Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28360 del 05/11/2019

Cassazione civile sez. trib., 05/11/2019, (ud. 28/05/2019, dep. 05/11/2019), n.28360

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. FANTICINI Giovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 9496/2018 R.G. proposto da:

Inox Mare Srl, nonchè S.U., G.H. e T.L.,

rappresentati e difesi dagli Avv.ti Renate Holzeisen e Michela

Reggio d’Aci, elettivamente domiciliata presso lo studio della

seconda in Roma via degli Scipioni n. 288, giusta procura speciale a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle dogane e dei monopoli, rappresentata e difesa

dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata

in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Toscana sez. staccata di Livorno n. 2070/14/2017, depositata il 28

settembre 2017.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28 maggio

2019 dal Consigliere Dott. Fuochi Tinarelli Giuseppe.

Fatto

RILEVATO

CHE:

Inox Mare Srl impugnava l’avviso di rettifica emessi dall’Agenzia delle dogane di Livorno in relazione all’importazione, di cui alla dichiarazione doganale IM4-18604G del 24.06.2010, di elementi di fissaggio in acciaio inossidabile, dichiarati dalle società esportatrici Tapu e Cano falsamente di origine filippina, ma, in effetti, di origine taiwanese, sì da ottenere l’emissione di certificati Form A falsi e l’applicazione del dazio preferenziale del 3,7% anzichè a quello antidumping del 23,6%.

I contribuenti, in particolare, contestavano la legittimità e fondatezza della ripresa e chiedevano l’applicazione dell’esimente ex art. 220 CDC, deducendo, in subordine, l’applicazione del dazio antidumping nella minor misura del 16,1%.

L’impugnazione era respinta dalla CTP di Livorno. La sentenza era confermata dal giudice d’appello.

Inox Mare Srl. nonchè S.U., G.H. e T.L., ricorrono per cassazione con quattro motivi, chiedendo, in subordine, rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE. Resiste l’Agenzia delle dogane con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. Va preliminarmente esaminata l’istanza di rimessione alla pubblica udienza formulata dalla contribuente in memoria.

1.1. L’istanza va disattesa.

Le ragioni sostanziali dedotte a fondamento della richiesta ed oggetto del ricorso (l’applicazione dell’art. 220, par. 2, lett. b), CDC; il valore probatorio della relazione e delle informative inviate dall’OLAF), pur caratterizzate da alcuni profili di specie, non sono inedite, sicchè non ricorrono le condizioni previste dall’art. 375 c.p.c., u.c..

Inoltre, per i ricorsi n. r.g. 27216/16, 24730/16 e 25237/16 l’udienza risulta già stata tenuta, sicchè sono assenti anche i presupposti in fatto per la trattazione unitaria.

1.2. In ogni caso, va escluso che la fissazione del giudizio ad un’udienza camerale comporti la violazione degli artt. 101 e 111 Cost..

Merita invero di essere sottolineato, in primo luogo, che la stessa Corte EDU dopo aver premesso che “la pubblicità dei dibattimenti giudiziari costituisce un principio fondamentale consacrato dall’art. 6, par. 1” ha rilevato che “un’udienza pubblica può non essere necessaria, tenuto conto delle circostanze eccezionali del caso, in particolare quando non sono sollevate questioni di fatto o di diritto che non possono essere risolte sulla sola base del fascicolo disponibile o delle osservazioni delle parti. Ciò avviene specialmente quando si tratta di questioni altamente tecniche” (v. Lorenzetti c. Italia, sentenza 10 aprile 2012).

Orbene, la ratio dell’intervento regolatore attuato con il D.L. n. 168 del 2016, conv., con modif., dalla L. n. 197 del 2016, che ha introdotto il nuovo rito camerale di legittimità “non partecipato”, è proprio quella di discernere la tipologia e la peculiarità delle questioni, la cui “particolare rilevanza” o complessità rende opportuna la trattazione in pubblica udienza, e, dunque, per converso, la discussione in pubblica udienza non possa ritenersi indispensabile in sede di legittimità nelle ipotesi di non particolare complessità.

Del resto – come rilevato a più riprese dalla Corte sia con riguardo al nuovo giudizio camerale di Sesta, sia per l’udienza camerale innanzi alla sezione semplice – nella novella “la garanzia del contraddittorio, costituente il nucleo indefettibile del diritto di difesa costituzionalmente tutelato, è assicurata dalla trattazione scritta della causa, con facoltà delle parti di presentare memorie per illustrare ulteriormente le rispettive ragioni… “quale esito di un bilanciamento, non irragionevolmente effettuato dal legislatore nell’ambito del potere di conformazione degli istituti processuali, tra le esigenze del diritto di difesa e quelle, del pari costituzionalmente rilevanti, di speditezza e concentrazione della decisione” (v. Cass. n. 395 del 10/01/2017; Cass. n. 5371 del 02/03/2017; Cass. n. 7701 del 24/03/2017; v. anche Cass. n. 24088 del 13/10/2017 in ordine alle esigenze cui risponde il nuovo rito; v. Cass. n. 5665 del 09/03/2018 sui limiti del rito camerale; v. Sez. U, n. 14437 del 05/06/2018 sulle condizioni per la rimessione alla pubblica udienza).

1.3. La questione di legittimità va dunque disattesa per difetto di rilevanza e manifesta infondatezza.

2. Passando all’esame del ricorso, il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione della Carta dei diritti fondamentali UE, art. 41, L. n. 241 del 1990, artt. 1,3 e 21 septies, art. 97 Cost., L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, comma 4 bis, 11 e 12 Reg. n. 883/2013/UE, EURATOM.

2.1. I contribuenti, in particolare, lamentano che l’avviso di rettifica sia stato emesso in base a mere informative interlocutorie, derivandone la nullità dell’intero procedimento attesa la necessità, prima dell’adozione degli atti impositivi, della preventiva redazione della Relazione finale OLAF. Deducono, in ogni caso, l’assenza di valore probatorio delle suddette informative e la violazione, da parte dell’OLAF, del contraddittorio endoprocedimentale, sicchè esse non potevano costituire “valida base motivazionale degli atti doganali impugnati”. Lamentano, infine, l’illegittimità del diniego di accesso opposto dall’Agenzia delle dogane ai suddetti atti.

3. Il motivo è infondato.

3.1. In punto di fatto, va premesso che la vicenda in giudizio si inserisce in una più ampia indagine esterna condotta dall’OLAF sulle importazioni di elementi di fissaggio in ferro ed acciaio inossidabile asseritamente fabbricati nelle Filippine, Paese beneficiario SPG, e, invece, provenienti da Taiwan, con conseguente assoggettamento al dazio antidumping del 23,6% previsto dal Reg. n. 1890/2005/CE anzichè a quello preferenziale del 3,7%.

Nel corso dell’indagine, avviata nel 2012 per il massiccio incremento dell’esportazione della suddetta merce, l’OLAF, in relazione agli esiti via via emersi, ha provveduto ad inviare alle competenti autorità doganali nazionali (tra cui quella italiana) delle informative interlocutorie, sulla cui base sono stati emessi gli atti impositivi.

3.2. Ciò detto, va escluso, in primo luogo, che le suddette informative interlocutorie siano prive di rilevanza probatoria.

L’art. 12, par. 1, Reg. n. 883/2013/UE, EURATOM stabilisce chiaramente che “fatti salvi gli artt. 10 e 11 del presente regolamento e le disposizioni del regolamento (Euratom, CE) n. 2185/96, l’Ufficio può trasmettere alle autorità competenti degli Stati membri interessati informazioni ottenute nel corso di indagini esterne in tempo utile per consentire loro di adottare le misure adeguate conformemente al loro diritto nazionale”, disposizione che si coniuga con il successivo par. 4, secondo il quale “l’Ufficio può fornire elementi di prova nei procedimenti giudiziari dinanzi agli organi giurisdizionali nazionali, conformemente al diritto nazionale e allo statuto”.

La previsione contenuta nell’art. 11, par. 2, secondo la quale “le relazioni così redatte costituiscono elementi di prova nei procedimenti amministrativi o giudiziari dello Stato membro nel quale risulti necessario avvalersene al medesimo titolo e alle medesime condizioni delle relazioni amministrative redatte dagli ispettori amministrativi nazionali. Le relazioni sono soggette alle medesime regole di valutazione applicabili alle relazioni amministrative nazionali e ne hanno la medesima valenza probatoria”, inoltre, pur esplicitamente riferita alla relazione redatta al termine dell’indagine, costituisce principio pienamente applicabile anche alle informative interlocutorie sia perchè lo stesso art. 12 richiama esplicitamente l’art. 11, sia perchè anche tali atti hanno natura ispettiva (e costituiscono i presupposti su cui è poi redatta la relazione finale) e, dunque, partecipano dei medesimi caratteri.

E del resto, come ripetutamente affermato da questa Corte, “sono utilizzabili quali fonti di prova emergentì dalle indagini svolte dall’OLAF anche i documenti acquisiti e la comunicazione di qualsiasi informazione ottenuta nel corso delle indagini espletate, compresi i verbali delle operazioni di missione” (Cass. n. 5892 del 08/03/2013).

In altri termini, la Relazione finale e le informative precedenti condividono la natura, unitaria, di atti ispettivi dell’OLAF e, quindi, sono soggette al medesimo regime di efficacia probatoria.

Giova sottolineare, sul punto, quanto alla valenza probatoria, che si possono distinguere tre diversi livelli di attendibilità “a seconda che i verbali siano assistiti da fede privilegiata, facciano fede fino a prova contrarla, oppure costituiscano elementi di prova valutabili in concorso con altri elementi” (Cass. n. 7993 del 21/03/2019), esclusa la loro irrilevanza.

3.3. E’ pertanto irrilevante che l’avviso di rettifica sia stato emesso in base alle sole informative interlocutorie, senza attendere la relazione finale.

E’ del resto dirimente, sul punto, che sia la Relazione finale che le informazioni interlocutorie non hanno, nè possono avere, alcuna efficacia vincolante o cogente per l’Autorità doganale poichè spetta ad esse “valutare, nell’ambito dei poteri loro propri, il contenuto e la portata di dette informazioni e, pertanto, il seguito che occorre darvi” (v. Tribunale di primo grado, sentenza 20 maggio 2010, T261/09, Commissione c/Violetti e a.; v. anche ordinanza 21 giugno 2017, T-289/16, su ricorso dell’odierna contribuente Inox Mare Srl) sicchè, a maggior ragione, non era in alcun modo necessario attendere la chiusura dell’indagine OLAF per l’emissione degli atti impositivi ove l’Agenzia delle dogane, sulla base della propria autonoma valutazione del complesso degli elementi portati alla sua conoscenza o altrimenti acquisiti, abbia ritenuto sussistere i presupposti per la ripresa.

3.4. Quanto all’asserita violazione del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’OLAF – che avrebbe inviato le informative interlocutorie senza il preventivo coinvolgimento della società – la censura è parimenti infondata.

L’art. 9, par. 4, Reg. n. 883/2013, invero, impone che “una volta terminata l’indagine e prima che siano redatte conclusioni che facciano riferimento nominativamente a una persona interessata, a tale persona è data la possibilità di presentare le proprie osservazioni sui fatti che la riguardano”.

L’art. 12 (rubricato “Scambio di informazioni tra l’Ufficio e le autorità competenti degli Stati membri”) fornisce peraltro una disciplina più articolata.

La norma dispone: “1. Fatti salvi gli artt. 10 e 11 del presente regolamento e le disposizioni del regolamento (Euratom, CE) n. 2185/96, l’Ufficio può trasmettere alle autorità competenti degli Stati membri interessati informazioni ottenute nel corso di indagini esterne in tempo utile per consentire loro di adottare le misure adeguate conformemente al loro diritto nazionale.

2. Fatti salvi gli artt. 10 e 11, il direttore generale trasmette alle autorità giudiziarie dello Stato membro interessato le informazioni raccolte dall’Ufficio nel corso di indagini interne su fatti che rientrano nell’ambito di competenza di un’autorità giudiziaria nazionale.

Conformemente all’art. 4 e fatto salvo l’art. 10, il direttore generale trasmette inoltre all’istituzione, organo o organismo interessati le informazioni di cui al comma 1 del presente paragrafo, comprese l’identità della persona interessata, una sintesi dei fatti accertati, la loro qualificazione giuridica preliminare e la valutazione dell’incidenza sugli interessi finanziari dell’Unione.

Si applica l’art. 9, paragrafo 4.

3. Le autorità competenti dello Stato membro interessato, fatto salvo il loro diritto nazionale, informano l’Ufficio in tempo utile, di propria iniziativa o su richiesta dell’Ufficio, delle misure adottate sulla base delle informazioni loro trasmesse ai sensi del presente articolo.

4. L’Ufficio può fornire elementi di prova nei procedimenti giudiziari dinanzi agli organi giurisdizionali nazionali, conformemente al diritto nazionale e allo statuto.”

Come emerge chiaramente dal su riportato dettato normativo, in caso di trasmissione di informazioni nel corso delle indagini, l’art. 12 distingue tra le indagini interne e quelle esterne, imponendo solo per le prime (par. 2, che richiama esplicitamente, al secondo capoverso, l’art. 9, par. 4) il rispetto della procedura di contraddittorio anticipato, mentre per le seconde la norma si limita a prescrivere “fatti salvi gli artt. 10 e 11 del presente regolamento e le disposizioni del regolamento (Euratom, CE) n. 2185/96, l’Ufficio può trasmettere alle autorità competenti degli Stati membri interessati informazioni ottenute nel corso di indagini esterne in tempo utile per consentire loro di adottare le misure adeguate conformemente al loro diritto nazionale”.

Il richiamo agli artt. 10 (“Riservatezza e tutela dei dati”) e 11 (“Relazione sulle indagini e provvedimenti conseguenti alle indagini”), inoltre, non può avere il significato di estendere, di per sè, l’applicazione anche del citato art. 9, par. 4: l’identica locuzione con riguardo agli artt. 10 e 11 è infatti contenuta nel par. 2 (sulle indagini esterne), che, invece, richiama espressamente anche la suddetta ulteriore previsione.

L’art. 10, anzi, ribadisce la riservatezza dei dati acquisiti dall’OLAF, che, con riguardo alle indagini esterne, sono “protette dalle disposizioni pertinenti”.

In conclusione, pertanto, la tutela è, dunque, massima per l’atto di chiusura delle indagini che, ove nelle conclusioni si faccia riferimento nominativo a una persona interessata, deve essere preceduto da un contraddittorio endoprocedimentale.

Analoga tutela è assicurata per le informazioni trasmesse nel corso delle indagini interne semprechè, anche in questo caso, vi sia riferimento nominativo ad una persona interessata.

Per le indagini esterne, invece, nulla di tutto ciò viene stabilito poichè la norma, oltre a richiamare gli obblighi di riservatezza, si limita a prescrivere che la trasmissione delle informazioni mira a consentire, “in tempo utile”, l’adozione delle “misure adeguate al diritto nazionale”.

Ne deriva che è solo in tale ulteriore fase, se e in quanto dia luogo ad un provvedimento verso uno specifico interlocutore, che si impone, nella concreta evenienza, l’osservanza delle garanzie sul contraddittorio.

3.5. Neppure si può ritenere che la disciplina, così articolata, sia lesiva dei principi di cui all’art. 41 della Carta fondamentale, che al par. 2, lett. a), prevede ” 2…. a) il diritto di ogni persona di essere ascoltata prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che le rechi pregiudizio”.

Da un lato, infatti, il diritto ad essere sentito è previsto prima della Relazione finale e della formulazione delle relative conclusioni (così realizzando una tutela anticipata rispetto a quanto imposto dall’art. 41 cit., non essendo, di per sè, tale atto immediatamente pregiudizievole); dall’altro, con riguardo alle informazioni interlocutorie, la necessità del contraddittorio endoprocedimentale è mirata alle sole indagini interne che facciano riferimento ad un soggetto nominativamente individuato, mentre, nelle altre ipotesi, resta connessa alla, eventuale, adozione di misure successive in sede nazionale.

Come rilevato, d’altra parte, la concreta incidenza degli atti dell’OLAF ai fini dell’avvio di qualsiasi attività successiva è rimessa alle valutazioni delle autorità nazionali, che, in tali termini, operano in autonomia e nel rispetto delle disposizioni che regolano il procedimento secondo il diritto nazionale, ivi compreso, in particolare, il rispetto delle garanzie del contraddittorio e dei diritti fondamentali dell’Unione.

3.6. Va poi escluso che nel procedimento interno sia stato leso il diritto al contraddittorio del contribuente.

Occorre sottolineare, per quanto necessario, che dalla sentenza risulta che: il verbale di constatazione è stato notificato e ad esso erano allegati gli atti interlocutori inviati dall’OLAF; l’avviso di rettifica è stato emanato nel rispetto del termine D.Lgs. n. 374 del 1990, ex art. 11, comma 4 bis; le osservazioni della contribuente sono state espressamente esaminate.

La contraria deduzione della contribuente, oltre ad essere del tutto carente per autosufficienza, si scontra, sul punto, con l’accertamento in fatto operato dalla CTR.

4. Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 220, par. 2, lett. b, CDC.

Deduce, in particolare, che il rilascio di certificato d’origine, risultato poi falso, da parte delle Autorità Filippine costituiva errore attivo per aver detto Paese omesso i necessari preventivi controlli, errore che non poteva essere ragionevolmente scoperto da Inox Mare Srl che versava in una condizione di buona fede.

In via subordinata formulano istanza di rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE sull’interpretazione dell’art. 220, par. 2, lett. b, CDC 4.1. Il motivo è infondato ed ai limiti dell’inammissibile.

4.2. Secondo l’art. 220, par. 2, lett. b, CDC, le autorità competenti non procedono alla contabilizzazione a posteriori dei dazi all’importazione solo qualora ricorrano tre condizioni cumulative, ossia che: i dazi non siano stati riscossi a causa di un errore delle autorità competenti stesse; l’errore commesso da queste ultime sia stato di natura tale da non poter essere ragionevolmente rilevato da un debitore in buona fede; quest’ultimo abbia rispettato tutte le prescrizioni della normativa in vigore relative alla sua dichiarazione in dogana.

4.3. La Corte di Giustizia, invero, è costante nell’affermare la necessaria ricorrenza di tutte e tre le condizioni, affermazione che integra un orientamento da lungo tempo assolutamente consolidato (v. Corte di Giustizia, sentenza 12 luglio 1989, in C-161/88, Binder, punti 15 e 16; sentenza 14 maggio 1996, C-153/94 e C-204/94, Faroe Seafood e a., punto 83; sentenza 18 ottobre 2007, in C173/06, Agrover Srl, punto 30; sentenza 17 dicembre 2014, in C3/13, Baltic Agro AS, punto 35; sentenza 26 ottobre 2017, in C407/16, “Aqua Pro” SIA), e stabilmente seguito dalla Corte di cassazione (v. da ultimo Cass. n. 6131 del 01/03/2019; Cass. n. 7775 del 20/03/2019).

4.4. In talune decisioni, invero, la Corte del Lussemburgo ha con chiarezza e puntualità ulteriormente specificato i presupposti e le situazioni fattuali rilevanti ai fini dell’applicazione dell’istituto.

4.5. Nella sentenza 10 dicembre 2015, in C-427/14, Valsts iepèmumu dienests, infatti, la Corte, ai punti 44 e 45, fornisce utili indicazioni in merito all’errore attivo precisando “il legittimo affidamento del debitore merita la tutela conferita da tale disposizione (220, paragrafo 2, lett. b) solo se sono state le autorità competenti “medesime” a porre in essere i presupposti sui quali riposava detto affidamento. Così, solo gli errori imputabili a un comportamento attivo delle autorità competenti danno diritto a che i dazi doganali non vengano recuperati a posteriori… tale situazione non sembra, tuttavia, essere in discussione nel procedimento principale, dato che, in particolare,… il procedimento di revisione è stato reiterato a seguito di un’informazione relativa al certificato d’origine, nel caso di specie risultante da una relazione dell’OLAF che non era nota alle autorità doganali alla data dell’adozione della decisione relativa al primo controllo a posteriori”.

In altri termini, di per sè non costituisce errore attivo la circostanza che, anteriormente agli elementi pervenuti con la relazione dell’OLAF (comprovanti la falsità della dichiarazione d’origine), l’autorità doganale nulla avesse obbiettato sulla merce.

4.6. Particolarmente significative sono poi le precisazioni affermate dalla Corte nella sentenza 16 maggio 2017, in C-47/16, Valsts ienemumu dienests.

La Corte, in primo luogo, nell’esaminare la questione “se un importatore possa avvalersi del legittimo affidamento, ai sensi dell’art. 220, paragrafo 2, lett. b), del codice doganale, eccependo la propria buona fede, non soltanto quando l’esportatore abbia fornito informazioni inesatte alle autorità doganali dello Stato di esportazione,… ma anche quando dette autorità abbiano esse stesse commesso un errore rilasciando il certificato di origine “modulo A” di cui trattasi”, dopo aver ribadito che “solo gli errori imputabili a un comportamento attivo delle autorità competenti fanno sorgere il diritto a che i dazi doganali non vengano recuperati a posteriori” ha precisato che “dalla giurisprudenza della Corte risulta che l’art. 220, paragrafo 2, lett. b), comma 3, del codice doganale non può essere interpretato nel senso che il rilascio, da parte delle autorità doganali dello Stato di esportazione, di un certificato di origine “modulo A” inesatto costituisce un errore commesso dalle autorità “medesime”, qualora tali certificati siano stati redatti sulla base di una presentazione inesatta dei fatti da parte dell’esportatore, a meno che, in particolare, non sia evidente che dette autorità sapevano o avrebbero dovuto sapere che le merci non soddisfacevano le condizioni richieste per beneficiare del trattamento preferenziale”.

Proseguendo nel ragionamento, poi, la Corte ha affermato che “qualora risulti che l’irregolarità di un certificato di origine “modulo A” derivi da un comportamento illecito dell’esportatore e che le autorità competenti dello Stato di esportazione non avrebbero potuto, nè dovuto, rilevare che le merci non soddisfacevano le condizioni richieste per beneficiare del trattamento preferenziale, è l’importatore che sopporta le conseguenze della produzione, in occasione di un successivo controllo, di un documento commerciale che si rivela falso, cosicchè tale importatore non può, in un’ipotesi del genere, opporsi al recupero a posteriori dei dazi doganali”.

In sintesi, pertanto, l’importatore, in una simile situazione non può invocare la propria buona fede “a meno che non sia evidente che le autorità doganali dello Stato di esportazione sapevano o avrebbero dovuto sapere che le merci di cui trattasi non soddisfacevano le condizioni richieste per beneficiare del trattamento preferenziale”.

4.7. La medesima decisione, poi, con riguardo al parametro della diligenza richiesta all’importatore (ossia, “la diligenza di cui un importatore è tenuto a dar prova per poter essere considerato in buona fede”) ha cura di fornire ulteriori indicazioni.

Rileva, in primo luogo, il carattere dell’errore, ossia deve trattarsi di “un errore di natura tale da non poter ragionevolmente essere riconosciuto dal debitore in buona fede, nonostante la sua esperienza professionale e la diligenza di cui era tenuto a dar prova”.

Ciò significa che “è compito degli operatori economici adottare, nell’ambito dei loro rapporti contrattuali, i provvedimenti necessari per premunirsi contro i rischi di un’azione di recupero a posteriori e che tale prevenzione può consistere, in particolare, nel fatto che il debitore ottenga dall’altro contraente, al momento della conclusione del contratto o successivamente, tutti gli elementi di prova attestanti che le merci provengono dallo Stato beneficiario del sistema di preferenze tariffarie generalizzate, inclusi documenti attestanti tale origine”.

Non è imposto, invero, in termini indistinti “un obbligo generale a carico di un importatore di verificare sistematicamente le circostanze del rilascio, da parte delle autorità doganali dello Stato di esportazione, di un certificato di origine “modulo A”, compreso il ruolo dell’esportatore nella produzione delle merci”.

Un tale obbligo, peraltro, sorge e “grava sull’importatore qualora abbia ragioni evidenti per dubitare dell’esattezza di un certificato di origine”, con la conseguenza che, in tal caso, non può considerarsi in buona fede se esso si sia “astenuto dall’informarsi, nella massima misura possibile, delle circostanze del rilascio di tale certificato per verificare se detti dubbi fossero giustificati” per cui “si dovrà considerare che l’errore manifesto commesso dalle autorità doganali dello Stato di esportazione avrebbe potuto – o avrebbe dovuto – essere scoperto dall’importatore “.

4.8. La sentenza 8 novembre 2012, in C-438/11, Lagura Vermogensverwaltung GmbH, inoltre, da un lato, ribadisce la piena applicabilità degli esposti principi all’ipotesi, come quella in giudizio, in cui il regime preferenziale sia “introdotto non da un accordo internazionale fra l’Unione e uno Stato terzo basato su obblighi reciproci, ma da un provvedimento autonomo dell’Unione”, non potendo le autorità dello Stato di esportazione “vincolare quest’ultima (l’Unione Europea) e i suoi Stati membri alla loro valutazione in merito alla validità dei certificati d’origine “modulo A”” poichè la soluzione contraria “priverebbe le autorità doganali dello Stato di importazione… della possibilità di domandare la prova che il certificato d’origine si basa su una situazione fattuale riferita in maniera inesatta o esatta dall’esportatore” sì da vanificare “l’esattezza dell’origine delle merci indicata nel certificato d’origine”.

Dall’altro, con riguardo all’onere della prova, ribadisce che questa è a carico del debitore (esclusa, dunque, ogni presunzione a suo favore), con le incisive considerazioni che è sicuramente vero che detto onere “può essere per lui fonte di inconvenienti” ma che ciò è giustificato poichè “è bene ricordare che, nel calcolare i vantaggi realizzabili mediante il commercio di prodotti che possono fruire di preferenze tariffarie, l’operatore economico accorto e al corrente della normativa vigente deve valutare i rischi inerenti al mercato che gli interessa ed accettarli come facenti parte della categoria dei normali inconvenienti dell’attività commerciale”.

4.9. Ne deriva, in termini univoci, che:

a) debbono ricorrere tutte e tre le condizioni di cui all’art. 220, comma 2, lett. b, CDC;

b) la semplice falsità della dichiarazione d’origine legittima l’azione di recupero dei dazi;

c) non costituisce, di per sè, errore attivo il rilascio di una certificazione falsa e ciò, in ispecie, se sia stata determinata da una falsa rappresentazione in fatto dell’esportatore;

d) per ritenere, in questo caso, l’errore imputabile all’autorità emittente occorre provare che essa sapeva o doveva sapere che le merci non soddisfacevano le condizioni richieste per beneficiare del trattamento preferenziale;

e) occorre provare, inoltre, che un simile errore non poteva ragionevolmente essere conosciuto dal debitore in buona fede;

f) l’onere della prova di tutti gli indicati elementi incombe sull’operatore;

g) gli operatori economici, in relazione alla loro esperienza professionale e al grado di diligenza che necessariamente l’accompagna, devono munirsi di tutti gli elementi attestanti la corretta applicazione del regime preferenziale, ivi compresa l’origine delle merci;

h) gli obblighi di diligenza, e i relativi oneri, non si spingono, normalmente, fino a richiedere la verifica sistematica di tutte le circostanze del rilascio del certificato e del ruolo dell’esportatore;

i) ove, peraltro, sussistano circostanze che inducano a dubitare dell’esattezza di un certificato d’origine, è richiesta la massima diligenza possibile, che, parimenti, va provata dall’operatore.

4.10. In relazione ai reiterati e chiari interventi della Corte di Giustizia sulla questione, pertanto, va disattesa la richiesta di rinvio pregiudiziale avuto riguardo alla portata e contenuto dell’art. 220 CDC.

4.11. L’impugnata sentenza si è attenuta ai principi sopra esposti ed ha valutato, con motivazione articolata e puntuale, tutti gli elementi rilevanti, esclusa dunque la violazione dedotta.

In particolare, ha escluso la configurabilità dell’errore attivo da parte delle Autorità Filippine poichè l’emissione del certificato Form A “è dovuto all’esportatore che ha fornito informazioni inesatte”.

Inoltre, seppure l’Autorità doganale filippina poteva attivarsi per un miglior controllo, “altrettanto facilmente una società di livello internazionale poteva verificare donde provenisse la merce importata”, tanto più – rileva la CTR – che una simile verifica era stata operata dalla stessa società per altri paesi del sud est asiatico, sicchè ha parimenti escluso che fosse configurabile una condizione di buona fede, così allineandosi al giudizio – pure valutato dalla CTR – espresso in sede di archiviazione del corrispondente procedimento penale avvenuto per la difficoltà di provare il dolo (e non, come sostenuto dalla contribuente, per carenza della mala fede) ma “esprimendo un giudizio negativo sulla diligenza” degli importatori.

4.12. I ricorrenti, peraltro, a fronte di tale ampia motivazione e analisi, si limitano, in realtà, a censurare l’adeguatezza e la sufficienza della motivazione e, anzi, a contestare, in termini di non condivisibilità, le valutazioni operate dal giudice di merito sulle acquisizioni probatorie in giudizio, in vista, dunque, di una nuova valutazione delle risultanze di fatto, non consentita in sede di legittimità.

5. Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 220, par. 1, CDC, del Reg. di Esecuzione n. 205/2013/UE, del Reg. di Esecuzione n. 2/2012/UE, del Reg. n. 1890/2005/CE e del Reg. n. 1225/2009/CE.

I contribuenti lamentano, in particolare, l’applicazione retroattiva del Reg. 205/2013/UE con cui è stato esteso il dazio antidumping sull’importazione di elementi di fissaggio in acciaio inossidabile originari di Taiwan anche ai prodotti spediti dalle Filippine.

5.1. Il motivo è infondato.

Il Reg. 205/2013/UE, adottato in esito ai risultati dell’inchiesta avviata dalla Commissione, si è limitato ad estendere il dazio antidumping a tutti gli elementi di fissaggio in questione spediti dalle Filippine a prescindere dalla prova dell’origine filippina o meno.

Il nuovo regolamento, tuttavia, non assume alcun rilievo nella vicenda in giudizio poichè, come emerge dalla sentenza, gli elementi di fissaggio in acciaio oggetto delle importazioni erano di origine di Taiwan e, dunque, soggetti, come tali, alla disciplina antidumping di cui al Reg. n. 1890/2005/CE.

6. Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 239 CDC per aver la CTR disconosciuto le condizioni per il rimborso o lo sgravio dei dazi all’importazione.

I contribuenti, in particolare, deducono la ricorrenza di una situazione particolare nella prolungata e massiccia emissione di certificati Form A da parte dell’autorità filippina in assenza di controlli sostanziali e nel ritardo con cui la Commissione Europea sarebbe intervenuta, nonchè la sussistenza, da parte della Inox Mare Srl, dei requisiti dell’assenza di frode e nella non manifesta negligenza.

6.1. Il motivo va disatteso.

6.2. L’art. 239 CDC costituisce una clausola generale di equità, applicabile in costanza di situazioni particolari ed in assenza di simulazioni e di negligenza manifesta da parte dell’interessato.

6.3. Orbene, nella vicenda in giudizio, è dirimente che la CTR, con accertamento in fatto, ha escluso che la società versasse in buona fede, e, anzi, ne ha evidenziato la negligenza per aver usato i certificati falsificati senza attivare alcuno dei necessari controlli che, in concreto, erano doverosi e dovuti, attesa anche la sua qualità di esperto operatore professionale.

E’ appena il caso di sottolineare, inoltre, che l’ampia attività istruttoria e di analisi svolta sin dal 2010 dalla Commissione Europea (v. Regolamento di esecuzione n. 2/2012) che poneva in qualificata osservazione quello specifico Paese, rafforzava la necessità, per gli operatori dello specifico settore che decidevano di intervenire sul mercato delle Filippine, di elevare lo standard di diligenza.

Ne deriva l’infondatezza della doglianza.

7. Il ricorso va pertanto respinto. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna Inox Mare Srl, S.U., G.H. e T.L. al pagamento delle spese a favore dell’Agenzia delle dogane, che liquida in complessivi Euro 4.100,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 28 maggio 2019.

Depositato in cancelleria il 5 novembre 2019

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