Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2840 del 06/02/2020

Cassazione civile sez. trib., 06/02/2020, (ud. 22/11/2019, dep. 06/02/2020), n.2840

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE MASI Oronzo – Presidente –

Dott. CAPRIOLI Maura – rel. Consigliere –

Dott. LO SARDO Giuseppe – Consigliere –

Dott. D’ORIANO Milena – Consigliere –

Dott. MARTORELLI Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 698-2017 proposto da:

COMUNE DI SAN GIOVANNI ROTONDO, elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA SESTIO CALVINO 33, presso lo studio dell’avvocato LUCIANA

CANNAS, rappresentato e difeso dall’avvocato SERGIO ALVARO TROVATO;

– ricorrente –

contro

CIRCE SRL;

– intimato –

Nonchè da:

CIRCE SRL, domiciliato in ROMA P.ZZA CAVOUR presso la cancelleria

della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’Avvocato

MAURIZIO VILLANI;

– controricorrente incidentale –

contro

COMUNE DI SAN GIOVANNI ROTONDO;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1211/2016 della COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. di

FOGGIA, depositata il 18/05/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

22/11/2019 dal Consigliere Dott.ssa CAPRIOLI MAURA.

Fatto

RITENUTO

che:

Il Comune di San Giovanni Rotondo proponeva appello avverso la sentenza della CTP di Foggia con cui era stato accolto il ricorso presentato dalla società Circe s.r.l. contro l’ingiunzione di pagamento della Tarsu per l’anno 2011 relativamente all’Albergo San Michele per l’importo di Euro 15.691,00.

L’ente impositore propone due motivi di ricorso per la cassazione della sentenza con cui la CTR per la Puglia, confermando la pronuncia di primo grado, ha respinto l’appello del comune e quello incidentale della società contribuente, ritenendo legittima l’intimazione di pagamento a titolo di Tarsu per l’anno 2011 relativa ad un esercizio alberghiero; la società con l’originario ricorso introduttivo, aveva eccepito la mancanza del presupposto impositivo, in quanto l’avviso di pagamento sarebbe stato solo spedito, ma non notificato; aveva contestato l’applicazione della tariffa determinata dal comune, ritenendola eccessivamente elevata, ed aveva rivendicato l’assimilazione degli esercizi alberghieri ai locali ad uso abitativo sul presupposto che questi avessero la medesima potenzialità di produzione di rifiuti; aveva lamentato, inoltre l’illegittima applicazione di un tributo ormai abrogato e la violazione dei criteri di determinazione delle tariffe fissati dal D.Lgs. n. 507 del 1993.

La commissione tributaria regionale, con sentenza depositata il 18.5.2016 per ciò che rileva ai fini del presente giudizio, ha fondato le proprie ragioni sulle seguenti motivazioni: non può trovare accoglimento l’eccezione di inammissibilità del ricorso introduttivo per la mancata contestazione da parte del contribuente dell’avviso di pagamento, in quanto quest’ultimo è privo degli elementi per i quali può essere considerato un atto impositivo dal carattere di definitività; nel merito è evidente che la produzione di rifiuti di un albergo nel suo complesso è maggiore di quella delle abitazioni private; tale principio, tuttavia, trova giustificazione solo con riguardo alle parti comuni in cui si realizza la maggiore produzione di rifiuti; il regime di tassazione più elevato applicato per gli alberghi non è, dunque, corretto laddove non prevede alcuna distinzione fra aree destinate esclusivamente a camere e quelle destinate ad usi comuni; il regolamento comunale con le relative tariffe va, pertanto disapplicato, con riferimento alle camere d’albergo; l’appello incidentale, proposto dalla società contribuente, riguardante la tassazione TARSU anche per gli anni 2010 e 2011, è infondato, in quanto è legittima la previsione legislativa dell’ultrattività della TARSU per effetto del D.Lgs. n. 23 del 2011, art. 14, comma 7; l’abrogazione della tassa in oggetto è stata espressamente stabilita con decorrenza 1 gennaio 2013 dal D.L. n. 201 del 2011, art. 47, convertito in L. n. 214 del 2011, istitutivo della Tares.

La contribuente si costituisce con controricorso e propone ricorso incidentale articolato in due motivi,

Con il primo motivo il Comune di San Giovanni Rotondo lamenta la violazione e la falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19.

Il ricorrente si duole della mancata declaratoria di inammissibilità del ricorso introduttivo della contribuente che era stata eccepita dal Comune in sede di appello.

Osserva infatti che l’ingiunzione non sarebbe stata impugnata per vizi propri ma per vizi riferiti all’atto presupposto.

Con il secondo motivo lamenta la violazione e la falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, del D.Lgs. n. 507 del 1993, artt. 61, 65, 68 e 69, nonchè del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7. Censura in particolare la motivazione dei giudici d’appello nella parte in cui ha ritenuto illegittimo il regolamento “laddove non pretende alcuna distinzione, nell’ambito degli alberghi, fra aree destinate esclusivamente a camere quelle destinate a parte di comuni”. A tale proposito invoca il D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 68, che attribuisce agli enti impositore la facoltà di differenziare le tariffe in relazione alla maggiore o minore produttività dei rifiuti delle varie attività assoggettate a prelievo.

Diritto

Considerato che:

Preliminarmente va esaminata la questione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla controricorrente ò per difetto del potere di rappresentanza sostanziale e processuale in capo al Sindaco legata alla mancata autorizzazione a stare in giudizio da parte della Giunta o del Dirigente competente.

L’eccezione è infondata.

Al riguardo giova ricordare che nel nuovo quadro delle autonomie locali, ai fini della rappresentanza in giudizio del Comune, l’autorizzazione alla lite da parte della giunta comunale non costituisce più, in linea generale, atto necessario ai fini della proposizione o della resistenza all’azione, salva restando la possibilità per lo statuto comunale – competente a stabilire i modi di esercizio della rappresentanza legale dell’ente, anche in giudizio (“ex” art. 6, comma 2, del testo unico delle leggi sull’ordinamento delle autonomie locali, approvato con il D.Lgs. n. 18 agosto 2000, n. 267) – di prevedere l’autorizzazione della giunta, ovvero di richiedere una preventiva determinazione del competente dirigente (ovvero, ancora, di postulare l’uno o l’altro intervento in relazione alla natura o all’oggetto della controversia). Ove l’autonomia statutaria si sia così indirizzata, l’autorizzazione giuntale o la determinazione dirigenziale devono essere considerati atti necessari, per espressa scelta statutaria, ai fini della legittimazione processuale dell’organo titolare della rappresentanza. U, Sentenza n. 12868 del 16/06/2005 V, anche Cass. 8083/2018).

L’autorizzazione alla lite da parte della Giunta non è più necessaria salvo che lo Statuto disponga in deroga alla previsione generale diversamente.

La decisione assunta dalla CTR pertanto è perfettamente in linea con gli indirizzi già espressi dalla Suprema Corte e si sottrae alla critica che le viene mossa avendo il Giudice di appello correttamente escluso la necessità dell’autorizzazione alla lite da parte della Giunta in assenza di una diversa disposizione statutaria derogatoria alla regola generale.

Venendo al primo motivo di ricorso si deve rilevare l’inammissibilità per difetto d specificità.

Occorre ricordare che al fine- di evitare di incorrere in un vizio di genericità del motivo per il mancato rispetto del disposto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, il ricorrente è tenuto ad indicare elementi e riferimenti atti ad individuare, nei suoi termini esatti e non genericamente, il contenuto della decisione che si assume viziata allo scopo di consentire a questa Corte di apprezzare l’effettiva portata dell’impugnazione proposta, senza compiere generali verifiche degli atti.

Il Comune infatti avrebbe dovuto, per mettere in condizione di valutare correttamente il motivo di doglianza, riportare o allegare l’avviso di pagamento in questione al fine di esaminare il suo contenuto e la sua impugnabilità in relazione a quanto in esso riportato.

Il secondo motivo del ricorso principale è fondato.

Giova infatti ricordare che questa Corte ha costantemente affermato il principio secondo cui non può ritenersi illegittima una Delib. comunale che preveda “una tariffa Tarsu per la categoria degli esercizi alberghieri notevolmente superiore a quella applicata alle civili abitazioni, in quanto costituisce un dato di comune esperienza la maggiore capacità produttiva di rifiuti propria di tali esercizi” (tra le molte, da ultimo, Cass. 28676/18; 8308/18; 16175/16).

Parimenti costante è l’indirizzo interpretativo in base al quale: “in tema di tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, non è configurabile alcun obbligo di motivazione della Delib. comunale di determinazione della tariffa di cui al D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, art. 65, poichè la stessa, al pari di qualsiasi atto amministrativo a contenuto generale o collettivo, si rivolge ad una pluralità indistinta, anche se determinabile “ex post”, di destinatari, occupanti o detentori, attuali o futuri, di locali ed aree tassabili” (Cass. n. 7044/14; così Cass. 22804/06 e, più recentemente, Cass. nn. 1979/18, 3187/18, 28676/18; Cass. 2019nr 7446).

Non vi sono ragioni per discostarsi da tale indirizzo che si attaglia appieno alla fattispecie qui dedotta.

Infatti, secondo la giurisprudenza di questa Corte “In tema di tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (TARSU), è legittima la delibera comunale di approvazione del regolamento e delle relative tariffe, in cui la categoria degli esercizi alberghieri venga distinta da quella delle civili abitazioni, ed assoggettata ad una tariffa notevolmente superiore a quella applicabile a queste ultime: la maggiore capacità produttiva di un esercizio alberghiero rispetto ad una civile abitazione costituisce, infatti, un dato di comune esperienza, emergente da un esame comparato dei regolamenti comunali in materia, ed assunto quale criterio di classificazione e valutazione quantitativa della tariffa anche dal D.Lgs. n. 22 del 1997, senza che assuma alcun rilievo il carattere stagionale dell’attività, il quale può eventualmente dar luogo all’applicazione di speciali riduzioni d’imposta, rimesse alla discrezionalità dell’ente impositore; i rapporti tra le tariffe, indicati dal D.Lgs. n. 507 del 1993, art. 69, comma 2, tra gli elementi di riscontro della legittimità della delibera, non vanno d’altronde riferiti alla differenza tra le tariffe applicate a ciascuna categoria classificata, ma alla relazione tra le tariffe ed i costi del servizio discriminati in base alla loro classificazione economica” (Cass. n. 16175/16, 11966/16, secondo la quale “In tema di tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, non è configurabile alcun obbligo di motivazione della delibera comunale di determinazione della tariffa di cui al D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, art. 65, poichè la stessa, al pari di qualsiasi atto amministrativo a contenuto generale o collettivo, si rivolge ad una pluralità indistinta, anche se determinabile “ex post”, di destinatari, occupanti o detentori, attuali o futuri, di locali ed aree tassabili”. (Sul punto si è pronunciata anche Cass. n. 22804 del 2006, ord. n. 26132 del 2011 e, soprattutto, recentemente, Cass. nn. 22521-22529/17, 15041-15050/17; Cassazione civile, sez. VI, 03/04/2018, n. 8077).

In questo quadro le previsioni regolamentari del Comune di San Giovanni Rotondo sono pienamente in linea con i dettami normativi non essendo richiesta dalla legge alcuna differenziazione del tipo di quella introdotta dal Giudice di appello (-cfr in questo senso fra le tante Cass. 20972/2019; Cass. 20966/2019; Cass. 20769/2019; Cass. 23243/2019).

Il motivo di ricorso incidentale con cui è stata denunciata la violazione e la falsa applicazione del D.L. 30 dicembre 2008, n. 208, art. 5, comma 1, convertito in legge con modificazioni (L. n. 13 del 2009 nonchè dell’art. 23 Cost. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3) è, invece, infondato.

Infatti, va rilevato come l’originario termine per l’introduzione della nuova tariffa fu più volte prorogato ad opera di disposizioni legislative emanate a scadenze quasi sempre annuali e portato al 30.6.2010 dal D.L. n. 194 del 2009, art. 8, comma 3 convertito con modificazioni dalla L. n. 25 del 2010. Ciò non significa che dal 1 gennaio 2010 fossero venuti meno i presupposti di legittima applicazione della Tarsu ovvero della tariffa Ronchi, stante la ultrattività generale della disciplina Tarsu come riconosciuto dalla Corte costituzionale con sentenza n. 238/09 (p.1.6.4) la quale ha ricollegato il definitivo passaggio (da Tarsu/Tia alla tariffa integrata) non soltanto all’emanazione del regolamento ministeriale previsto dal D.Lgs. n. 156 del 2006, art. 238, comma 6 ma altresì al completamento di tutti gli adempimenti necessari per dare piena attuazione alla nuova tariffa. Inoltre, sulla legittimità dell’applicazione della Tarsu e della Tariffa Ronchi da parte dei comuni si sono espressi anche il Mef con la circolare 11 novembre 2010, n. 3/D (cfr. punto 2.1. della circolare) e la Corte dei conti, sezione di controllo della Lombardia, nella Delib. 28 gennaio 2011, n. 21. Pertanto, sia per l’anno 2010 che per l’anno 2011 la tassa richiesta era dovuta dalla società contribuente.

Del pari infondata è la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla società controricorrente, in quanto, l’art. 23 Cost. fissa in materia tributaria una riserva di legge relativa e non assoluta, sulla base della quale alla norma primaria è richiesto di delineare i requisiti essenziali del tributo, potendo la stessa demandare alla fonte subprimaria, le modalità e l’ammontare del prelievo, in relazione ai soggetti passivi. In particolare, sulla riserva di legge relativa, con rinvio di dettaglio anche ad atti amministrativi generale, vedi: C.Cost. n. 64 del 1995, n. 148 del 1979, n. 180 del 1996, n. 269 del 1997, n. 435 del 2001; Cass. 16498/2003, 17602 /2003, 18262/2004).

Alla stregua delle considerazioni sopra esposte va accolto il ricorso principale e rigettato quello incidentale, la sentenza va cassata e la causa va decisa nel merito non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto.

Le spese relative alla fase di merito vanno compensate in ragione delle incertezze ermeneutiche relative all’applicazione della tarsu antecedenti alla proposizione del ricorso in cassazione.

Le spese della presente fase di legittimità vanno poste a carico della controricorrente e liquidate in dispositivo secondo i criteri del D.M. n. 37 del 2018. Va dato atto della sussistenza dei presupposti, per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

PQM

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE:

Accoglie il secondo motivo del ricorso principale, dichiara inammissibile il primo e rigetta quello incidentale cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito rigetta l’originario ricorso del contribuente; compensa le spese della fase di merito; condanna la ricorrente in via incidentale al pagamento delle spese processuali che si liquidano in complessivi Euro 1600,00 oltre al 15% per spese generali ed accessori di legge;

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto

Così deciso in Roma, il 22 novembre 2019.

Depositato in cancelleria il 6 febbraio 2020

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