Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28359 del 05/11/2019

Cassazione civile sez. trib., 05/11/2019, (ud. 28/05/2019, dep. 05/11/2019), n.28359

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. FANTICINI Giovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 2472/2017 R.G. proposto da:

Inox Mare Srl, rappresentata e difesa dagli Avv.ti Renate Holzeisen e

Michela Reggio d’Aci, elettivamente domiciliata presso lo studio

della seconda in Roma via degli Scipioni n. 288, giusta procura

speciale a margine del ricorso;

– ricorrente e controricorrente al ricorso incidentale –

contro

Agenzia delle dogane e dei monopoli, rappresentata e difesa

dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata

in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale

dell’Emilia Romagna n. 1794/01/16, depositata il 29 giugno 2016.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28 maggio

2019 dal Consigliere Giuseppe Fuochi Tinarelli.

Lette le conclusioni depositate dal Sostituto Procuratore generale

Ettore Pedicini che ha concluso per il rigetto del ricorso

principale e di quello incidentale.

Fatto

RILEVATO

CHE:

Inox Mare Srl impugnava due avvisi di rettifica emessi dall’Agenzia delle dogane di (OMISSIS) in relazione all’importazione, tra settembre 2011 e maggio 2012, di elementi di fissaggio in acciaio inossidabile, dichiarati dalle società esportatrici Tapu e Cano falsamente di origine filippina, ma, in effetti, di origine taiwanese, sì da ottenere l’emissione di certificati Form A falsi e l’applicazione del dazio preferenziale del 3,7% anzichè di quello antidumping del 23,6%.

La contribuente, in particolare, contestava la legittimità e fondatezza della ripresa e chiedeva l’applicazione dell’esimente ex art. 220 CDC, deducendo, in subordine, l’applicazione del dazio antidumping nella minor misura del 16,1%.

L’impugnazione era accolta dalla CTP di Ravenna limitatamente alla richiesta di applicazione del minor dazio antidumping. La sentenza era confermata dal giudice d’appello.

Inox Mare Srl ricorre per cassazione con quattro motivi, chiedendo, in subordine, rinvio pregiudiziale TFUE, ex art. 267. Resiste l’Agenzia delle dogane con controricorso, proponendo ricorso incidentale con un motivo.

La contribuente deposita altresì memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c., con cui chiede, in particolare, la rimessione alla pubblica udienza per la trattazione congiunta con ulteriori controversie.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. Va preliminarmente esaminata l’istanza di rimessione alla pubblica udienza formulata dalla contribuente in memoria.

1.1. L’istanza va disattesa.

Le ragioni sostanziali dedotte a fondamento della richiesta ed oggetto del ricorso (l’applicazione dell’art. 220 CDC, par. 2, lett. b); il valore probatorio della relazione e delle informative inviate dall’OLAF), pur caratterizzate da alcuni profili di specie, non sono inedite, sicchè non ricorrono le condizioni previste dall’art. 375 c.p.c., u.c..

Inoltre, per i ricorsi n. r.g. 27216/16, 24730/16 e 25237/16 l’udienza risulta già stata tenuta, sicchè sono assenti anche i presupposti in fatto per la trattazione unitaria.

1.2. In ogni caso, va escluso che la fissazione del giudizio ad un’udienza camerale comporti la violazione degli artt. 101 e 111 Cost..

Merita invero di essere sottolineato, in primo luogo, che la stessa Corte EDU dopo aver premesso che “la pubblicità dei dibattimenti giudiziari costituisce un principio fondamentale consacrato dall’art. 6, par. 1” ha rilevato che “un’udienza pubblica può non essere necessaria, tenuto conto delle circostanze eccezionali del caso, in particolare quando non sono sollevate questioni di fatto o di diritto che non possono essere risolte sulla sola base del fascicolo disponibile o delle osservazioni delle parti. Ciò avviene specialmente quando si tratta di questioni altamente tecniche” (v. Lorenzetti c. Italia, sentenza 10 aprile 2012).

Orbene, la ratio dell’intervento regolatore attuato con il D.L. n. 168 del 2016, conv., con modif., dalla L. n. 197 del 2016, che ha introdotto il nuovo rito camerale di legittimità “non partecipato”, è proprio quella di discernere la tipologia e la peculiarità delle questioni, la cui “particolare rilevanza” o complessità rende opportuna la trattazione in pubblica udienza, e, dunque, per converso, la discussione in pubblica udienza non può ritenersi indispensabile in sede di legittimità nelle ipotesi di non particolare complessità.

Del resto – come rilevato a più riprese dalla Corte sia con riguardo al nuovo giudizio camerale di Sesta, sia per l’udienza camerale innanzi alla sezione semplice – nella novella “la garanzia del contraddittorio, costituente il nucleo indefettibile del diritto di difesa costituzionalmente tutelato, è assicurata dalla trattazione scritta della causa, con facoltà delle parti di presentare memorie per illustrare ulteriormente le rispettive ragioni… “quale esito di un bilanciamento, non irragionevolmente effettuato dal legislatore nell’ambito del potere di conformazione degli istituti processuali, tra le esigenze del diritto di difesa e quelle, del pari costituzionalmente rilevanti, di speditezza e concentrazione della decisione” (v. Cass. n. 395 del 10/01/2017; Cass. n. 5371 del 02/03/2017; Cass. n. 7701 del 24/03/2017; v. anche Cass. n. 24088 del 13/10/2017 in ordine alle esigenze cui risponde il nuovo rito; v. Cass. n. 5665 del 09/03/2018 sui limiti del rito camerale; v. Sez. U, n. 14437 del 05/06/2018 sulle condizioni per la rimessione alla pubblica udienza).

1.3. La questione di legittimità va dunque disattesa per difetto di rilevanza e manifesta infondatezza.

2. Passando all’esame del ricorso principale, il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione della Carta dei diritti fondamentali UE, art. 41, L. n. 241 del 1990, artt. 1,3 e 21 septies, art. 97 Cost., L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, comma 4 bis, Reg. EURATOM n. 883/2013/UE, artt. 11 e 12.

2.1. La contribuente, in particolare, lamenta che l’avviso di rettifica sia stato emesso in base a mere informative interlocutorie, derivandone la nullità dell’intero procedimento attesa la necessità, prima dell’adozione degli atti impositivi, della preventiva redazione della Relazione finale OLAF. Deduce, in ogni caso, l’assenza di valore probatorio delle suddette informative e la violazione, da parte dell’OLAF, del contraddittorio endoprocedimentale, sicchè esse non potevano costituire “valida base motivazionale degli atti doganali impugnati”. Lamenta, infine, l’illegittimità del diniego di accesso opposto dall’Agenzia delle dogane ai suddetti atti.

In subordine chiede rinvio pregiudiziale TFUE, ex art. 267, in ordine alla validità del Final Report dell’OLAF OF/2013/0086/B1 THOR(2015) 40189, della conseguente Raccomandazione finale, nonchè dei presupposti e connessi atti dell’OLAF.

3. Il motivo è infondato.

3.1. In punto di fatto, va premesso che la vicenda in giudizio si inserisce in una più ampia indagine esterna condotta dall’OLAF sulle importazioni di elementi di fissaggio in ferro ed acciaio inossidabile asseritamente fabbricati nelle Filippine, Paese beneficiario SPG, e, invece, provenienti da Taiwan, con conseguente assoggettamento al dazio antidumping del 23,6% previsto dal Reg. n. 1890/2005/CE anzichè a quello preferenziale del 3,7%.

Nel corso dell’indagine, avviata nel 2012 per il massiccio incremento dell’esportazione della suddetta merce, I’OLAF, in relazione agli esiti via via emersi, ha provveduto ad inviare alle competenti autorità doganali nazionali (tra cui quella italiana) delle informative interlocutorie, sulla cui base sono stati emessi gli atti impositivi.

3.2. Ciò detto, va escluso, in primo luogo, che le suddette informative interlocutorie siano prive di rilevanza probatoria.

Il Reg. EURATOM, n. 883/2013/UE, art. 12, par. 1, stabilisce chiaramente che “fatto salvi presente Reg., artt. 10 e 11, e le Disp. del Reg. (Euratom, CE) n. 2185 del 1996, l’Ufficio può trasmettere alle autorità competenti degli Stati membri interessati informazioni ottenute nel corso di indagini esterne in tempo utile per consentire loro di adottare le misure adeguate conformemente al loro diritto nazionale”, disposizione che si coniuga con il successivo par. 4, secondo il quale “l’Ufficio può fornire elementi di prova nei procedimenti giudiziari dinanzi agli organi giurisdizionali nazionali, conformemente al diritto nazionale e allo statuto”.

La previsione contenuta nell’art. 11, par. 2, secondo la quale “le relazioni così redatte costituiscono elementi di prova nei procedimenti amministrativi o giudiziari dello Stato membro nel quale risulti necessario avvalersene al medesimo titolo e alle medesime condizioni delle relazioni amministrative redatte dagli ispettori amministrativi nazionali. Le relazioni sono soggette alle medesime regole di valutazione applicabili alle relazioni amministrative nazionali e ne hanno la medesima valenza probatoria”, inoltre, pur esplicitamente riferita alla relazione redatta al termine dell’indagine, costituisce principio pienamente applicabile anche alle informative interlocutorie sia perchè il cit. art. 12 richiama esplicitamente l’art. 11, sia perchè anche tali atti hanno natura ispettiva (e costituiscono i presupposti su cui è poi redatta la relazione finale) e, dunque, partecipano dei medesimi caratteri.

E del resto, come ripetutamente affermato da questa Corte, “sono utilizzabili quali fonti di prova emergenti dalle indagini svolte dall’OLAF anche i documenti acquisiti e la comunicazione di qualsiasi informazione ottenuta nel corso delle indagini espletate, compresi i verbali delle operazioni di missione” (Cass. n. 5892 del 08/03/2013).

In altri termini, la Relazione finale e le informative precedenti condividono la natura, unitaria, di atti ispettivi dell’OLAF e, quindi, sono soggette al medesimo regime di efficacia probatoria.

Giova sottolineare, sul punto, quanto alla valenza probatoria, che si possono distinguere tre diversi livelli di attendibilità “a seconda che i verbali siano assistiti da fede privilegiata, facciano fede fino a prova contraria, oppure costituiscano elementi di prova valutabili in concorso con altri elementi” (Cass. n. 7993 del 21/03/2019), esclusa la loro irrilevanza.

3.3. E’ pertanto irrilevante che l’avviso di rettifica sia stato emesso in base alle sole informative interlocutorie, senza attendere la relazione finale.

E’ del resto dirimente, sul punto, che sia la Relazione finale che le informazioni interlocutorie non hanno, nè possono avere, alcuna efficacia vincolante o cogente per l’Autorità doganale poichè spetta ad esse “valutare, nell’ambito dei poteri loro propri, il contenuto e la portata di dette informazioni e, pertanto, il seguito che occorre darvi” (v. Tribunale di primo grado, sentenza 20 maggio 2010, T261/09, Commissione c/Violetti e a.; v. anche ordinanza 21 giugno 2017, T-289/16, su ricorso dell’odierna contribuente Inox Mare Srl) sicchè, a maggior ragione, non era in alcun modo necessario attendere la chiusura dell’indagine OLAF per l’emissione degli atti impositivi ove l’Agenzia delle dogane, sulla base della propria autonoma valutazione del complesso degli elementi portati alla sua conoscenza o altrimenti acquisiti, abbia ritenuto sussistere i presupposti per la ripresa.

3.4. Quanto all’asserita violazione del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’OLAF – che avrebbe inviato le informative interlocutorie senza il preventivo coinvolgimento della contribuente – la censura è parimenti infondata.

Il Reg. n. 883 del 2013, art. 9, par. 4, invero, impone che “una volta terminata l’indagine e prima che siano redatte conclusioni che facciano riferimento nominativamente a una persona interessata, a tale persona è data la possibilità di presentare le proprie osservazioni sui fatti che la riguardano”.

L’art. 12 (rubricato “Scambio di informazioni tra l’Ufficio e le autorità competenti degli Stati membri”) fornisce peraltro una disciplina più articolata.

La norma dispone: “1. Fatto salvo il presente Reg., artt. 10 e 11, e le Disp. del Reg. (Euratom, CE) n. 2185 del 1996, l’Ufficio può trasmettere alle autorità competenti degli Stati membri interessati informazioni ottenute nel corso di indagini esterne in tempo utile per consentire loro di adottare le misure adeguate conformemente al loro diritto nazionale.

2. Fatti salvi gli artt. 10 e 11, il direttore generale trasmette alle autorità giudiziarie dello Stato membro interessato le informazioni raccolte dall’Ufficio nel corso di indagini interne su fatti che rientrano nell’ambito di competenza di un’autorità giudiziaria nazionale.

Conformemente all’art. 4, e fatto salvo l’art. 10, il direttore generale trasmette inoltre all’istituzione, organo o organismo interessati le informazioni di cui al comma 1, del presente paragrafo, comprese l’identità della persona interessata, una sintesi dei fatti accertati, la loro qualificazione giuridica preliminare e la valutazione dell’incidenza sugli interessi finanziari dell’Unione.

Si applica l’art. 9, paragrafo 4.

3. Le autorità competenti dello Stato membro interessato, fatto salvo il loro diritto nazionale, informano l’Ufficio in tempo utile, di propria iniziativa o su richiesta dell’Ufficio, delle misure adottate sulla base delle informazioni loro trasmesse ai sensi del presente articolo.

4. L’Ufficio può fornire elementi di prova nei procedimenti giudiziari dinanzi agli organi giurisdizionali nazionali, conformemente al diritto nazionale e allo statuto.”

Come emerge chiaramente dal su riportato dettato normativo, in caso di trasmissione di informazioni nel corso delle indagini, l’art. 12 distingue tra le indagini interne e quelle esterne, imponendo solo per le prime (par. 2, che richiama esplicitamente, al secondo capoverso, l’art. 9, par. 4), il rispetto della procedura di contraddittorio anticipato, mentre per le seconde la norma si limita a prescrivere “fatto salvo il presente Reg., artt. 10 e 11, e le Disp. del Reg. (Euratom, CE) n. 2185 del 1996, l’Ufficio può trasmettere alle autorità competenti degli Stati membri interessati informazioni ottenute nel corso di indagini esterne in tempo utile per consentire loro di adottare le misure adeguate conformemente al loro diritto nazionale”.

Il richiamo all’art. 10 (“Riservatezza e tutela dei dati”) e art. 11, (“Relazione sulle indagini e provvedimenti conseguenti alle indagini”), inoltre, non può avere il significato di estendere, di per sè, l’applicazione anche del citato art. 9, par. 4: l’identica locuzione con riguardo agli artt. 10 e 11, è infatti contenuta nel par. 2, (sulle indagini esterne), che, invece, richiama espressamente anche la suddetta ulteriore previsione.

L’art. 10, anzi, ribadisce la riservatezza dei dati acquisiti dall’OLAF, che, con riguardo alle indagini esterne, sono “protette dalle disposizioni pertinenti”.

In conclusione, pertanto, la tutela è, dunque, massima per l’atto di chiusura delle indagini che, ove nelle conclusioni si faccia riferimento nominativo a una persona interessata, deve essere preceduto da un contraddittorio endoprocedimentale.

Analoga tutela è assicurata per le informazioni trasmesse nel corso delle indagini interne semprechè, anche in questo caso, vi sia riferimento nominativo ad una persona interessata.

Per le indagini esterne, invece, nulla di tutto ciò viene stabilito poichè la norma, oltre a richiamare gli obblighi di riservatezza, si limita a prescrivere che la trasmissione delle informazioni mira a consentire, “in tempo utile”, l’adozione delle “misure adeguate al diritto nazionale”.

Ne deriva che è solo in tale ulteriore fase, se e in quanto dia luogo ad un provvedimento verso uno specifico interlocutore, che si impone, nella concreta evenienza, l’osservanza delle garanzie sul contraddittorio.

3.5. Neppure si può ritenere che la disciplina, così articolata, sia lesiva dei principi di cui alla Carta fondamentale, art. 41, che al par. 2, lett. a), prevede “2…. a) il diritto di ogni persona di essere ascoltata prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che le rechi pregiudizio”.

Da un lato, infatti, il diritto ad essere sentito è previsto prima della Relazione finale e della formulazione delle relative conclusioni (così realizzando una tutela anticipata rispetto a quanto imposto dall’art. 41 cit., non essendo, di per sè, tale atto immediatamente pregiudizievole); dall’altro, con riguardo alle informazioni interlocutorie, la necessità del contraddittorio endoprocedimentale è mirata alle sole indagini interne che facciano riferimento ad un soggetto nominativamente individuato, mentre, nelle altre ipotesi, resta connessa alla, eventuale, adozione di misure successive in sede nazionale.

Come rilevato, d’altra parte, la concreta incidenza degli atti dell’OLAF ai fini dell’avvio di qualsiasi attività successiva è rimessa alle valutazioni delle autorità nazionali, che, in tali termini, operano in autonomia e nel rispetto delle disposizioni che regolano il procedimento secondo il diritto nazionale, ivi compreso, in particolare, il rispetto delle garanzie del contraddittorio e dei diritti fondamentali dell’Unione.

3.6. Va poi escluso che la mancata allegazione delle informazioni interlocutorie inviate dall’OLAF ovvero il diniego all’accesso comporti una invalidità dell’avviso di accertamento.

Occorre sottolineare, per quanto necessario, che dalla sentenza risulta che i verbali di revisione sono stati notificati, rispettivamente, il 4 e il 18 aprile 2014, mentre gli avvisi di rettifica sono stati notificati il 14 e il 28 maggio dello stesso anno, dunque con l’osservanza del termine di cui al D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, comma 4 bis, ratione temporis applicabile.

Non è poi controverso, come risulta dalla sentenza impugnata e nulla essendo stato dedotto in contrario sul punto dalla ricorrente, che l’atto impositivo riproduceva il contenuto, quantomeno per gli elementi essenziali, delle citate informative.

Ne deriva la legittimità formale e sostanziale degli avvisi stessi poichè la produzione delle informazioni interlocutorie, dei verbali ispettivi, dei documenti ad essi allegati, in quanto atti riservati (ma legittimamente utilizzabili dall’Amministrazione nei procedimenti per inosservanza della regolamentazione doganale) non rientra tra i requisiti di validità della motivazione e del procedimento relativo (v. Cass. n. 10118 del 21/04/2017).

Del resto, come pure correttamente rilevato dalla CTR, posta la distinzione tra la questione dell’esistenza della motivazione dell’atto impositivo, requisito formale di validità, e quella concernente, invece, l’indicazione ed effettiva esistenza di elementi dimostrativi dei fatti costitutivi della pretesa tributaria, che non è prescritta quale elemento costitutivo della validità dell’atto impositivo ma è disciplinata dalle regole processuali dell’istruzione probatoria da applicarsi nello svolgimento dell’eventuale giudizio, la produzione in giudizio delle informative e dello stesso rapporto finale OLAF deve ritenersi ricompresa tra gli oneri di deduzione probatoria, nella specie in concreto assolti, e non tra i requisiti di validità della motivazione dell’atto impositivo (v. Cass. n. 8399 del 05/04/2013).

3.7. L’avvenuta autonoma valutazione dei presupposti di fatto a fondamento della procedure avviate dall’Amministrazione doganale e il sostanziale rispetto dei principi del contraddittorio nell’ambito della procedura nazionale portano, dunque, a disattendere la richiesta di rinvio pregiudiziale in ordine alla validità del Report finale OLAF (atto, questo, neppure fondante la pretesa azionata) e degli atti presupposti e connessi.

4. Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 220 CDC, par. 2, lett. b.

Deduce, in particolare, che il rilascio di certificato d’origine, risultato poi falso, da parte delle Autorità Filippine costituiva errore attivo per aver detto Paese omesso i necessari preventivi controlli, errore che non poteva essere ragionevolmente scoperto da Inox Mare Srl che versava in una condizione di buona fede.

Formula, in via subordinata, istanza di rinvio pregiudiziale TFUE, ex art. 267, sull’interpretazione dell’art. 220 CDC, par. 2, lett. b. 4.1. Il motivo è infondato ed ai limiti dell’inammissibile.

4.2. Secondo l’art. 220 CDC, comma 2, lett. b, le autorità competenti non procedono alla contabilizzazione a posteriori dei dazi all’importazione solo qualora ricorrano tre condizioni cumulative, ossia che: i dazi non siano stati riscossi a causa di un errore delle autorità competenti stesse; l’errore commesso da queste ultime sia stato di natura tale da non poter essere ragionevolmente rilevato da un debitore in buona fede; quest’ultimo abbia rispettato tutte le prescrizioni della normativa in vigore relative alla sua dichiarazione in dogana.

4.3. La Corte di Giustizia, invero, è costante nell’affermare la necessaria ricorrenza di tutte e tre le condizioni, affermazione che integra un orientamento da lungo tempo assolutamente consolidato (v. Corte di Giustizia, sentenza 12 luglio 1989, in C-161/88, Binder, punti 15 e 16; sentenza 14 maggio 1996, C-153/94 e C-204/94, Faroe Seafood e a., punto 83; sentenza 18 ottobre 2007, in C173/06, Agrover Srl, punto 30; sentenza 17 dicembre 2014, in C3/13, Baltic Agro AS, punto 35; sentenza 26 ottobre 2017, in C407/16, “Aqua Pro” SIA), e stabilmente seguito dalla Corte di cassazione (v. da ultimo Cass. n. 6131 del 01/03/2019; Cass. n. 7775 del 20/03/2019).

4.4. In talune decisioni, invero, la Corte del Lussemburgo ha con chiarezza e puntualità ulteriormente specificato i presupposti e le situazioni fattuali rilevanti ai fini dell’applicazione dell’istituto.

4.5. Nella sentenza 10 dicembre 2015, in C-427/14, Valsts ienèmumu dienests, infatti, la Corte, ai punti 44 e 45, fornisce utili indicazioni in merito all’errore attivo precisando “il legittimo affidamento del debitore merita la tutela conferita da tale Disp. (art. 220, paragrafo 2, lett. b), solo se sono state le autorità competenti “medesime” a porre in essere i presupposti sui quali riposava detto affidamento. Così, solo gli errori imputabili a un comportamento attivo delle autorità competenti danno diritto a che i dazi doganali non vengano recuperati a posteriori… tale situazione non sembra, tuttavia, essere in discussione nel procedimento principale, dato che, in particolare,… il procedimento di revisione è stato reiterato a seguito di un’informazione relativa al certificato d’origine, nel caso di specie risultante da una relazione dell’OLAF che non era nota alle autorità doganali alla data dell’adozione della decisione relativa al primo controllo a posteriori”.

In altri termini, di per sè non costituisce errore attivo la circostanza che, anteriormente agli elementi pervenuti con la relazione dell’OLAF (comprovanti la falsità della dichiarazione d’origine), l’autorità doganale nulla avesse obbiettato sulla merce.

4.6. Particolarmente significative sono poi le precisazioni affermate dalla Corte nella sentenza 16 maggio 2017, in C-47/16, Valsts ienemumu dienests.

La Corte, in primo luogo, nell’esaminare la questione “se un importatore possa avvalersi del legittimo affidamento, ai sensi dell’art. 220 codice doganale, paragrafo 2, lett. b), eccependo la propria buona fede, non soltanto quando l’esportatore abbia fornito informazioni inesatte alle autorità doganali dello Stato di esportazione,… ma anche quando dette autorità abbiano esse stesse commesso un errore rilasciando il certificato di origine “modulo A” di cui trattasi”, dopo aver ribadito che “solo gli errori imputabili a un comportamento attivo delle autorità competenti fanno sorgere il diritto a che i dazi doganali non vengano recuperati a posteriori” ha precisato che “dalla giurisprudenza della Corte risulta che l’art. 220 codice doganale, comma 3, paragrafo 2, lett. b), non può essere interpretato nel senso che il rilascio, da parte delle autorità doganali dello Stato di esportazione, di un certificato di origine “modulo A” inesatto costituisce un errore commesso dalle autorità “medesime”, qualora tali certificati siano stati redatti sulla base di una presentazione inesatta dei fatti da parte dell’esportatore, a meno che, in particolare, non sia evidente che dette autorità sapevano o avrebbero dovuto sapere che le merci non soddisfacevano le condizioni richieste per beneficiare del trattamento preferenziale”.

Proseguendo nel ragionamento, poi, la Corte ha affermato che “qualora risulti che l’irregolarità di un certificato di origine “modulo A” derivi da un comportamento illecito dell’esportatore e che le autorità competenti dello Stato di esportazione non avrebbero potuto, nè dovuto, rilevare che le merci non soddisfacevano le condizioni richieste per beneficiare del trattamento preferenziale, è l’importatore che sopporta le conseguenze della produzione, in occasione di un successivo controllo, di un documento commerciale che si rivela falso, cosicchè tale importatore non può, in un’ipotesi del genere, opporsi al recupero a posteriori dei dazi doganali”.

In sintesi, pertanto, l’importatore, in una simile situazione non può invocare la propria buona fede “a meno che non sia evidente che le autorità doganali dello Stato di esportazione sapevano o avrebbero dovuto sapere che le merci di cui trattasi non soddisfacevano le condizioni richieste per beneficiare del trattamento preferenziale”.

4.7. La medesima decisione, poi, con riguardo al parametro della diligenza richiesta all’importatore (ossia, “la diligenza di cui un importatore è tenuto a dar prova per poter essere considerato in buona fede”) ha cura di fornire ulteriori indicazioni.

Rileva, in primo luogo, il carattere dell’errore, ossia deve trattarsi di “un errore di natura tale da non poter ragionevolmente essere riconosciuto dal debitore in buona fede, nonostante la sua esperienza professionale e la diligenza di cui era tenuto a dar prova”.

Ciò significa che “è compito degli operatori economici adottare, nell’ambito dei loro rapporti contrattuali, i provvedimenti necessari per premunirsi contro i rischi di un’azione di recupero a posteriori e che tale prevenzione può consistere, in particolare, nel fatto che il debitore ottenga dall’altro contraente, al momento della conclusione del contratto o successivamente, tutti gli elementi di prova attestanti che le merci provengono dallo Stato beneficiario del sistema di preferenze tariffarie generalizzate, inclusi documenti attestanti tale origine”.

Non è imposto, invero, in termini indistinti “un obbligo generale a carico di un importatore di verificare sistematicamente le circostanze del rilascio, da parte delle autorità doganali dello Stato di esportazione, di un certificato di origine “modulo A”, compreso il ruolo dell’esportatore nella produzione delle merci”.

Un tale obbligo, peraltro, sorge e “grava sull’importatore qualora abbia ragioni evidenti per dubitare dell’esattezza di un certificato di origine”, con la conseguenza che, in tal caso, non può considerarsi in buona fede se esso si sia “astenuto dall’informarsi, nella massima misura possibile, delle circostanze del rilascio di tale certificato per verificare se detti dubbi fossero giustificati” per cui “si dovrà considerare che l’errore manifesto commesso dalle autorità doganali dello Stato di esportazione avrebbe potuto – o avrebbe dovuto – essere scoperto dall’importatore “.

4.8. La sentenza 8 novembre 2012, in C-438/11, Lagura Vermogensverwaltung GmbH, inoltre, da un lato, ribadisce la piena applicabilità degli esposti principi all’ipotesi, come quella in giudizio, in cui il regime preferenziale sia “introdotto non da un accordo internazionale fra l’Unione e uno Stato terzo basato su obblighi reciproci, ma da un provvedimento autonomo dell’Unione”, non potendo le autorità dello Stato di esportazione “vincolare quest’ultima (l’Unione Europea) e i suoi Stati membri alla loro valutazione in merito alla validità dei certificati d’origine “modulo A”” poichè la soluzione contraria “priverebbe le autorità doganali dello Stato di importazione… della possibilità di domandare la prova che il certificato d’origine si basa su una situazione fattuale riferita in maniera inesatta o esatta dall’esportatore” sì da vanificare “l’esattezza dell’origine delle merci indicata nel certificato d’origine”.

Dall’altro, con riguardo all’onere della prova, ribadisce che questa è a carico del debitore (esclusa, dunque, ogni presunzione a suo favore), con le incisive considerazioni che è sicuramente vero che detto onere “può essere per lui fonte di inconvenienti” ma che ciò è giustificato poichè “è bene ricordare che, nel calcolare i vantaggi realizzabili mediante il commercio di prodotti che possono fruire di preferenze tariffarie, l’operatore economico accorto e al corrente della normativa vigente deve valutare i rischi inerenti al mercato che gli interessa ed accettarli come facenti parte della categoria dei normali inconvenienti dell’attività commerciale”.

4.9. Ne deriva, in termini univoci, che:

a) debbono ricorrere tutte e tre le condizioni di cui all’art. 220 CDC, comma 2, lett. b;

b) la semplice falsità della dichiarazione d’origine legittima l’azione di recupero dei dazi;

c) non costituisce, di per sè, errore attivo il rilascio di una certificazione falsa e ciò, in ispecie, se sia stata determinata da una falsa rappresentazione in fatto dell’esportatore;

d) per ritenere, in questo caso, l’errore imputabile all’autorità emittente occorre provare che essa sapeva o doveva sapere che le merci non soddisfacevano le condizioni richieste per beneficiare del trattamento preferenziale;

e) occorre provare, inoltre, che un simile errore non poteva ragionevolmente essere conosciuto dal debitore in buona fede;

f) l’onere della prova di tutti gli indicati elementi incombe sull’operatore;

g) gli operatori economici, in relazione alla loro esperienza professionale e al grado di diligenza che necessariamente l’accompagna, devono munirsi di tutti gli elementi attestanti la corretta applicazione del regime preferenziale, ivi compresa l’origine delle merci;

h) gli obblighi di diligenza, e i relativi oneri, non si spingono, normalmente, fino a richiedere la verifica sistematica di tutte le circostanze del rilascio del certificato e del ruolo dell’esportatore;

i) ove, peraltro, sussistano circostanze che inducano a dubitare dell’esattezza di un certificato d’origine, è richiesta la massima diligenza possibile, che, parimenti, va provata dall’operatore.

4.10. In relazione ai reiterati e chiari interventi della Corte di Giustizia sulla questione, pertanto, va disattesa la richiesta di rinvio pregiudiziale avuto riguardo alla portata e contenuto dell’art. 220 CDC.

4.11. L’impugnata sentenza si è attenuta ai principi sopra esposti ed ha valutato, con motivazione articolata e puntuale, tutti gli elementi rilevanti, esclusa dunque la violazione dedotta.

In particolare, ha escluso la configurabilità dell’errore attivo da parte dell’Autorità Filippina poichè da parte di essa, prima dell’inizio degli accertamenti dell’OLAF (giustificati per l’incremento massiccio delle importazioni), non era neppure possibile “supporre la falsità dei certificati”, nè, quindi, era ipotizzabile che la falsa dichiarazione degli esportatori (le cui caratteristiche formali erano state adeguatamente raffinate con opportune variazioni) fosse di immediata percettibilità; per contro, “l’importatore nazionale doveva e poteva esserne ragionevolmente a conoscenza” attesa la sua condizione di “operatore professionale particolarmente esperto del settore” e ciò, a maggior ragione, ove si consideri “il comportamento delle autorità doganali non consentiva un legittimo affidamento sulla validità dei certificati in mancanza di prassi imparziali e di procedimenti di controllo ufficiali muniti di affidabilità”, restando destituita di fondamento, peraltro, l’asserita collusione con gli esportatori.

Esclusa, inoltre, è la stessa configurabilità della buona fede in relazione al fatto – posto in rilievo con riguardo all’archiviazione del corrispondente procedimento penale ma autonomamente valutato e corredato dalle ulteriori considerazioni sulla duratura presenza della Inox Mare, operatore professionale esperto, in quel mercato e sui rapporti della stessa con la Tong e sul carattere fittizio delle società filippine Cano e Tapu – della esistenza di gravi sospetti sulla correttezza delle dichiarazioni e sul comportamento fraudolento delle esportatrici, che imponeva una approfondita e puntuale verifica per ritenere effettivi i propri interlocutori, invece del tutto omessa.

4.12. La ricorrente, peraltro, a fronte di tale ampia motivazione e analisi, si limita, in realtà, a censurare l’adeguatezza e la sufficienza della motivazione e, anzi, a contestare, in termini di non condivisibilità, le valutazioni operate dal giudice di merito sulle acquisizioni probatorie in giudizio, in vista, dunque, di una nuova valutazione delle risultanze di fatto, non consentita in sede di legittimità.

4.13. Da ultimo, è irrilevante la richiesta di rimessione con riguardo alla validità della decisione REM 2/2014, sollevata in memoria, in quanto non oggetto di considerazione nel giudizio.

5. Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione del art. 220 CDC, par. 1, del Reg. di Esecuzione n. 205/2013/UE, del Reg. di Esecuzione n. 2/2012/UE, del Reg. n. 1890/2005/CE e del Reg. n. 1225/2009/CE.

La contribuente lamenta, in particolare, l’applicazione retroattiva del Reg. 205/2013/UE con cui è stato esteso il dazio antidumping sull’importazione di elementi di fissaggio in acciaio inossidabile originari di Taiwan anche ai prodotti spediti dalle Filippine.

5.1. Il motivo è infondato.

Il Reg. 205/2013/UE, adottato in esito ai risultati dell’inchiesta avviata dalla Commissione, si è limitato ad estendere il dazio antidumping a tutti gli elementi di fissaggio in questione spediti dalle Filippine a prescindere dalla prova dell’origine filippina o meno.

Il nuovo regolamento, tuttavia, non assume alcun rilievo nella vicenda in giudizio poichè, come emerge dalla sentenza, gli elementi di fissaggio in acciaio oggetto delle importazioni erano di origine di Taiwan e, dunque, soggetti, come tali, alla disciplina antidumping di cui al Reg. n. 1890/2005/CE.

6. Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 239 CDC, per aver la CTR disconosciuto le condizioni per il rimborso o lo sgravio dei dazi all’importazione.

La contribuente, in particolare, deduce la ricorrenza di una situazione particolare nella prolungata e imponente emissione di certificati Form A da parte dell’autorità filippina in assenza di controlli sostanziali e nel ritardo con cui la Commissione Europea sarebbe intervenuta, nonchè la sussistenza, da parte della Inox Mare Srl, dei requisiti dell’assenza di frode e nella non manifesta negligenza.

6.1. Il motivo va disatteso.

6.2. L’art. 239 CDC, costituisce una clausola generale di equità, applicabile in costanza di situazioni particolari ed in assenza di simulazioni e di negligenza manifesta da parte dell’interessato.

6.3. Occorre invero sottolineare, in primo luogo, quanto alla ricorrenza della situazione particolare, che, seppur sia sicuramente corrispondente alla realtà l’avvenuto massiccio incremento delle esportazioni in pochi anni, la percezione del fenomeno da parte della Commissione Europea – come risulta dal Reg. di esecuzione n. 2 del 2012 – ha avuto origine da una istanza di altri soggetti appartenenti al medesimo settore presentata il 19 agosto 2010, che ha determinato la necessità di una istruttoria per il periodo dal 1 ottobre 2009 al settembre 2010, in relazione al cui esito è stata quindi avviata una formale inchiesta esterna da parte dell’OLAF.

Orbene, a fronte di tali risultanze, la contribuente si limita, in termini del tutto apodittici e generici, a sostenere che l’azione della Commissione Europea sia manifestamente negligente, mentre occorre ricordare – il principio di collaborazione amministrativa che presiede alla verifica della affidabilità delle certificazione rilasciate non può essere disatteso sulla sola base di un incremento delle esportazioni, nè si può ritenere, aprioristicamente, che l’Autorità doganale del Paese terzo fosse negligente o, addirittura, coinvolta in operazioni fraudolente (v. Corte di Giustizia, sentenza 25 luglio 2018, in C-574/17, Commissione Europea c/Combaro SA), circostanze del resto escluse dalla CTR.

Solo con l’avvio dell’inchiesta da parte dell’OLAF la situazione è quindi emersa nella sua complessità, da cui l’adozione, nei successivi mesi, di misure più incisive.

6.4. Va poi rilevato che la CTR, con accertamento in fatto, ha escluso che la contribuente versasse in buona fede, e, anzi, ne ha evidenziato la negligenza per aver usato i certificati falsificati senza attivare alcuno dei necessari controlli che, in concreto, erano doverosi e dovuti, attesa anche la sua qualità di esperto operatore professionale.

E’ appena il caso di sottolineare, inoltre, che proprio l’ampia attività istruttoria e di analisi svolta sin dal 2010 dalla Commissione Europea (che poneva in qualificata osservazione quello specifico Paese), rafforzava la necessità, per gli operatori dello specifico settore che decidevano di intervenire sul mercato delle Filippine, di elevare lo standard di diligenza.

6.5. Ne deriva l’infondatezza della doglianza.

7. Passando al ricorso incidentale, l’Agenzia delle dogane denuncia violazione e falsa applicazione del Reg. n. 1890/2005/CE per aver la CTR applicato l’aliquota ridotta del 16,1%, riconosciuta per le esportazione da parte della società Tong, anzichè quella intera del 23,6%.

7.1. Il motivo è fondato.

Nella vicenda in giudizio, infatti, non ha rilievo che la merce di origine taiwanese fosse stata fabbricata dall’impresa Tong (come ritenuto dalla CTR) ovvero da altro soggetto.

Il Reg. n. 1890/2005/CE riconosce alla Tong Hwei Enterprise un trattamento individuale ma ciò in quanto le merci siano dichiarate come provenienti da Taiwan e vendute dal soggetto in regime di (parziale) esenzione (dal dazio antidumping), oltre a dover essere espressamente indicato il codice addizionale TARIC previsto nel citato regolamento (A655).

Tale assetto è coerente con i principi generali operanti nella materia doganale, che trovano le loro radici nella Convenzione di Kyoto e nel Protocollo aggiuntivo del 1999 (v. Allegato K), secondo i quali per poter fruire del regime di origine preferenziale (cui, mutatis mutandis, va ricondotta anche l’ipotesi di parziale esenzione del regime antidumping) il trasporto deve essere diretto tra Paese esportatore (nella specie, da Taiwan e dallo specifico produttore cui era riconosciuto il trattamento individuale) e Paese di destinazione, senza passaggio in altri paesi se non sotto controllo doganale e salvo espresse giustificate deroghe.

7.2. Ne deriva l’applicazione del dazio antidumping nell’aliquota intera.

8. In accoglimento del ricorso incidentale, rigettato quello principale, la sentenza va cassata limitatamente all’applicazione dell’aliquota ridotta antidumping e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa va decisa nel merito, con il rigetto dell’originario ricorso della contribuente quanto all’aliquota daziaria applicabile.

Le spese dei gradi di merito vanno compensate attesa la peculiarità delle questioni, che presentano profili di novità, mentre quelle di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale ed accoglie il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata nei limiti del ricorso accolto e, decidendo la causa nel merito, rigetta l’originario ricorso della contribuente limitatamente all’applicazione dell’aliquota antidumping ridotta.

Condanna Inox Mare Srl al pagamento delle spese a favore dell’Agenzia delle dogane, che liquida in complessivi Euro 13.000,00, oltre spese prenotate a debito. Compensa le spese dei gradi di merito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 28 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2019

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