Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28423 del 14/12/2020

Cassazione civile sez. lav., 14/12/2020, (ud. 28/10/2020, dep. 14/12/2020), n.28423

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4267/2018 proposto da:

F.G., domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR, presso LA

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e

difesa

dall’Avvocato GIUSEPPE TRIBULATO;

– ricorrente –

contro

CONSORZIO AUTOSTRADE SICILIANE, in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA IRNERIO n.

11, presso lo studio dell’Avvocato ANNARITA FERA, rappresentato e

difeso dall’avvocato CARMELO MATAFU’;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 816/2017 della CORTE D’APPELLO di MESSINA,

depositata il 20/07/2017 R.G.N. 1216/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

28/10/2020 dal Consigliere Dott. GUGLIELMO CINQUE.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

1. Il Tribunale di Messina, accertata la nullità del termine apposto ai contratti stipulati tra F.G. ed il Consorzio Autostrade Siciliane a partire dal 2000 al 2011, condannava il Consorzio al pagamento di una somma pari a ventidue mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

2. La Corte d’appello di Messina, con la sentenza n. 816 pubblicata il 20.7.2017, in parziale riforma della sentenza di primo grado, riteneva illegittima la causale del termine apposta ai contratti stipulati dal 6 agosto 2000 al 18 gennaio 2003, perchè le paventate esigenze temporanee non potevano essere ricondotte ad alcune delle ipotesi tipiche previste dalla normativa in materia e perchè l’ultimo (quello dal 21 ottobre 2002 al 18 gennaio 2003) era carente di forma scritta; per quelli successivi, quattro risultavano anche essi carenti della prova sulla loro forma scritta, mentre, per quelli dal 2003, osservava che la specificazione delle esigenze poste a fondamento della stipulazione a termine doveva reputarsi integrata dall’intesa con le OO.SS. aziendali, allorquando era stata formata una graduatoria unica di lavoratori stagionali per il reclutamento del personale da avviare al lavoro sulla base degli effettivi fabbisogni aziendali, in virtù della considerazione che da tale epoca le ragioni giustificatrici avessero trovato riscontro nel controllo sindacale e nell’accordo stipulato tra le parti sociali.

3. La Corte distrettuale osservava che, con riferimento ai contratti a termine ritenuti illegittimi, esclusa la possibilità di convertire il rapporto in uno a tempo indeterminato, in base ai principi di effettività ed equivalenza sanciti dalla Corte di Giustizia Europea, per il risarcimento del danno sofferto a causa del ricorso abusivo ad una successione di contratti a termine doveva aversi riguardo a quanto sancito dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 4275 del 2017, affermativa del diritto del lavoratore al risarcimento del danno ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, cd. danno comunitario, quale sanzione ex lege a carico del datore di lavoro, per la cui liquidazione era utilizzabile il sistema indennitario omnicomprensivo previsto dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, con esonero del lavoratore dalla prova del danno; tenuto conto del numero dei contratti, la Corte di Messina riteneva, quindi, congrua la misura di sei mensilità della retribuzione globale di fatto percepita dalla lavoratrice, oltre accessori di legge.

4. Di tale sentenza domanda la cassazione la F., affidando l’impugnazione a tre motivi, illustrati in memoria, cui resiste, con controricorso, il Consorzio per le Autostrade Siciliane.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. Con il primo motivo, la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, nel testo vigente ratione temporis, art. 2697 c.c. e violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., assumendo che la Corte avrebbe dovuto ritenere illegittimo anche il termine apposto ai sei contratti stipulati dal 18.11.2002 all’1.10.2009, in quanto nessuna eccezione era stata formulata dal CAS con riferimento al verbale d’accordo sindacale, neanche depositato in atti, e che probabilmente si era trattato di refuso di altra pronuncia; assume che la ragione indicata nei contratti era generica e non contenente alcuna specificazione che potesse consentirne il controllo di veridicità, a fronte della contestazione di parte ricorrente.

2. Con il secondo motivo, la lavoratrice denunzia la violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36,L. n. 183 del 2010, art. 32, art. 1223 c.c. e art. 2727 c.c., di cui se ne invoca la loro interpretazione in misura conforme alla Direttiva 28.6.1999 n. 70 1999/70/CE, GUE 10.7.1999 n. 175 e all’Accordo Quadro sul Lavoro a tempo Determinato in essa allegato nonchè in misura conforme ai pronunciamenti resi in materia dalla Corte di Giustizia CE, in relazione all’art. 360 c.p.c., punto 3, sollevando pregiudiziale di rimessione degli atti ai sensi dell’art. 267 TFUE alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea sotto il profilo del rispetto del principio di effettività ed equivalenza delle tutele apprestate dallo Stato italiano tra i lavoratori privati e pubblici assunti con contratti a termine, per non essere prevista per questi ultimi la conversione del rapporto a tempo indeterminato.

3. Con il terzo motivo la ricorrente lamenta la violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36 e della L. n. 183 del 2010, art. 32, nella interpretazione data dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 5072 del 15.3.2016, sotto il diverso aspetto ex art. 360 c.p.c., n. 3. Chiede, infatti, in via gradata che l’indennità risarcitoria, indicata tra un minimo di 12 mensilità della retribuzione globale di fatto, quale danno comunitario esente da prova, fosse intesa per ogni singolo contratto dedotto in causa di cui sia stata accertata la illegittimità del termine apposto.

4. I tre motivi, per la loro interferenza, possono essere esaminati congiuntamente.

5. Va premesso che, sulla natura di ente pubblico non economico del Consorzio Autostrade Siciliane, questa Corte si è già pronunciata (cfr. Cass. 26.5.2015 n. 10823).

6. Quanto al primo motivo, ad onta della indicazione contenuta in rubrica delle norme asseritamente violate, nel corpo dello stesso si evidenzia l’erronea applicazione dei principi validi in tema di stipulazione a termine riferita ad una lunga serie di contratti per sopperire all’esigenza di soddisfare con continuità un servizio essenziale quale l’esazione dei pedaggi autostradali, ciò che sul piano giuridico comporta non già la violazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, quanto piuttosto la violazione della clausola 5 dell’Accordo Quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18.3.1999 in allegato alla Direttiva 1999/70 del Consiglio del 28.6.1999, relativa all’accordo Quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, clausola richiamata nel successivo motivo di ricorso.

7. Invero, la motivazione fornita dalla Corte distrettuale, riferita, per i contratti stipulati dopo l’anno 2002, ad accordi con le OO.SS. che avrebbero costituito la base legittimante della stipulazione a termine, deve considerarsi meramente apparente, in quanto ciò che rileva nel presente giudizio, in ambito di lavoro pubblico privatizzato, è unicamente l’abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione, che si riflette in termini di illegittima precarizzazione del rapporto di impiego.

8. La direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, n. 1999/70/CE (Direttiva del Consiglio relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato) pur non contenendo una disciplina generale del contratto a tempo determinato, pone principi specifici che, per gli ordinamenti giuridici degli Stati membri, valgono come obiettivi da raggiungere ed attuare, tra cui appunto il principio di contrasto dell’abuso del datore di lavoro, privato o pubblico, nella successione di contratti a tempo determinato (clausola 5). Questa è la portata dell’accordo quadro e segnatamente della sua clausola 5, come precisato dalla Corte di giustizia (7 settembre 2006, Marrosu e Sardino, C-53/04, cit.), secondo cui “l’obiettivo di quest’ultimo è quello di creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”.

9. Tanto premesso, con riguardo alle conseguenze dell’abuso nella reiterazione – che nella specie deve riferirsi, per quanto sopra osservato, a tutti i contratti oggetto di causa (stipulati dal 2000 al 2011), con riflessi sulla stessa quantificazione del risarcimento del danno – devono essere disattese, per le ragioni di seguito specificate, le censure formulate nel secondo e di parte del terzo motivo quanto al criterio di liquidazione del danno, correttamente calcolato con il criterio di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, Cass. Sez. Un. 15.3.2016 n. 5072).

10. Tale ultimo motivo merita, infatti, parziale accoglimento, in relazione unicamente, per la sua stretta consequenzialità rispetto alla fondatezza del primo motivo (in ordine eventualmente alla necessità di considerare un maggior numero di contratti), relativamente alla misura del danno.

11. Per ciò che concerne, invece, sia la mancata conversione del rapporto di lavoro in uno a tempo indeterminato, sia il calcolo della indennità da non rapportare ad ogni singolo contratto, la Corte territoriale si è pronunciata in conformità a quanto affermato nella richiamata pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte che ha precisato che, nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato, in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione, il dipendente che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato posto dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 36, comma 5, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dall’onere probatorio nella misura e nei limiti di cui alla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5 e quindi nella misura pari ad un’indennità onnicomprensiva tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 L. 15 luglio 1966, n. 604.

12. Il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte (cfr. Cass. S.U. 15/03/2016 n. 5072) con riferimento alla norma contenuta nel T.U. n. 165 del 2001, art. 36, è quello alla cui stregua “nell’ipotesi di illegittima reiterazione di contratti a termine alle dipendenze di una pubblica amministrazione, il pregiudizio economico oggetto di risarcimento non può essere collegato alla mancata conversione del rapporto: quest’ultima, infatti, è esclusa per legge e trattasi di esclusione affatto legittima sia secondo i parametri costituzionali che secondo quelli comunitari”. Piuttosto, dando atto che l’efficacia dissuasiva richiesta dalla clausola 5 dell’Accordo quadro recepito nella direttiva 1999/70/CE postula una disciplina agevolatrice e di favore, che consenta al lavoratore che abbia patito la reiterazione di contratti a termine di avvalersi di una presunzione di legge circa l’ammontare del danno e rilevato che il pregiudizio è normalmente correlato alla perdita di chance di altre occasioni di lavoro stabile, le Sezioni Unite hanno rinvenuto nella L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, una disposizione idonea allo scopo, nella misura in cui, prevedendo un risarcimento predeterminato tra un minimo ed un massimo, esonera il lavoratore dall’onere della prova, fermo restando il suo diritto di provare di aver subito danni ulteriori” (cfr., da ultimo, anche Cass. 4.3.2020 n. 6097, Cass. 23.6.2020 n. 12363).

13. Deve, da ultimo respingersi la richiesta, avanzata dal controricorrente, di rimessione degli atti, ai sensi dell’art. 267 TFEU alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sotto il profilo del rispetto di effettività ed equivalenza delle tutele apprestate dallo Stato italiano tra i lavoratori privati e pubblici assunto con contratti a termine, avanzata nel secondo motivo.

14. Giova, al riguardo, precisare, che non è sufficiente che una parte sostenga che la controversia verta su una questione d’interpretazione del diritto UE perchè l’organo giurisdizionale interessato – anche se di ultima istanza – sia tenuto a considerare che sussiste una questione da sollevare ai sensi dell’art. 267 TFUE (Corte giust., 10 gennaio 2006, causa C-344/04, IATA e ELFAA, punto 28; 1 marzo 2012, causa C484/10, Ascafor e Asidac, punto 33; ord. 18 aprile 13, causa C-368/12, Adiamix, punto 17; ord. 14 novembre 2013, causa C-257/13, Mlamali, punto 23).

15. Come chiarito dalla stessa consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia UE (a partire dalla sentenza 6 ottobre 1982, causa C-283/81, 5 Cilfit), il giudice di ultima istanza, in presenza di una questione interpretativa del diritto della UE, deve adempiere l’obbligo del rinvio, soltanto dopo aver constatato “alternativamente” che:

a) la suddetta questione esegetica è rilevante ai fini della decisione del caso concreto; b) la disposizione di diritto UE di cui è causa non ha già costituito oggetto di interpretazione da parte della CGUE; c) la soluzione della questione non è ricavabile “da una costante giurisprudenza della Corte che, indipendentemente, dalla natura dei procedimenti da cui sia stata prodotta, risolva il punto di diritto litigioso, anche in mancanza di stretta identità fra le materie del contendere”; d) la corretta applicazione del diritto Europeo non è tale da imporsi “con tale evidenza da non lasciar adito ad alcun ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione sollevata”, con l’avvertenza che la configurabilità di tale ultima eventualità deve essere valutata in funzione delle caratteristiche proprie del diritto dell’Unione, delle particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e del rischio di divergenze di giurisprudenza (vedi Corte giust., 17 maggio de”2001, causa C340/99, TNT Traco, punto 35; 30 settembre 2003, causa C224/01, Kiibler, punto 118; 4 giugno 2002, causa C-99/00, Kenny Roland Lyckeskog).

16. Orbene, osserva il Collegio che sul punto la Corte di giustizia si è già espressa, pronunziandosi sulla domanda di pronuncia pregiudiziale proposta, ai sensi dell’art. 267 TFUE, dal Tribunale di Trapani, con la ordinanza del 5 settembre 2016, e partendo dai principi affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte, sopra richiamati, ha osservato:

– sotto il profilo del principio di equivalenza, che da esso discende che gli individui che fanno valere i diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione non devono essere svantaggiati, rispetto a quelli che fanno valere diritti di natura meramente interna; tanto le misure adottate dal legislatore nazionale nel quadro della direttiva 1999/70/CE al fine di sanzionare l’uso abusivo dei contratti a tempo determinato da parte dei datori di lavoro del settore pubblico che quelle adottate per sanzionare l’uso abusivo da parte dei datori di lavoro del settore privato attuano il diritto dell’Unione, con la conseguenza che le modalità proprie di questi due tipi di misure non possono essere comparate sotto il profilo del principio dell’equivalenza, in quanto entrambe hanno ad oggetto l’esercizio di diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione (sentenza Corte di Giustizia UE 7 marzo 2018 in causa C-494/2016, punti da 39 a 42);

– sotto il profilo della effettività, che, gli Stati membri non sono tenuti, alla luce della clausola 5 dell’accordo quadro, a prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato sicchè non può essere nemmeno loro imposto di concedere in assenza di ciò un’indennità destinata a compensare la mancanza di una siffatta trasformazione del contratto (sentenza Corte di Giustizia UE cit., punto 47);

– che, tenuto conto delle difficoltà inerenti alla dimostrazione dell’esistenza di una perdita di opportunità, il ricorso a presunzioni dirette a garantire ad un lavoratore che abbia sofferto -a causa dell’uso abusivo di contratti a tempo determinato stipulati in successione- una perdita di opportunità di lavoro, la possibilità di cancellare le conseguenze di una siffatta violazione del diritto dell’Unione è tale da soddisfare il principio di effettività (sentenza Corte di Giustizia UE cit., punto 50).

17. Il giudice Europeo ha, poi, escluso la tesi secondo cui la indennità L. n. 183 del 2010, ex art. 32, debba essere liquidata in ragione di ogni singolo contratto per il quale venga accertata la illegittimità del termine. Essa non tiene conto del fatto che il danno comunitario presunto, L. n. 183 del 2010, ex art. 32, nel settore pubblico, non è quello derivante dalla nullità del termine del contratto di lavoro, ma è quello conseguente all’abuso per l'”utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”, come prevede la clausola 5 dell’accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE. L’illecito si consuma non in relazione ai singoli contratti a termine ma soltanto dal momento e per effetto della loro successione e, pertanto, il danno presunto dovrà essere liquidato una sola volta, nel limite minimo e massimo fissato dalla L. n. 183 del 2010, art. 32, considerando nella liquidazione dell’unica indennità il numero dei contratti in successione intervenuti tra le parti sotto il profilo della gravità della violazione (cfr. in tali termini, Cass. 3.12.2018 n. 31175).

18. Il giudice Europeo ha dunque già esaminato e superato le questioni mosse con la richiesta di rinvio ex art. 287 TFUE.

19. La sentenza impugnata va, pertanto, cassata in relazione alle censure accolte, sicchè si impone una nuova valutazione anche delle conseguenze risarcitorie solo, come sopra detto, sotto il profilo della misura e non anche dei criteri. La causa va rimessa alla Corte d’appello di Messina in diversa composizione, che, nel procedere a nuovo esame, si atterrà ai principi indicati e provvederà sulle spese anche del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

la Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia alla Corte d’appello di Messina in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 28 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 14 dicembre 2020

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