Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28429 del 05/11/2019

Cassazione civile sez. VI, 05/11/2019, (ud. 17/04/2019, dep. 05/11/2019), n.28429

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27590-2017 proposto da:

S.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PILO ALBERTELLI

1, presso lo studio dell’avvocato LUCIA CAMPORIALE, rappresentato e

difeso dall’avvocato SALVATORE STARA;

– ricorrente –

contro

PREFETTURA DI CAGLIARI;

– intimata –

avverso la sentenza n. 8918/2017 della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE di

ROMA, depositata il 06/04/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 17/04/2019 dal Consigliere Relatore Dott.sa MILENA

FALASCHI.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Nel procedimento definito con sentenza di questa Seconda Sezione civile, 6 aprile 2017 n. 8918, questa Corte ha accolto il ricorso per cassazione proposto da S.C. avverso la sentenza n. 2093 del 2012, con cui il Tribunale di Cagliari in funzione di giudice di appello aveva rigettato l’impugnazione interposta dal medesimo ricorrente avverso la sentenza emessa dal Giudice di pace di Cagliari il 24 marzo 2009 n. 552, che aveva – a sua volta – rigettato l’opposizione proposta da STARA’ avverso l’ordinanza ingiunzione emessa dal Prefetto di Cagliari in relazione all’accertata violazione dell’art. 142 C.d.S..

Ha premesso questa Corte che, nel valutare preliminarmente l’ammissibilità dell’appello, e a tal fine occorreva dare atto che nelle more del giudizio, la questione relativa all’individuazione delle forme con le quali che la sentenza di primo grado dovesse essere impugnata aveva formato oggetto di rimessione alle Sezioni Unite, le quali con la sentenza n. 2907 del 10 febbraio 2014 avevano risolto il contrasto affermando il principio per il quale nei giudizi di opposizione ad ordinanza-ingiunzione, introdotti nella vigenza della L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 23, come modificato dal D.Lgs. n. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 26, e quindi prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. 10 settembre 2011, n. 150, quale appunto quello in esame, introdotto con ricorso del 19/7/2011, l’appello doveva essere proposto nella forma della citazione e non già con ricorso, trovando applicazione, in assenza di una specifica previsione normativa per il giudizio di secondo grado, la disciplina ordinaria di cui all’art. 339 c.p.c.e ss., con la conseguenza che la forma imposta per l’appello, laddove fosse erroneamente stato introdotto con ricorso anzichè con citazione, era suscettibile di sanatoria, a condizione che nel termine previsto dalla legge l’atto fosse stato non solo depositato nella cancelleria del giudice, ma anche notificato alla controparte, non trovando applicazione il diverso principio, non suscettibile di applicazione al di fuori dello specifico ambito, affermato con riguardo alla sanatoria delle impugnazioni delle deliberazioni di assemblea di condominio spiegate mediante ricorso, e senza che fosse possibile rimettere in termini l’appellante, non ricorrendo i presupposti della pregressa esistenza di un consolidato orientamento giurisprudenziale poi disatteso da un successivo pronunciamento. L’appello andava, pertanto, introdotto con citazione, sicchè alla data della consegna dell’atto per la notifica (24/7/2012), considerata la data di pubblicazione della sentenza del giudice di pace (13/01/2012) il termine semestrale di impugnazione di cui all’art. 327 c.p.c., era decorso, con la conseguente inammissibilità dell’appello proposto. Avverso siffatta decisione S.C. ha proposto, con ricorso notificato il 5 novembre 2017, revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4, per essere la sentenza impugnata – a suo avviso – affetta da errore di fatto risultante dagli atti o dai documenti della causa.

L’intimata Prefettura di Cagliari non ha svolto attività difensiva.

Dovendo avvenire la trattazione ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., giusta l’art. 391-bis c.p.c., comma 3, nel testo modificato dal D.L. n. 168 del 2016, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 197 del 2016, è stata formulata dal relatore designato proposta di definizione del ricorso nel senso dell’inammissibilità del ricorso.

Il decreto di fissazione dell’udienza camerale e la proposta sono stati notificati all’avvocato del ricorrente.

Il collegio ritiene di condividere la proposta del relatore.

Con i tre motivi di doglianza il ricorrente lamenta che la Corte abbia supposto un fatto, orientamento giurisprudenziale sfavorevole al ricorrente, non tenendo conto delle pronunce “favorevoli”, le quali fanno rigorosa applicazione del noto principio dell’ultrattività del rito. Del resto il tribunale non aveva minimamente opinato sulla necessità di proporre l’appello con citazione, nè in tal senso aveva sollevato eccezione la controparte.

Le censure – da trattare unitariamente per la evidente connessione – sono prive di pregio.

L’oggetto della revocazione attiene al mancato esame di parte della giurisprudenza, rivelando il ricorrente che a fronte di un contrasto nelle decisioni della Suprema Corte, il Collegio – rilevando peraltro d’ufficio la questione – non avrebbe dato contezza del convincimento raggiunto, non condivisibile la pronuncia delle Sezioni Unite invocata nella sentenza impugnata.

L’odierna domanda di revocazione denuncia sostanzialmente un preteso errore di giudizio sulla portata e sui limiti della pronuncia n. 2907 del 10 febbraio 2014.

L’art. 391-bis c.p.c., stabilisce che “Se la sentenza pronunciata dalla Corte di cassazione è affetta (…) da errore di fatto ai sensi dell’art. 395, n. 4), la parte interessata può chiederne la revocazione”. Quest’ultima disposizione prescrive che “Le sentenze pronunciate in grado d’appello o in unico grado possono essere impugnate per revocazione (…) se la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa” e precisa che “Vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso, se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare”.

La giurisprudenza di legittimità ha perimetrato l’errore di fatto, tracciandone, in primo luogo, il confine rispetto alla violazione o falsa applicazione di norme di diritto sostanziali o processuali, laddove l’errore di fatto riguarda solo l’erronea presupposizione dell’esistenza o dell’inesistenza di fatti considerati nella loro dimensione storica di spazio e di tempo, non potendosi far rientrare nella previsione il vizio che, nascendo ad esempio da una falsa percezione di norme che contempli la rilevanza giuridica di questi stessi fatti e integri gli estremi dell’error iuris, sia che attenga ad obliterazione delle norme medesime, riconducibile all’ipotesi della falsa applicazione, sia che si concreti nella distorsione della loro effettiva portata, riconducibile all’ipotesi della violazione (vedasi tra le tante Cass., Sez. Un., 27 dicembre 2017, n. 30994 e sent. ivi cit. a p. 3.4; conf. Cass., Sez. Un., 27 dicembre 2017, nn. da 30995 a 30997). Resta, quindi, esclusa dall’area del vizio revocatorio la sindacabilità di errori formatisi sulla base di una pretesa errata valutazione o interpretazione di fatti, documenti e risultanze processuali che investano direttamente la formulazione del giudizio sul piano logico-giuridico, perchè siffatto tipo di errore, se fondato, costituirebbe un errore di giudizio, e non un errore di fatto.

In sintesi estrema la combinazione dell’art. 391-bis c.p.c. e dell’art. 395 c.p.c., n. 4), non prevede come causa di revocazione della sentenza di cassazione l’errore di diritto sostanziale o processuale e l’errore di giudizio o di valutazione. Sicchè non appare irrazionale la scelta del legislatore di riconoscere ai motivi di revocazione una propria specifica funzione, escludendone gli errori giuridici e quelli di giudizio o valutazione, proponibili solo contro le decisioni di merito nei limiti dell’appello e del ricorso per cassazione.

Inoltre, quanto all’effettività della tutela giudiziaria, anche la giurisprudenza Europea e quella costituzionale riconoscono la necessità che le decisioni, una volta divenute definitive, non possano essere messe in discussione, onde assicurare la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, nonchè l’ordinata amministrazione della giustizia (Corte giust., 03/09/2009, Olimpiclub; 30/09/2003, Kobler; 16/03/2006, Kapferer; conf. Corte EDU, 28/07/1998, Omar c. Francia; 27/03/2014, Erfar-Avef c. Grecia; 03/07/2012, Radeva c. Bulgaria); il che convalida il contenimento del rimedio revocatorio per le decisioni di legittimità ai soli casi di “sviste” o di “puri equivoci” senza che rilevino a pretesi errori di valutazione (Corte Cost. n. 17 del 1986; Corte Cost. n. 36 del 1991; Corte Cost. n. 207 del 2009).

Dunque le interpretazioni letterale e sistematica, ma pure quelle costituzionalmente e convenzionalmente orientate, dell’art. 391-bis c.p.c. e art. 395 c.p.c., n. 4), portano a non ammettere la revocazione delle decisioni di legittimità della Corte di cassazione per pretesi errori giuridici (sostanziali o processuali), oppure circostanziali, diversi dalla mera svista su fatti non resi oggetto di precedente controversia, rispondendo la “non ulteriore impugnabilità in generale” all’esigenza, tutelata come primaria dalle stesse norme della Carta fondamentale e della CEDU, di conseguire l’immutabilità e definitività della pronuncia all’esito di un sistema variamente strutturato (Cass. 29 aprile 2016 n. 8472). Il carattere d’impugnazione eccezionale della revocazione, prevista per i soli motivi tassativamente indicati dalla legge, comporta l’inammissibilità di ogni censura ivi non compresa (Cass. 7 maggio 2014 n. 9865).

Nella specie, così come ha ulteriormente precisato in memoria, il ricorrente assume che la Corte, nella decisione dall’esito negativo per lui, avrebbe omesso quell’autonoma valutazione dei fatti, soprattutto quanto al regime degli atti processuali, atteso che si è riportata alle conclusioni delle Sezioni Unite, senza tenere in alcun conto che l’appello in questione era stato proposto nel maggio 2010 e dunque ben prima della pronuncia della sentenza n..2907 del 2014, che per il principio dell’overruling non avrebbe dovuto essere applicata.

Il che significherebbe, a suo dire, che la Corte, nella revocanda sentenza, sarebbe incorsa in errore giacchè avrebbe dovuto esaminare il gravame sulla base della precedente e non univoca giurisprudenza di legittimità.

Però, se questa è la interpretazione del proprio assunto dato dalla stessa difesa del ricorrente (v. memoria), è del tutto evidente che manca la deduzione di un qualsivoglia errore di fatto, proponendosi solo pretesi errores in iudicando e in procedendo estranei al perimetro del rimedio revocatorio.

E d’altra parte è noto che l’interpretazione delle norme giuridiche da parte della Corte di cassazione e, in particolare, delle Sezioni Unite mira ad una tendenziale stabilità e valenza generale, sul presupposto, di una efficacia non cogente ma solo persuasiva, trattandosi di attività consustanziale all’esercizio stesso della funzione giurisdizionale, sicchè un mutamento di orientamento reso in sede di nomofilachia non soggiace al principio di irretroattività, non è assimilabile allo ius superveniens ed è suscettibile di essere disatteso dal giudice di merito (Cass. 9 gennaio 2015, n. 174). Nella sentenza 11 luglio 2011, n. 15144, le Sezioni Unite affermarono che il mutamento della propria precedente interpretazione della norma processuale da parte del giudice della nomofilachia (cd. overruling) che porti a ritenere esistente, in danno di una parte del giudizio, una decadenza od una preclusione prima escluse, opera laddove il significato che la norma esibisce non trovi origine nelle dinamiche evolutive interne al sistema ordinamentale – come interpretazione correttiva che si salda alla relativa disposizione di legge processuale “ora per allora”, nel senso di rendere irrituale l’atto compiuto o il comportamento tenuto dalla parte in base all’orientamento precedente. Tuttavia perchè operi il c.d. overruling occorre che il mutamento sia stato imprevedibile o quantomeno inatteso e privo di preventivi segnali anticipatori del suo manifestarsi, in ragione del carattere consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso (Cass., sez. un., 12 ottobre 2012, n. 17402), ipotesi non ravvisabile in presenza di preesistenti contrasti interpretativi (Cass. 15 dicembre 2011, n. 27086) o di incertezza interpretativa delle norme processuali ad opera della Corte di cassazione in assenza di un orientamento consolidato della stessa Corte (Cass. 15 febbraio 2018, n. 3782) o nel caso in cui la parte abbia confidato nell’orientamento che non è prevalso (Cass. 5 giugno 2013, n. 14214).

E’ appena il caso di aggiungere che, trattandosi di inammissibilità che attiene ai presupposti dell’impugnazione, la tempestività dell’atto di appello interposto avverso la sentenza di primo grado, ove notificato oltre il termine di decadenza previsto dall’art. 327 c.p.c., comma 1, è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, e quindi anche in sede di legittimità, e non è sanata dalla costituzione dell’appellato, in quanto la tardività dell’impugnazione implica il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado verificatosi alla scadenza dei termini per l’impugnazione (Cass. 19 gennaio 2007 n. 1188; Cass. 16 marzo 1996 n. 2203; Cass. 5 aprile 1993 n. 4094; Cass. 19 marzo 1990 n. 2260).

Ciò comporta l’inammissibilità del ricorso per revocazione in esame, senza alcuna conseguenza in punto di spese mancando attività difensiva delle controparti.

Vertendosi in ipotesi di giudizio di revocazione, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della ricorrenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente, dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

La Corte, dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della VI – 2 Sezione civile della Corte di Cassazione, il 17 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2019

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