Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28436 del 05/11/2019

Cassazione civile sez. lav., 05/11/2019, (ud. 03/07/2019, dep. 05/11/2019), n.28436

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 13478/2014 proposto da:

M.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA NEMORENSE

18, presso lo studio dell’avvocato MARIA PAOLA GENTILI,

rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONIO DI STASI;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI FALCONARA MARITTIMA, in persona del Sindaco pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE 18,

presso lo STUDIO GREZ E ASSOCIATI S.R.L., rappresentato e difeso

dall’avvocato LUCA BARTOLINI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 822/2013 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 23/10/2013 R.G.N. 863/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/07/2019 dal Consigliere Dott. ROBERTO BELLE’;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato MARCELLO BONOTTO per delega Avvocato LUCA BARTOLINI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’Appello di Ancona ha respinto il gravame proposto avverso la sentenza del Tribunale della stessa città con la quale era stata accolta, per la somma di Euro 32.738,00 oltre accessori, la domanda del Comune di Falconara Marittima di ripetizione dell’indebito pagamento eseguito in favore di M.G., nei cui confronti era stato rivendicato dall’ente il rimborso di quanto percepito in eccesso rispetto all’indennità ad personam spettante al medesimo quale Direttore Generale.

La Corte osservava come quel pagamento non trovasse fondamento in alcun provvedimento del Comune, mentre la sua considerazione come dato di bilancio era inidonea a fornire il medesimo di titolo.

Aggiungeva altresì che, valendo per i dirigenti il principio di onnicomprensività della retribuzione, non era possibile cumulare incarichi e prebende e comunque, trattandosi di dirigente apicale, era anche impossibile individuare, avendo il ricorrente ampia responsabilità sulle attività tutte dell’ente, mansioni che eccedessero il normale impegno lavorativo.

La Corte rigettava infine l’eccezione di prescrizione, in quanto il titolo dell’azione non poteva confondersi con eventuali azioni contrattuali o extracontrattuale, eventualmente esperibili in ragione del danno che il comportamento, anche del M., aveva cagionato all’ente.

2. Il M. ha impugnato la sentenza affidandosi a quattro motivi, resistiti da controricorso del Comune.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo è dedicato dal ricorrente al tema della prescrizione, affermando egli che la Corte di merito, nel ritenere che la prescrizione del diritto alla ripetizione di indebito fosse decennale, avrebbe violato l’art. 2948 c.c., n. 4 e art. 2943 c.c..

Il M. sostiene che l’esigenza di trattare in modo identico le due parti del rapporto imporrebbe, sia che si tratti di azione del lavoratore volta e recuperare quanto erogato in meno, sia che si tratti di azione del datore per ripetere quanto erogato in più, di riconoscere in entrambi i casi la prescrizione quinquennale desumibile, per i crediti retributivi, dall’art. 2948 c.c., n. 4.

1.1 La prescrizione quinquennale per i crediti di lavoro deriva dal fatto che essi generalmente rientrano nell’ipotesi di cui all’art. 2948, n. 4, ovverosia sono importi che “devono pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi”, per lo più, rispetto alle retribuzioni, a mese.

E’ allora palese che il diritto alla ripetizione di indebito non può essere ricondotto a tale fattispecie in quanto esso, se anche di fatto sorga di tempo in tempo, in ragione delle erogazioni mano a mano effettuate e risultate poi non dovute, è in sè debito la cui causa non impone ex ante la necessità di pagamenti a cadenze temporali prefissate (Cass. 10 settembre 2018, n. 21962; da ultimo anche Cass. 21 marzo 2019, n. 14426).

Occorre infatti distinguere l’ipotesi in cui i presupposti costitutivi di un determinato credito si collochino periodicamente nel tempo da quella in cui, in conseguenza di un rapporto di durata, si debbano avere pagamenti periodici. La fattispecie riguardata dall’art. 2948 c.c., n. 4, è esclusivamente la seconda, come è reso evidente dal richiamo della norma non tanto al mero sorgere periodico del credito, quanto a “ciò che deve pagarsi” periodicamente, ovverosia ad una situazione propria dei casi in cui “soltanto con il protrarsi dell’adempimento nel tempo si realizza la causa del rapporto obbligatorio” in relazione ad uno specifico interesse del creditore che si soddisfa “attraverso la ricezione di più prestazioni” (così Cass. 6 dicembre 2006, n. 26161 e, più di recente, Cass. 20 dicembre 2017, n. 30546) messe, in regolare cadenza temporale, a disposizione del creditore (Cass. 21 luglio 2000, n. 9627).

Diverso è dunque il caso di specie, in cui il credito restitutorio è sorto nel momento in cui vi sono state le indebite erogazioni, rispetto all’ipotesi, propria dell’art. 2948 c.c., n. 4, in cui è stabilita ex ante, in ragione della causa dell’attribuzione patrimoniale, la necessità di pagamenti a cadenze temporali prefissate.

Non resta pertanto in alcun modo intercettata la fattispecie normativa di cui all’art. 2948 c.c., n. 4 e, trattandosi di situazioni e dinamiche diverse, rientra nella discrezionalità del legislatore la loro differenziata disciplina, anche sotto il profilo della prescrizione, senza che possano aver corso sommarie assimilazioni.

Poichè per l’ipotesi della ripetizione di indebito non è prevista alcuna regola di prescrizione breve, va da sè l’applicazione ad essa, come correttamente ritenuto dalla Corte territoriale, della misura decennale (per il principio, in diversi ipotesi, v. Cass. 15 febbraio 2018, n. 3706; Cass., S.U., 2 dicembre 2010, n. 24418; Cass. 19 giugno 2008, n. 16612).

2. Il secondo motivo, formulato richiamando l’art. 360 c.p.c., n. 5, denuncia l’omesso esame di fatti decisivi, individuati nella sussistenza di un provvedimento legittimo (il D.S. n. 33 del 2001) che in realtà avrebbe disposto l’erogazione delle somme contestate e nell’omessa considerazione dell’erronea imputazione delle ridette somme nel Piano Esecutivo di Gestione (P.E.G.) del Comune dell’anno 2002 (D.G.C. n. 99 del 2002) all'”incremento compenso Direttore Generale”, mentre si trattava di importi in incremento dell’indennità di Dirigenza dell’Area Risorse.

2.1 Si deve premettere come non sia controverso, in fatto, che al M., già dirigente del Settore risorse, fu attribuita con il D.S. n. 33 del 2001, la dirigenza nella neo costituita Area delle risorse, comprendente al proprio interno tre Settori (gestione risorse umane; economico-finanziario – informatico statistico), nonchè la Direzione generale dell’ente.

2.2 Sotto il primo dei profili di cui al motivo in esame, il ricorrente sostiene che erroneamente la Corte territoriale aveva affermato l’inesistenza di un provvedimento comunale che prevedesse in suo favore l’incremento rivendicato. Egli assume viceversa che un tale provvedimento vi fosse e fa riferimento, in proposito, al predetto Decreto Sindacale n. 33 del 2001, di cui riporta il tenore (nota 3 di pag. 18) letterale.

Dalla lettura del documento così trascritto si evince tuttavia che al ricorrente, oltre ai 50 milioni di lire annui ad personam per la Direzione generale, veniva riconosciuta per la posizione della dirigenza dell’Area delle Risorse “la stessa retribuzione di posizione già riconosciuta con apposito atto giuntale” alla dirigenza “del Settore delle Risorse”, dandosi atto che tale funzione dirigenziale restava “immodificata rispetto all’ambito operativo in cui viene esercitata”, per quanto elevata “dal nuovo assetto organizzativo dell’ente – a responsabilità di Area” e perciò con “responsabilità di coordinamento, pianificazione e controllo riferita ai nuovi livelli di responsabilità gestionale costituiti dalle Posizioni Organizzative”.

Il controricorrente, riportando anche un passaggio della sentenza di primo grado sul punto, sottolinea come quella Delibera prevedesse “non il raddoppio dell’indennità in godimento, ma l’erogazione della medesima indennità, sia pure a remunerazione di un diverso incarico”.

Ciò posto, è ben vero che il giudice di secondo grado non menziona quella Delibera, ma è altrettanto vero che quella prospettata dal ricorrente è solo una diversa lettura di quel documento, di cui però nulla autorizza a ritenere la “decisività”, intesa come elevata probabilità logica di una diversa pronuncia, richiesta dall’art. 360 c.p.c., n. 5, proprio perchè il tenore letterale fa riferimento alla “stessa” retribuzione già propria della dirigenza del Settore delle risorse e dunque non una ulteriore remunerazione.

Nè il ricorso chiarisce su quale base la propugnata lettura di quel documento dovrebbe essere inevitabilmente avallata ed essere come tale decisiva ai sensi e per gli effetti dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

2.3 Anche rispetto all’esistenza di un errore nel P.E.G., nel senso che la voce ivi indicata di “incremento compenso Direttore Generale” avrebbe dovuto essere intesa come incremento dell’indennità di Dirigenza dell’Area Risorse (così determinata per lo scorporo, cui fa riferimento sempre il ricorrente, di una quota attinente al Servizio Tributi) il motivo si presenta come inammissibile.

L’impostazione presupporrebbe che, sulla base di altri elementi, si potesse ravvisare la fondatezza del riferirsi del maggiore importo preteso alla attività di direzione di Area e dunque la fondatezza di quanto sopra analizzato al punto 2.1 che precede, nonchè la possibilità di ricostruire l’esistenza di uno scorporo (quello relativo al settore Tributi) che è puramente e semplicemente affermato come tale e di cui non sono precisate quali sarebbero le fonti di irrefutabile riscontro.

Ma il profilo con cui si è censurato l’assunto della sentenza impugnata in ordine all’assenza di un provvedimento di sostegno all’erogazione contestata è, come detto, da disattendere e dunque il consequenziale ragionamento che intenderebbe portare ad una lettura rettificata, su tale base, dell’imputazione espressa nel P.E.G. resta privo di qualsivoglia percepibile sostegno.

2.4 Nel complesso, quella prospettata dal ricorrente è una diversa lettura di merito, fondata su mere ipotesi ricostruttive, che tuttavia, per le ragioni sopra dette, non sono in grado di superare l’assunto della Corte territoriale fondato sull’insussistenza del diritto al maggior compenso quale indicato nel P.E.G. e sull’assenza comunque di titoli giustificativi.

Rilettura dei merito che, oltre alle più specifiche criticità e carenze appena esaminate, prospetta un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di appello tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione (Cass. S.U. 25/10/2013, n. 24148).

3. Con il terzo e quarto motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui essa, pur richiamando il giudizio per responsabilità contabile in cui il M. era stato coinvolto per la medesima vicenda, ha trascurato di considerare (quarto motivo, dedotto come omesso esame di un fatto decisivo) che quel giudizio si era concluso, verso di lui, con definizione agevolata ed il pagamento di un importo pari al 20% del danno erariale, circostanza rilevante anche al fine di escludere la malafede nella percezione dell’indebito, viceversa ritenuta dalla Corte di merito.

Il M. adduce altresì la violazione e falsa applicazione (quinto motivo) della disciplina in materia di rapporto tra giudizio civile e giudizio contabile oltre che sulla definizione agevolata del giudizio contabile (L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 231 e segg.) e ciò sul presupposto che il disconoscimento di efficacia, nel giudizio civile, alla definizione agevolata ammessa in sede contabile, consentendo di perseguire ad altro titolo i medesimi importi, comporterebbe lo svuotamento dell’istituto premiale, oltre che la lesione del diritto di difesa, in danno della parte che, confidando di poter fruire di uno strumento idoneo a ridurre la misura dell’esborso richiestogli, vede poi vanificata la propria scelta dall’esercizio della medesima pretesa in altro giudizio.

3.1 I due motivi, tra loro strettamente connessi, devono essere valutati congiuntamente e sono infondati.

3.2 La responsabilità per danno erariale si fonda sulla colpa rispetto al pregiudizio cagionato e prescinde dal fatto che il funzionario nei cui confronti essa sia perseguita risulti anche occasionalmente avere beneficiato di quanto per la P.A. rileva come danno emergente.

Non può peraltro seguirsi la tesi del ricorrente secondo cui il disconoscimento di un’efficacia, per così dire, “tombale” della definizione agevolata sia ragione di completo svuotamento dell’istituto premiale.

Un’efficacia definitiva di tale definizione, se può aversi rispetto chi che sia coinvolto nella vicenda solo quale funzionario che ha causato o contribuito a causare il danno erariale, non può invece esservi allorquando il funzionario sia anche il soggetto che si è avvantaggiato in relazione proprio alla vicenda per la quale fu instaurato il giudizio amministrativo di responsabilità.

Nella norma dell’art. 1, comma 231, su cui fa leva il ricorrente, nulla consente infatti di affermare che la definizione agevolata del giudizio per danno erariale sia ragione di consolidamento di benefici illegittimamente determinatisi, rispetto ai quali restano dunque aperte le diverse ed ordinarie azioni giustificate dal titolo dell’indebita percezione.

L’azione di ripetizione resta dunque autonoma rispetto all’azione di responsabilità erariale contestualmente dispiegata nei confronti del medesimo dipendente pubblico e definita nella forma agevolata, se non per il fatto che, quanto eventualmente ricevuto dalla P.A. come conseguenza della definizione in sede di giurisdizione amministrativa sul danno, opera quale ragione di riduzione della misura quantitativa della pretesa esercitabile nel giudizio di indebito.

Profilo, quest’ultimo, di cui la sentenza impugnata ha puntualmente tenuto conto, avendo verificato che correttamente la sentenza di primo grado aveva detratto quanto pagato dal ricorrente a titolo di risarcimento.

E’ del resto ininfluente l’affidamento che il ricorrente assume di avere maturato rispetto all’estensione degli effetti della definizione della causa di responsabilità, in quanto non può certo ricevere tutela una convinzione erroneamente maturata rispetto alla portata di una certa normativa.

Così come privo di pregio è il richiamo al diritto di difesa, ben potendo il ricorrente o chi per lui rendersi conto – il che esclude ogni menomazione alle facoltà di tutela giuridica o processuale – del fatto che nulla, nella formulazione delle norme (art. 1, comma 231 cit.) e nel sistema, autorizzava a ritenere che l’istituto premiale fruito consentisse di tacitare ogni pretesa della P.A. di procedere, attraverso la ripetizione dell’indebito, onde eliminare con altra azione a diverso titolo ogni pregiudizio indebitamente sofferto.

3.2 Da disattendere è infine anche la deduzione in merito al fatto che la Corte distrettuale avrebbe non correttamente desunto la malafede del M. dalla sentenza resa in primo grado nel giudizio per danno erariale, con pronuncia poi superata dalla definizione agevolata in grado di appello.

Infatti, la sentenza impugnata, pur richiamando la pronuncia contabile di primo grado, sviluppa poi una motivazione che, attraverso il riferimento a vari profili giustificativi dell’assunto (con particolare riferimento alle “mansioni” svolte ed alla “professionalità” del M.), si fonda su valutazioni destinate ad essere apprezzate come autonome e non sulla forza della pregressa pronuncia.

4. Il ricorso va quindi integralmente rigettato, con regolazione secondo soccombenza delle spese del grado.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore delle controparte delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.500,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 3 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2019

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