Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28453 del 07/11/2018

Cassazione civile sez. lav., 07/11/2018, (ud. 05/07/2018, dep. 07/11/2018), n.28453

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. LEONE Margherita Maria – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10084-2017 proposto da:

B.V., domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e

difesa dall’avvocato DAVIDE BALDUZZI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

O.M.G. s.n. DI R.P. & C. in persona del legale

rappresentante pro tempore e R.P., RA.BR.,

tutti elettivamente domiciliati in ROMA, CIRCONVALLAZIONE CLODIA 86,

presso lo studio dell’avvocato ROBERTO MARTIRE, rappresentati e

difesi dall’avvocato VALERIA SERVENTI, giusta delega in atti;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 53/2017 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 07/02/2017 R.G.N. 480/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/07/2018 dal Consigliere Dott. MARGHERITA MARIA LEONE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PATRONE Ignazio, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato GIUSEPPE MARIA FRANCESCO RAPISARDA per delega

Avvocato DAVIDE BALDUZZI;

udito l’Avvocato ROBERTO MARTIRE per delega Avvocato VALERIA

SERVENTI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte di appello di Brescia con la sentenza n. 53/2017 aveva respinto il reclamo proposto da B.V. avverso la decisione con la quale il tribunale locale aveva rigettato la domanda dalla stessa proposta nei confronti di OMG snc di R.P. & C., R.P. e Ra.Br., diretta alla declaratoria di nullità di un primo licenziamento intimato oralmente e di nullità del secondo licenziamento disciplinare successivamente intimato, perchè discriminatorio e comunque illegittimo.

La Corte territoriale, pur avendo qualificato all’esito dell’indagine istruttoria svolta, il primo episodio relativo all’allontanamento della lavoratrice quale sospensione dal lavoro e non quale licenziamento, aveva poi valutato irrilevante accertarne la effettiva natura, in quanto dopo 14 giorni da tale allontanamento era stato intimato nuovo licenziamento. In ragione di ciò, riteneva che l’eventuale nullità del primo recesso avrebbe avuto le medesime conseguenze della illegittima sospensione e quindi il solo diritto alle retribuzioni per i giorni intercorsi rispetto al definitivo recesso (15 giorni).

Quanto al secondo licenziamento, intimato per la trasmissione di dati relativi alla presenza sul luogo di lavoro anche in giornate in cui la lavoratrice era assente (in particolare il 19 maggio 2014) e per la modifica non autorizzata delle password aziendali di accesso ai programmi gestionali ed alla posta elettronica, il giudice del gravame aveva ritenuto fondati gli addebiti e tali da costituire giusta causa di licenziamento. L’esito di siffatta valutazione aveva poi determinato l’assorbimento di ogni ulteriore indagine dell’eventuale motivo discriminatorio denunciato dalla ricorrente, in quanto comunque non si sarebbe trattato, a giudizio della corte bresciana, di causa esclusiva del recesso.

Avverso detta decisione la B. proponeva ricorso affidato a 7 motivi cui resistevano con controricorso gli intimati. La ricorrente depositava successiva memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1-2) Con il primo motivo la B. denuncia la violazione o falsa applicazione della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18 con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn 3 e 4, per aver, la corte territoriale, erroneamente ritenuto che la conseguenza del licenziamento verbale intimato per primo consistesse nella semplice prosecuzione del rapporto di lavoro con obbligo, per il datore di lavoro, di pagare le retribuzioni maturate e non percepite. Deduceva la ricorrente che, ai sensi del disposto dell’art. 18 come modificato dalla L. n. 92 del 2012, l’illegittimità del licenziamento intimato verbalmente comportava, oltre che la tutela reintegratoria, anche il pagamento della indennità risarcitoria almeno pari a cinque mensilità.

Nello stesso motivo ed anche nella censura successiva (lett. B) la ricorrente rileva peraltro che era errata la qualificazione dell’evento quale sospensione in quanto tale istituto era previsto nel CCNL metalmeccanici-artigiani all’art. 11 e richiedeva precise condizioni, non presenti nel caso di specie.

I motivi possono essere trattati congiuntamente perchè afferenti alla medesima questione quale la qualificazione del primo evento di allontanamento della lavoratrice.

La corte territoriale, dopo aver osservato che non rilevava la differenza tra le due situazioni licenziamento-sospensione, (in ciò errando perchè differenti le conseguenze), ha analizzato la situazione e concluso per la ipotesi della sospensione. Secondo la ricorrente in tale statuizione non ha peraltro tenuto presenti le condizioni che l’art. 11 ccnl richiede (forma scritta -indicazione dei fatti-durata di non oltre 6 giorni).

Il motivo non risulta sufficientemente specificato in quanto non contiene le necessarie indicazioni sul come e dove l’argomento in questione (condizioni per la sospensione) sia entrato nel giudizio. La mancata allegazione, in contrasto con il principio di autosufficienza, non consente di valutare se la qualificazione effettuata dalla corte territoriale, comunque espressione di un giudizio di merito su circostanze di fatto non rivalutabili in questa sede, sia effettivamente rispondente alle condizioni indicate. I motivi risultano quindi infondati.

3) Con il terzo motivo è censurata la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. in merito alla valutazione delle prove, per illogicità ed irragionevolezza ed incongruenza della motivazione, oltre che per errore di fatto (ex art. 360 c.p.c., n. 5).

In tale motivo la ricorrente si duole della errata valutazione sulla vicenda del cambio della password aziendale. Si tratta, all’evidenza di una censura inerente il merito del giudizio valutativo non riproponibile in questa sede.

Come già in molte occasioni affermato “In esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonchè la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex multis Cass. n. 19011/2017; Cass. n. 16056/2016). La valutazione richiesta non può neppure trovare sponda sul versante dell’esame della motivazione e della sua denunciata carenza e contraddittorietà, in quanto le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 8053/2014 hanno chiarito che “La riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”. L’assenza di precise indicazioni inerenti una delle ipotesi sopra enunciate rende quindi inammissibile la censura.

4) con il quarto e sesto motivo è denunciata la violazione/falsa applicazione del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 28, comma 4 (presunzione di ritorsione/discriminazione) in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5). Violazione D.Lgs. n. 216 del 2003, art. 2 e dell’art. 1 Dir. CE 78/2000.

Deduce la ricorrente la contraddittorietà della sentenza in ordine alla prova/presunzione della natura discriminatoria/ritorsiva del licenziamento.

Il motivo non risulta chiaro. La corte territoriale ha ritenuto che l’accertata sussistenza di una giusta causa del licenziamento esimeva dall’accertarne anche la natura discriminatoria poichè mai, comunque, quest’ultima avrebbe potuto costituire causa esclusiva del licenziamento; ha poi comunque sottolineato l’assenza di indizi per desumere la reale presenza di discriminazione.

Val la pena richiamare la distinzione tra ritorsività e discriminatorietà del licenziamento più volte segnalato da questa Corte (Cass. n. 6575/2016; Cass. n. 10384/2015; Cass. n. 3986/2015).

Con riguardo al motivo ritorsivo, ha chiarito in proposito che “L’allegazione, da parte del lavoratore, del carattere ritorsivo del licenziamento intimatogli non esonera il datore di lavoro dall’onere di provare, ai sensi della L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 5 l’esistenza della giusta causa o del giustificato motivo del recesso; solo ove tale prova sia stata almeno apparentemente fornita, incombe sul lavoratore l’onere di dimostrare l’intento ritorsivo e, dunque, l’illiceità del motivo unico e determinante del recesso. (Cass. n. 6501/2013; Cass. n. 3986/2015Cass. n. 27325/2017).

La natura discriminatoria del recesso può invece accompagnarsi ad altro motivo legittimo (ad esempio economico) e comunque rendere nullo il licenziamento (si veda a riguardo Cass. n. 6575/2016). Siffatta distinzione incide pertanto sugli oneri probatori, risultando necessaria solo per il licenziamento ritorsivo la prova della unicità e determinatezza del motivo. La sentenza in esame, sia pur alternando i rispettivi piani probatori, ha escluso la ritorsività per la presenza provata di altro motivo determinante del recesso. La censurata discriminatorietà risulta invece esclusa dalla carenza di “indizi” a tal riguardo significativi (pg. 13 sentenza). La valutazione di merito svolta, coerente con i principi indicati, non può essere oggetto di ulteriore determinazione in sede di legittimità.

Il motivo è infondato.

5) Con il quinto motivo è lamentata la violazione/falsa applicazione della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7 con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, per aver, erroneamente, la corte territoriale, ritenuto che la contestazione disciplinare contenesse l’indicazione dell’episodio relativo alla presunta chiusura aziendale in data 19/5/2014.

La censura risulta in primo luogo inammissibile in quanto non è riportata nel motivo la contestazione così da consentire la verifica dell’assunto e comunque irrilevante attesa la presenza dell’ ulteriore fatto addebitato alla lavoratrice (cambio password aziendale), comunque fondativo della scelta datoriale.

6) Con l’ultimo motivo è denunciata la violazione/falsa applicazione degli artt. 594 e 596 c.p. (ex art. 360 c.p.c., n. 3), allorchè la corte territoriale aveva ritenuto che, stante la fondatezza del licenziamento, e la acclarata verità dei fatti contestati, alcuna valutazione dovesse svolgersi sulla natura ingiuriosa del licenziamento.

Ritiene la lavoratrice che la ingiuriosità delle frasi utilizzate dalla datrice di lavoro nella contestazione avrebbe determinato offesa al suo decoro ed onore.

Il motivo risulta inammissibile poichè non contiene l’esatto contenuto della contestazione cui è fatto riferimento, in violazione del principio di autosufficienza.

Il ricorso deve essere rigettato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 4.000,00 per compensi ed Euro 200,00 per spese oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 5 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 7 novembre 2018

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