimento alla
motivazione della sentenza impugnata.
Il detto requisito era necessario perché un quesito di diritto, secondo i principi
generali delle nullità degli atti processuali, fosse idoneo allo scopo previsto dal legislatore,
cioè di far percepire alla Corte di cassazione il problema giuridico posto dal motivo non
già come astratta quaestio iuris, bensì come quaestio iuris relativa al caso concreto. Poiché
il caso concreto che perviene alla Corte di cassazione è necessariamente individuato dalle
coordinate che si muovono tra la fattispecie concreta oggetto del giudizio di merito e la
motivazione della decisione impugnata, è palese che il quesito doveva essere articolato
evidenziando dette coordinate.
§8.1.1. L’ art. 366-bis c.p.c., infatti, quando esigeva che il quesito di diritto dovesse
concludere il motivo imponeva che la sua formulazione non si presentasse come la
prospettazione di un interrogativo giuridico del tutto sganciato dalla vicenda oggetto del
procedimento, bensì evidenziasse la sua pertinenza ad essa. Invero, se il quesito doveva
concludere l’illustrazione del motivo ed il motivo si risolveva (come si risolve) in una
critica alla decisione impugnata e, quindi, al modo in cui la vicenda dedotta in giudizio è
stata decisa sul punto oggetto dell’impugnazione e che appunto dev’essere criticato dal
motivo, appare evidente che il quesito, per concludere l’illustrazione del motivo, doveva
necessariamente contenere un riferimento riassuntivo ad esso e, quindi, al suo oggetto, cioè
al punto della decisione impugnata da cui il motivo dissentiva, sì che ne risultasse
evidenziato — ancorché succintamente – perché l’interrogativo giuridico astratto era

l .

Est. Cons. Ra aele Frasca

territoriale, ex art. 28 Cost, in virtù del rapporto organico che lega quest’ultimo con

R.g.n. 4288-08; 7436-08 (ud. 11.10.2013)

giustificato in relazione alla controversia per come decisa dalla sentenza impugnata. Un
quesito che non presentasse questa contenuto era, pertanto, un non-quesito (si veda, in
termini, fra le tante, Cass. sez. un. n. 26020 del 2008; nonché n. 6420 del 2008).
D’altro canto, se si fosse avallata l’idea che un quesito potesse non essere articolato
in modo conclusivo nel senso appena indicato, ne sarebbe derivata che al ricorrente in
cassazione sarebbe bastato per ottemperare al requisito dell’art. 366-bis prospettare alla
salvo poi constatare solo a posteriori, cioè tramite la lettura dell’illustrazione che se il
quesito nella sua astrattezza risultava pertinente. Il risultato di una simile interpretazione
dell’art. 366-bis sarebbe stato allora quello di vanificare il profilo funzionale della
previsione del quesito, che era rappresentato dall’assicurazione alla Corte di cassazione di
un’immediata percezione, pur riassuntiva, della questione proposta dal motivo e, in ragione
dello sforzo tecnico riassuntivo così imposto al ricorrente, di assicurare che effettivamente
il motivo prospettasse una quaestio iuris nella logica dei mi. 1, 2, 3, e 4 dell’art. 360 c.p.c.
§8.1.2. E’ da avvertire che l’utilizzo del criterio del raggiungimento dello scopo per
valutare se la formulazione del quesito fosse idonea all’assolvimento della sua funzione
appare perfettamente giustificato dalla soggezione di tale formulazione, costituente
requisito di contenuto-forma del ricorso per cassazione, alla disciplina delle nullità e,
quindi, alla regola dell’art. 156, secondo comma, c.p.c., per cui all’assolvimento del
requisito non poteva bastare la formulazione di un quesito quale che esso fosse,
eventualmente anche privo di pertinenza con il motivo, ma occorreva una formulazione
idonea sul piano funzionale, sul quale emergeva appunto il carattere della conclusività. Da
tanto l’esigenza che il quesito rispettasse i criteri innanzi indicati. Esigenza, del resto, che
non s concretava in una richiesta al ricorrente di assolvere ad un requisito di contenuto
forma dai caratteri indefiniti e, quindi, in una incidenza sull’effettività del mezzo di
impugnazione costituito dal ricorso alla Corte (anche nei termini del c.d principio di
effettività, di cui all’art. 6 della CEDU, che in no diversa guisa è amminicolo del diritto di
azione e di difesa costituzionalmente garantito dall’art. 24 e specificato dall’art. 111 Cost.),
atteso che all’effettivo dispiegarsi della difesa tecnica particolarmente qualificata di cui
necessita il ricorrente in Cassazione non poteva essere d’ostacolo l’onere di formulare
quesiti asseritamente conclusivi nei detti sensi.
§8.1.3. Per altro verso, la previsione della necessità del quesito come contenuto del
ricorso a pena di inammissibilità escludeva che si potesse utilizzare il criterio di cui al
terzo comma dell’art. 156 c.p.c., posto che quando il legislatore qualifica una nullità di un

le
Est. Cons. Ra

rasca

fine dell’illustrazione del motivo un quesito purchessia per adempiere al detto requisito,

R.g.n. 4288-08; 7436-08 (ud. 11.10.2013)

certo atto come determinativa della sua inammissibilità deve ritenersi che abbia voluto
escludere che il giudice possa apprezzare l’idoneità dell’atto al raggiungimento dello scopo
sulla base di contenuti desunti aliunde rispetto all’atto: il che escludeva che il quesito
potesse integrarsi con elementi desunti dal residuo contenuto del ricorso, atteso che
l’inammissibilità era parametrata al quesito come parte dell’atto complesso rappresentante
il ricorso, ivi compresa l’illustrazione del motivo (si veda, in termini, già Cass. (ord.) n.
c.p.c.).
§8.1.4. E’, altresì, da avvertire, che l’intervenuta abrogazione dell’art. 366-bis c.p.c.
non può determinare — in presenza di una manifestazione di volontà del legislatore che ha
mantenuto ultrattiva la norma per i ricorsi proposti dopo il 4 luglio 2009 contro
provvedimenti pubblicati prima ed ha escluso la retroattività dell’abrogazione per i ricorsi
proposti antecedentemente e non ancora decisi — l’adozione di un criterio interpretativo
della stessa norma distinto da quello che la Corte di Cassazione, quale giudice della
nomofilachia anche applicata al processo di cassazione, aveva ritenuto di adottare anche
con numerosi arresti delle Sezioni Unite.
L’adozione di un criterio di lettura dei quesiti di diritto ai sensi dell’art. 366-bis c.p.c.
dopo il 4 luglio 2009 in senso diverso da quanto si era fatto dalla giurisprudenza della
Corte anteriormente si risolverebbe, infatti, in una patente violazione dell’art. 12, primo
comma, delle preleggi, posto che si tratterebbe di criterio contrario all’intenzione del
legislatore, il quale, quando abroga una norma, tanto più processuale, e la lascia ultrattiva o
comunque non assegna effetti retroattivi all’abrogazione, manifesta non solo una voluntas
nel senso di preservare l’efficacia della norma per la fattispecie compiutesi anteriormente
all’abrogazione e di assicurarne l’efficacia regolatrice rispetto a quelle per cui prevede
l’ultrattività, ma anche una implicita voluntas che l’esegesi della norma abrogata continui a
dispiegarsi nel senso in cui antecedentemente è stata compiuta. Per cui l’interprete e,
quindi, anche la Corte di Cassazione ai sensi dell’art. 65 dell’Ordinamento Giudiziario,
debbono conformarsi a tale doppia voluntas e ciò ancorché, in ipotesi, l’eco dei lavori
preparatori della legge abrogativa riveli che l’abrogazione possa essere stata motivata
anche e proprio dall’esegesi che della norma sia stata data. Invero, anche l’adozione di un
criterio esegetico che tenga conto della ragione in mente legislatoris dell’abrogazione
impone di considerare che l’esclusione dell’abrogazione in via retroattiva ed anzi la
previsione di una certa ultrattività per determinate fattispecie sempre in mente legislatoris

Est. Cons. Raffa.ie Frasca

16002 del 2007; (ord.) n. 15628 del 2009, a proposito del requisito di cui all’art. 366 n. 6

R.g.n. 4288-08; 7436-08 (ud. 11.10.2013)

significhino voluntas di permanenza dell’esegesi affermatasi, perché il contrario interesse
non è stato ritenuto degno di tutela.

§8.2. Il motivo in esame risulta, comunque, inammissibile anche per inosservanza
dell’art. 366 n. 6 c.p.c., atteso che, se si procede alla lettura della sua illustrazione si rileva
che vi si argomenta che nel processo penale si era formato un giudicato sull’infondatezza
delle azioni civili esercitate nel processo penale contro il Prota, perché le sentenze
la sentenza del 22 novembre 1982 della Corte d’Appello di Napoli e poi quella di questa
Corte in sede penale n. 760 del 1984, erano state rispettivamente impugnate in primo grado
solo dal P.M. e in appello dal P.G., onde sulla inesistenza della responsabilità civile nei
confronti dei danneggiati, non estendendosi l’impugnazione del pubblico ministero alle
statuizioni sulle azioni civili si era formata cosa giudicata, che nel processo civile
costituiva giudicato esterno, che la Corte territoriale avrebbe dovuto rilevare ed i cui effetti
a beneficio del Prota si estendevano anche al Comune.
E’ palese allora che il motivo si fonda sul contenuto delle sentenze penali della Corte
napoletana e di questa Corte, ma riguardo ad esse difetta l’indicazione specifica prescritta
dal n. 6 dell’art. 366 c.p.c. Tale mancata indicazione concerne la riproduzione diretta o
almeno indiretta, con individuazione della parte indirettamente riprodotta, del tenore delle
sentenze penali che sorreggerebbe il motivo, nonché per quella di appello della sede in cui
sarebbe esaminabile in questo giudizio di legittimità, onde la Corte non è messa grado di
esaminare il motivo al fine di rilevare se la prospettazione trovi conferma nelle sentenze de
quibus.
§8.3. Il motivo è, dunque, dichiarato inammissibile.
§9. Con l’ottavo motivo si fa valere “omessa e/o insufficiente motivazione circa un
fatto decisivo della controversia (art. 360, 1° co., n. 5 c.p.c.).
L’illustrazione del motivo procede dalla pagina 36 alle prime tre righe della pagina
39”
A metà della sua illustrazione, precisamente nelle ultime righe della pagina 37 e nelle
prime cinque della pagina 38, si enuncia quanto segue: <>.
§10.1. Il motivo è inammissibile sia per inosservanza dell’art. 366-bis c.p.c, sia per
inosservanza dell’art. 366 n. 6 c.p.c.
Sotto il primo aspetto, nuovamente il quesito risulta privo di conclusività, atteso che
omette un pur sommario e riassuntivo riferimento alla vicenda oggetto ed alla motivazione
della sentenza impugnata, onde si risolve in un interrogativo del tutto astratto.
Sotto il secondo aspetto, la lettura dell’illustrazione del motivo evidenzia in tanto che
vi si sostiene che la Corte territoriale avrebbe errato nell’individuare il termine di
prescrizione operante nei confronti della danneggiata Falabretti, in quanto il reato accertato

111
Est. Cons. Ra

rasca

§9.2. Ove, poi, si passi alla lettura della sua illustrazione, il motivo si rivela, come

R.g.n. 4288-08; 7436-08 (ud. 11.10.2013)

in sede penale nei suoi riguardi era quello di lesioni personali colpose, onde allorquando la
medesima aveva intrapreso l’azione civile risarcitoria in sede civile il 29 luglio 1985 essa
sarebbe stata prescritta, essendo la prescrizione applicabile quella quinquennale ed avendo
il suo corso ripreso a decorrere dopo la cessazione dell’effetto interruttivo ricollegato alla
pendenza del processo penale e segnatamente dal 2 febbraio 1980, data della pubblicazione
della sentenza di questa Corte n. 1466 del 1979, di annullamento senza rinvio della

Si evidenzia, in conseguenza – in disparte il rilievo che il motivo si riferisce in realtà
alla sola posizione della Falabretti, il che paleserebbe ulteriore ragione di inammissibilità
per difetto di conclusività del quesito, che non lo prospettava in alcun modo — che il
motivo stesso si fonda sul contenuto della citata sentenza penale di questa Corte, che non
viene riprodotto né direttamente né indirettamente nella parte che sorregge l’allegazione.
E’ da rilevare che, essendo la sentenza de qua una decisione di questa Corte, che essa può
reperire nel proprio archivio, l’inosservanza dell’art. 366 n. 6 c.p.c. quanto al se essa sia
stata prodotta e sia esaminabile in questa sede non rileva, ma rileva pur sempre che il
ricorrente non abbia fornito la specifica indicazione della parte della sentenza dalla quale si
evincerebbe quanto allegato in relazione alla posizione della Falabretti.
§10.2. Il motivo è, dunque, dichiarato inammissibile.
§11. Il 10° motivo deduce infine “violazione degli artt. 112 e 343 c.p.c. (art. 360, 1°
co., n. 4 c.p.c.).
L’illustrazione è conclusa dal seguente quesito di diritto: «Dica la Suprema Corte

se il giudice d’appello, il quale non si sia pronunziato su un mezzo di gravame
subordinato, che investe il quantum, dopo aver dichiarato la responsabilità
dell’appellante, incorra nel vizio di omessa pronuncia.>>.
§11.1. Il motivo, data la natura totalmente astratta e generica del quesito, che non
indica l’oggetto del gravame subordinato, risulta inammissibile per violazione dell’art.
366-bis c.p.c.
§11.2. Se si procede alla sua lettura risulta inammissibile per una gradata ragione.
Vi si sostiene, infatti, che il Comune, nel costituirsi in appello, aveva fra i vari motivi
di appello incidentale dedotto censura rispetto alla sentenza di primo grado anche nella
parte relativa alla quantificazione dei danni i favore degli attori, adducendo che non
appariva «giustificabile e comunque, non adeguatamente motivata l’affermazione
secondo la quale i danneggiati avrebbero destinato agli attori una quota di reddito pari ai
2/3 di esso né è provato affatto che i defunti Acampora Vincenzo e Longobardi Antonio al

Est. Cons. Raffa

ca

precedente decisione di appello quanto al detto reato per prescrizione.

R.g.n. 4288-08; 7436-08 (ud. 11.10.2013)

momento del fatto fossero ancora celibi e che si sarebbero sposati solo al’età di 32 anni e
non invece prima come appare più credibile considerando che l’età media del matrimonio
all’epoca dei fatti era sicuramente inferiore a quella di adesso>>. Si riproduce, quindi, il
capo C) delle conclusioni della comparsa in cui si era chiesto: «In via subordinata, e nella
non creduta ipotesi di mancato accoglimento della precedente conclusione, ridurre le
somme eventualmente dovute agli attori a titolo di risarcimento danni dall’Amm.ne
Sulla base di tali deduzioni si lamenta che la Corte territoriale, una volta confermata
la responsabilità comunale, avrebbe omesso di pronunciare su detto motivo di appello
incidentale subordinato.
§11.2.1. Ora, poiché ci si astiene dal precisare se all’atto della precisazione delle
conclusioni quanto richiesto in via subordinata era stato mantenuto fermo, la Corte non è
messa in grado di valutare se effettivamente vi fu omissione di pronuncia. Va considerato
d’altra parte, che la sentenza impugnata indica come conclusioni del Comune, che esso
concluse con la seguente richiesta: «in totale riforma della sentenza, rigetto della
domanda», che non appare compatibile con il mantenimento della conclusione
subordinata, che avrebbe supposto la richiesta (subordinata) di riforma parziale della
sentenza sul quantum (fra l’altro riguardo a taluni danneggiati) e, quindi, di rigetto parziale
della domanda.
Il Collegio rileva che quando si deduce un’omissione di pronuncia da parte del
giudice di merito su un capo di domanda oggetto di un motivo di appello, il ricorrente
in cassazione, al fine di supportare il motivo di ricorso per cassazione come
effettivamente rispondente al vizio denunciato è tenuto ad indicare, ai sensi dell’art.
366 n. 6 c.p.c., non solo di avere il detto motivo di appello, riproducendone l’attività
assertiva o riproducendola indirettamente con indicazione della parte dell’atto di
appello in cui l’indiretta riproduzione trova riscontro, ma deve anche allegare che il
motivo venne mantenuto in sede di precisazione delle conclusioni e parimenti
adempiere con riferimento a quel momento l’onere di cui a detta norma. In caso
contrario il motivo di ricorso è inammissibile perché l’attività di deduzione del motivo
è inidonea dimostrare, sul piano dell’esercizio del diritto di impugnazione con il
ricorso, che la censura sia ammissibile e perché l’indicazione specifica richiesta
dall’art. 366 n. 6 non è completa.
§11.3. Il motivo è, dunque, dichiarato inammissibile.
§12. Conclusivamente, il ricorso principale è rigettato.

23

Est. Cons. Ra ele Frasca

comunale».

R.g.n. 4288-08; 7436-08 (ud. 11.10.2013)

§13. Il ricorso incidentale del Prota, dopo avere dichiarato di proporre «ricorso
incidentale …. sottoponendo …. le seguenti osservazioni», le distingue in due paragrafi.
§13.1. In quello sub A) assume di volerle svolgere «in relazione al ricorso
principale» e in esso svolge effettivamente considerazioni sui motivi del medesimo,
postulandone l’accoglimento quanto al primo, al secondo, al terzo, al settimo, all’ottavo, al
nono ed al decimo, mentre per gli altri motivi sostiene che sarebbero inammissibili o
Sotto il primo aspetto le doglianze assumono natura di ricorso incidentale adesivo a
quello principale, peraltro proposto tempestivamente, cioè entro il c.d. temine lungo.
Le considerazioni svolte a proposito del ricorso principale, considerato che alla
prospettazione del ricorso principale nulla si aggiunge, tale non essendo l’attività
dimostrativa che vi si svolge, e che le ragioni di inammissibilità dove rilevate a proposito
del ricorso principale rimangono immutate, il Collego osserva che il primo, il secondo, il
terzo, il settimo, l’ottavo, il nono ed il decimo motivo si intendono dichiarati inammissibili
o rigettati con gli stessi rilievi svolti a proposito dei motivi identici del ricorso principale
(salvo quello di improcedibilità del primo motivo, che qui non sussiste, atteso che la cpia
autentica della sentenza è stata prodotta nella sua interezza).
§13.2. A partire dalla pagina 22, sotto il paragrafo B) il controricorso espone,
invece, un proprio motivo di ricorso incidentale, con cui si denuncia: “Error in judicando —
Violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2055, 2697 e 1223 c.c. — Violazione dei
principi generali in materia di responsabilità civile — Difetto di motivazione ed omessa e/o
insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo della controversia in
relazione agli artt. 360, I comma, nn. 3 e 5 c.p.c.”.
L’illustrazione è conclusa, alla pagina 32, dal seguente quesito di diritto: «Dica la
Suprema Corte se un Comune, nel rilasciare la licenza o concessione edilizia, ed il
Tecnico Comunale, nel rendere il relativo parere, siano o meno condizionati dal previo
accertamento dello stato di pericolo dei luoghi sotto il profilo della staticità degli stessi.
Dica ancora la Corte se esista o meno un nesso di causalità tra il rilascio di una licenza o
concessione illegittima e le conseguenze dannose aventi origine nella situazione statica dei
luoghi, quando sia stata realizzata da costruttore l’opera oggetto della licenza o
concessione in questione senza gli adeguati accorgimenti tecnici.>>.

§13.2.1. Il motivo è inammissibile per inosservanza dell’art. 366-bis c.p.c.
In primo luogo, lo è, con riguardo alle censure di diritto, sotto il profilo dell’assoluta
astrattezza e genericità dei due interrogativi proposti, la quale si risolve nella mancanza di

24
Est. Cons. Raffae

infondati.

R.g.n. 4288-08; 7436-08 (ud. 11.10.2013)

conclusività, secondo le ampie considerazioni svolte in ordine alla sua necessità nell’esame
del settimo motivo del ricorso principale. Invero, nei due interrogativi prospettati non si fa
riferimento alla vicenda oggetto di giudizio, sebbene in modo riassuntivo e minimale, e
non si fa riferimento alcuno alla motivazione della sentenza impugnata.
In secondo luogo, una volta considerato che l’intestazione del formalmente unitario
motivo, in realtà si scinde in tre distinte indicazioni, ognuna delle quali appare avere, se le
parole usate debbono avere un senso, dignità di autonomo motivo, si rileva che i due
interrogativi proposti nel quesito non recano alcune che li raccordi rispettivamente ai due
vizi di violazione di norme di diritto, cioè la “violazione e falsa applicazione degli artt.
2043, 2055, 2697 e 1223 c.c.” e la “violazione dei principi generali in materia di
responsabilità civile”.
Ne consegue che viene in rilievo il principio di diritto secondo cui «La previsione
di cui all’art. 366-bis cod. proc. civ., là dove esige che l’esposizione del motivo si debba
concludere con il quesito di diritto, non significa che il quesito debba topograficamente
essere inserito alla fine della esposizione di ciascun motivo, essendo consentita la
elencazione finale o conclusiva di tutti i quesiti, purché, in tal caso, ciascuno di essi sia
espressamente riferito al motivo, con richiamo numerico od alla rubrica delle violazioni
addotte, oppure il collegamento al motivo sia inequivocabilmente evidenziato dalla
esistenza di un rapporto di pertinenza esclusiva, in modo tale che esso sia agevolmente
individuabile, senza necessità di una particolare analisi critica.» (Cass. (ord.) n. 5073 del
2008).
In fine, per quanto attiene al motivo ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., si sarebbe
dovuto formulare il momento di sintesi espressivo della c.d. “chiara indicazione”, cui
alludeva l’art. 366-bis c.p.c., i cui caratteri (per cui Cass. (ord.) n. 16002 del 2007 e Cass.
sez. un. n. 20603 del 207, citt.), del resto, nemmeno si scorgono, al di là della
qualificazione come quesito di diritto, nei due interrogativi proposti.
§13.2.2. Se si procedesse alla lettura della illustrazione si rileverebbe ancora che vi si
fa riferimento: a) alle emergenze delle perizie penali senza fare alcuna indicazione
specifica di esse ai sensi dell’art. 366 n. 6 c.p.c.; b) si sostiene che «non vi [fosse] alcuna
prova che il Prota fosse a conoscenza della franosità intrinseca del monte Pendolo, né,
tanto meno, che la relazione tecnica dell’Ispettorato Dipartimentale delle Foreste di Napoli
fosse mai pervenuta alla Commissione edilizia comunale, di cui il Prota faceva parte» e
ciò nuovamente senza dire dove e come tale mancanza di prova si fosse evidenziata, con
nuova violazione dell’art. 366 n. 6 c.p.c. (tanto più rilevante, perché della questione

25
Est. Cons.

le Frasca

i

R.g.n. 4288-08; 7436-08 (ud. 11.10.2013)

v

probatoria non vi è traccia nella sentenza impugnata); c) si prospetta la questione che il
Prota era un libero professionista e non un dipendente comunale, nei cui confronti non

v operava l’art. 28 Cost., nuovamente senza precisare se e dove la circostanza (non
esaminata affatto dalla sentenza) fosse stata introdotta nelle fasi di merito, donde
nuovamente l’inosservanza dell’art. 366 n. 6 c.p.c.
Il motivo, o meglio i motivi, sarebbero, dunque, anche inammissibili per
Si rileva ancora che nemmeno si scorge nell’illustrazione una chiara distinzione fra
le attività assertive di ciascuno dei tre motivi.
§14. Il ricorso incidentale, stante l’inammissibilità di alcuni motivo ed il rigetto di
altri, dev’essere, dunque, rigettato.
§15. Deve provvedersi sulle spese del giudizio di cassazione.
Si ravvisa una soccombenza a carico sia del ricorrente principale, sia del ricorrente
incidentale.
Tale soccombenza è, però, riferibile ai resistenti rispetto a ciascuno dei due ricorsi.
Va tenuto conto, tuttavia, che, nel rapporto processuale fra il Comune di Gragnano
ed il Prota, costui aveva chiesto anche il rigetto del ricorso del Comune per taluni motivi,
per altri aveva aderito a quelli del Comune, e che quello complesso suo proprio in parte
appariva contestare non solo la propria ma anche la responsabilità del Comune. Ne segue
che le spese riguardo a tale rapporto processuale possono compensarsi, dato che i due
ricorrenti per gran parte postulavano una riforma della sentenza per beneficiarne entrambi.
Nel rapporto processuale fra il Comune e gli eredi Patriarca, ritiene il Collegio di far
luogo alla compensazione delle spese, atteso che sostanzialmente l’impugnazione del
Comune non era rivolta contro la statuizione della sentenza che aveva visto esclusa la
responsabilità del de cuius: ne discende che i Patriarca e la Ingenito non avevano un
sostanziale interesse a resistere al ricorso, essendo stata loro notificata l’impugnazione ai
sensi dell’art. 332 c.p.c. Tanto giustifica l’esistenza di giusti motivi per la compensazione
delle spese, attesa anche la posizione rivestita dal de cuius in seno all’ente territoriale.
Analoga valutazione deve farsi riguardo all’ANAS, giacché impugnazione nei suoi
riguardi risultava notificata solo ai sensi dell’art. 332 c.p.c.
Nel ricorso incidentale proposto dal Prota ha resistito soltanto l’ANAS, ma anche in
questo caso l’impugnazione incidentale era stata notificata sostanzialmente ai sensi
dell’art. 332 c.p.c., onde ricorrono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese
.

anche riguardo al relativo rapporto processuale.

inosservanza di tale norma.

R.g.n. 4288-08; 7436-08 (ud. 11.10.2013)

Nel rapporto processuale fra il Prota e gli altri resistenti avverso il ricorso principale
non essendosi costituito alcun rapporto processuale con essi, per non avere essi resistito al
ricorso del Prota, non dee farsi luogo a statuizione sulle spese.
Vanno, invece, poste a carico del Comune le spese a favore dei controricorrenti di
cui è capofila la Bonifazi, mente non è luogo a provvedere sulle spese riguardo ai rapporti
con gli intimati no costituitisi.
Le spese si liquidano in dispositivo ai sensi del d.m. n. 140 del 2012.
P. Q. M.
La Corte, riuniti ricorsi, li rigetta entrambi. Condanna il Comune di Gragnano alla
rifusione in favore dei resistenti di cui è capofila Luciana Bonifazi delle spese del giudizio
di cassazione, liquidate in euro dodicimiladuecento, di cui duecento per esborsi, oltre
accessori come per legge. Compensa le spese del giudizio di cassazione riguardo a tutti i
rapporti processuali fra il Comune e gli altri resistenti al suo ricorso. Nulla per le spese
riguardo a tale ricorso nel rapporto fra Comune e gli intimati che non hanno resistito.
Compensa le spese del giudizio di cassazione fra il Prota e l’Anas. Nulla per le spese nel
rapporto fra il Prota ed i soggetti intimati con il suo ricorso e che non hanno resistito.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezion Civile, 1’11
ottobr

13.

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