Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28336 del 22/12/2011

Cassazione civile sez. un., 22/12/2011, (ud. 15/11/2011, dep. 22/12/2011), n.28336

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Primo Presidente f.f. –

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente di sez. –

Dott. PICCIALLI Luigi – Consigliere –

Dott. MASSERA Maurizio – Consigliere –

Dott. FORTE Fabrizio – Consigliere –

Dott. SPAGNA MUSSO Bruno – rel. Consigliere –

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Consigliere –

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –

Dott. TIRELLI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

G.M., rappresentata e difesa da se medesima unitamente

all’avvocato ACCIAI COSTANZA, presso il cui studio in ROMA, PIAZZA

DEL FANTE 2, è elettivamente domiciliata, per delega in calce al

ricorso;

– ricorrente –

contro

CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI TORINO, PROCURATORE GENERALE

DELLA REPUBBLICA PRESSO LA SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE, CONSIGLIO

NAZIONALE FORENSE;

– intimati –

avverso la decisione n. 196/2010 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE,

depositata il 02/11/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/11/2011 dal Consigliere Dott. BRUNO SPAGNA MUSSO;

udito l’Avvocato Costanza ACCIAI;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. CENICCOLA

Raffaele, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

A seguito di due esposti dell’avv. Paola Raffaelli al Consiglio dell’Ordine di Aosta venivano contestati all’avv. G.M. due distinti capi di incolpazione.

L’uno, in relazione al primo esposto in data 7.4.98, contestava all’avv. G., nella sua veste di arbitro nominato dai coniugi Ga. – Gy., di aver inviato una motivata comunicazione di dissenso dalla decisione arbitrale emessa su domanda dell’impresa Demoz.

L’altro, in relazione al secondo esposto in data 27.1.99, contestava all’avv. G. di avere accettato un ulteriore incarico di arbitro dalle stesse parti Ga. – Gy. in una diversa controversia con l’impresa Demoz pur essendo collega di studio e prossima alle nozze con l’avv. Navarra difensore dei mandanti, e di averlo proseguito dopo il matrimonio avvenuto nel corso della procedura arbitrale.

Dopo il rigetto da parte del Consiglio dell’Ordine di Torino di una istanza di ricusazione del Consiglio proposta dall’incolpata, il Consiglio di Aosta archiviava il procedimento relativo all’esposto del 7.4.98, e confermava la contestazione dell’addebito relativo all’esposto 27.1.99.

Seguivano una ulteriore istanza di ricusazione da parte dell’avv. G. e l’astensione dei componenti del Consiglio dell’Ordine di Aosta in data 22.9.2005, cosicchè il procedimento di proseguiva avanti al Consiglio dell’Ordine di Torino il quale confermava il capo di incolpazione già elevato dal Consiglio dell’Ordine di Aosta in ordine all’addebito così formulato: “per avere, nell’ambito di una richiesta di arbitrato notificata in data 9.6.98 dall’avv. Orlando Navarra, in relazione ad una controversia tra l’impresa Demoz Marino e i coniugi Ga. e Gy.: accettato l’incarico di arbitro di parte Ga. e Gy. nonostante fosse collega di studio e prossima alle nozze con l’avv. Orlando Navarra, difensore della stessa parte; proseguito detto incarico di arbitro di parte nonostante l’avvenuto matrimonio col difensore delle parti che l’avevano nominata”. In data 23.2.2007 l’avv. G. presentava un’ampia memoria difensiva con documenti nella quale premetteva che le vicende relative ai procedimenti disciplinari promossi nei suoi confronti, e le istanze di ricusazione che aveva presentato nei confronti del Consiglio dell’Ordine di Aosta, dovevano porsi in relazione ad una situazione conflittuale insorta tra l’Ordine e l’incolpata e il marito quali promotori della Costituzione di una locale sezione dell’Associazione Italiana Giovani Avvocati, iniziativa gradita al consiglio forense.

Eccepiva la prescrizione dell’azione disciplinare, sollevava questione di legittimità costituzionale del D. n. 1578 del 1933, art. 5 e sosteneva l’infondatezza degli addebiti contestatile e, comunque, il difetto dell’elemento psicologico nelle condotte contestate.

Espletata prova testimoniale, il Consiglio dell’Ordine di Aosta affermava la responsabilità dell’incolpata e le infliggeva la sanzione della censura.

Proponeva ricorso l’avv. G. e il Consiglio Nazionale Forense, con la decisione in esame, depositata nel novembre 2010, confermava quanto statuito in primo grado, negando l’esistenza delle eccepire violazioni procedimentali e difensive, affermando che il corso prescrizionale era stato interrotto, rilevando la non contestazione dei fatti oggetto di addebito e la loro riconducibilità alle previsioni disciplinari anche nel testo del 1997, negando pregio alla prospettata assenza di dolo, affermando la inconsistenza del sospetto di incostituzionalità del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 51 ritenendo congrua la sanzione.

Ricorre per cassazione l’avv. Gh. con sette motivi; non hanno svolto attività difensiva gli intimati.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso si deduce “violazione e falsa applicazione del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 51 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere l’Ordine di Aosta, prima, e quello di Torino, poi, omesso qualsivoglia istruttoria preliminare all’avvio del procedimento disciplinare, oltre che l’audizione dell’interessata, violazione del diritto di difesa, vizio, altresì, assoluto di motivazione, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per mancato esame di tale eccezione da parte del c.n.f., conseguente nullità dell’intera procedura, viziata dalla grave lesione dei diritti difensivi dell’odierna ricorrente”.

Con il secondo motivo si deduce “violazione e falsa applicazione del R.D. n. 37 del 1934, art. 49, comma 3 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per omessa convocazione dei testi a difesa dell’avv. G., lesione del diritto di difesa, vizio di motivazione, altresì, per carenza assoluta di motivazione del provvedimento dell’Ordine di Torino sulle ragioni dell’esclusione di tali testi, in violazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in rapporto all’art. 111 Cost., inammissibilità di una sanatoria ex post, da parte del c.n.f., di vizio motivazionale ormai perfezionatosi”.

Con il terzo motivo si deduce “violazione di legge e falsa applicazione del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 51 con riferimento all’art. 2943 c.c., art. 160 c.p. e art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, quanto all’intervenuta prescrizione dell’azione disciplinare stessa e non essendo intervenuti atti validi ad interrompere il corso della prescrizione (tali non essendo le istanze di ricusazione), in ogni caso, al contempo si ribadisce l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 51 richiamato, in relazione agli artt. 3, 24 e 111 Cost., per violazione del principio di uguaglianza, di ragionevolezza, oltre che del diritto ad un giusto processo e ad una ragionevole durata dello stesso”.

Con il quarto motivo si deduce “violazione di legge e falsa applicazione del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 50 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e conseguente nullità della decisione della decisione del c.n.f., per mancato rispetto dei termini per il deposito della decisione stessa e per la sua notificazione”.

Con il quinto motivo si deduce “violazione di legge e falsa applicazione dell’art. 55 codice deontologico forense, come vigente nel 1999, epoca della commissione del preteso illecito, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, vizio di motivazione quanto all’esistenza di un arbitrato di carattere irrituale, ed alle norme ad esso applicabili, in cui gli arbitri giudicano quali amichevoli compositori e che non è assistito di tutte le garanzie previste dall’arbitrato rituale, che si configura invece quale vera e propria giurisdizione privata, vizio di motivazione, per assoluta mancanza di valutazione e di motivazione quanto alla deposizione resa dai testi dinanzi al Consiglio dell’Ordine di Torino, carenza motivazionale assoluta con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”.

Con il sesto motivo si deduce “violazione e falsa applicazione di legge quanto agli artt. 3 Codice deontologico forense in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, vizio, altresì di motivazione, per carenza della stessa e comunque per sua perplessità, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, quanto alla esistenza di una volontarietà della condotta”.

Con il settimo motivo si deduce “violazione e falsa applicazione di legge quanto all’art. 2 Codice deontologico forense, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti, esistenza, altresì, di un vizio di motivazione, per assenza assoluta della stessa, quanto alla gravità dei fatti, e per omessa valutazione degli elementi soggettivi e oggettivi della fattispecie, di cui all’art. 2 Codice deontologico forense e 111 Cost. con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, eccessività della sanzione inflitta, senza tener minimamente conto dell’assenza di precedenti nell’incolpata, oltre che di esposti successivi, e della giovane età della stessa all’epoca dei fatti, mancata concessione delle attenuanti, che avrebbero al più giustificato la sanzione dell’avvertimento”.

Il ricorso non merita accoglimento in relazione a tutte le sopraesposte doglianze.

Infondato è il primo motivo; la preliminare convocazione dell’incolpata non è atto “necessario” nell’ambito del procedimento disciplinare e in proposito non può che ribadirsi quanto già statuito da queste Sezioni Unite (n. 5072/2005), secondo cui in tema di procedimento disciplinare a carico di avvocati, nella fase, non necessaria, delle indagini conoscitive che l’ordine professionale può svolgere prima dell’emissione del provvedimento che fissa il giudizio disciplinare, l’interessato non ha diritto di essere sentito, e quindi non è necessario effettuare ad esso, ai fini difensivi, alcuna comunicazione.

Riguardo poi al secondo motivo, fermo restando che il Consiglio Nazionale Forense ha ampiamente e logicamente motivato l’impugnata decisione, è da rilevare che la censura in esame manca di autosufficienza, in quanto, come già statuito da questa Corte, sempre a Sezioni Unite (n. 1988/1998) il ricorrente che, in sede di legittimità, denuncia la mancata ammissione di una prova testimoniale da parte del giudice di merito ha l’onere di indicare specificamente le circostanze che formavano oggetto della prova al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività dei fatti da provare e, quindi, delle prove stesse che, per il principio di autosufficienza del ricorso, la Corte di Cassazione deve essere in grado di compiere solo sulla base delle deduzioni contenute nell’atto, alle cui lacune non è consentito sopperire con indagini integrative. Tale principio trova applicazione anche nel caso di mancata ammissione di una prova testimoniale da parte del consiglio dell’ordine degli avvocati nel corso di un procedimento disciplinare, poichè il R.D. n. 37 del 1934, art. 49 sebbene non imponga, a differenza dell’art. 244 c.p.c., l’indicazione specifica dei fatti da provare formulati in articoli separati, prescrive pur sempre che debbono essere sommariamente esposte le circostanze sulle quali l’incolpato ed il P.M. intendono che i testimoni siano esaminati. Quanto al terzo motivo è da ulteriormente confermare le decisioni di queste Sezioni Unite (in particolare n. 26182/2006) che hanno affermato che la pretesa punitiva esercitata dal Consiglio dell’Ordine forense in relazione agli illeciti disciplinari commessi dai propri iscritti ha natura di diritto soggettivo potestativo che, sebbene di natura pubblicistica, resta soggetto a prescrizione, dovendo escludersi che il termine di cui al R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 51 possa intendersi come un termine di decadenza, insuscettibile di interruzione o di sospensione. La previsione, da parte del citato art. 51 di un termine quinquennale di prescrizione, mentre delimita nel tempo l’inizio dell’azione disciplinare, vale anche ad assicurare il rispetto dell’esigenza che il tempo dell’irrogabilità della sanzione non venga protratto in modo indefinito, perchè al procedimento amministrativo di irrogazione della sanzione è da ritenere applicabile non già la regola dell’effetto interruttivo permanente della prescrizione sancito dall’art. 2945 c.c., comma 2, bensì quello dell’interruzione ad effetto istantaneo di cui al precedente art. 2943 c.c., con la conseguente idoneità interruttiva anche dei successivi atti compiuti dal titolare dell’azione disciplinare in pendenza del relativo procedimento. E’, peraltro, manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del menzionato art. 51 sollevata con riferimento agli artt. 3, 24, 104, 105, 106, 108 e 111 Cost..

Inoltre si osserva che compiutamente sul punto il C.n.f. ha motivato, sulla base di valutazioni in fatto non più esaminabili nella presente sede di legittimità, affermando che: “il termine di prescrizione decorre tuttavia dal giorno in cui si è verificato il fatto, e nel caso di specie il fatto risale, a tutto concedere, alla conclusione dell’arbitrato, che data dell’8.3.99, dovendosi intendere tale data quale ultimo momento di vita effettiva del Collegio arbitrale. Tale è anche la data contestata dall’Ordine alla prevenuta nel suo capo di incolpazione.

Tutti gli atti interruttivi (in primis, l’apertura del procedimento disciplinare) hanno effetti istantanei e non sospensivi permanenti, sicchè…….inizia un nuovo periodo di prescrizione. Sennonchè nel caso in parola tale orientamento trova un ostacolo insormontabile nel fatto che, seppure vi siano state più riaperture del medesimo procedimento, si trattava pur sempre di delibere concernenti gli stessi fatti, ricalcanti la prima dell’ottobre 1999”.

Anche il quarto motivo non merita accoglimento in quanto fa materia di procedimento disciplinare a carico di avvocati, il termine di quindici giorni di cui del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 50, comma 1, riguarda la notificazione dei provvedimenti dei Consigli dell’Ordine dopo il deposito nella segreteria del collegio deliberante, mentre non si riferisce ai tempi che devono intercorrere tra la deliberazione dei provvedimenti medesimi ed il loro deposito nella detta segreteria. Ne consegue che il mancato rispetto di tempi ragionevoli nel deposito dei provvedimenti con cui viene applicata una sanzione disciplinare, mancando, del resto, qualsiasi altra norma che ne contempli l’efficacia invalidante, è insuscettibile di comportare vizio alcuno nei provvedimenti depositati con ritardo, potendo questo dare luogo, al più, a responsabilità disciplinare o civile dei soggetti che vi abbiano colpevolmente dato causa (sul punto, Sez. U. n. 1904/2002). Inammissibili infine sono il quinto, sesto e settimo motivo: con essi si tende infatti a un non consentito riesame di risultanze probatorie e documentali oltre che della valutazione della sussistenza in concreto dei presupposti per l’irrogazione della sanzione disciplinare (tra cui l’elemento soggettivo della colpa).

Priva di pregio in particolare è la censura di cui al quarto motivo riguardante la distinzione tra arbitrato rituale e irrituale: è di tutta evidenza che la ratio decidendi dell’impugnata decisione si fonda sulla violazione, soprattutto, del generale principio di lealtà al quale l’avvocato deve ispirarsi per svolgere in modo deontologicamente corretto la propria attività professionale. In proposito non può che condividersi quanto già sostenuto dal C.n.f.

nell’impugnata decisione, ove afferma che “il principio espresso dalle disposizioni citate impone l’indipendenza e l’imparzialità dell’arbitro, senza distinzione tra arbitro rituale e irrituale, e di ruolo tra presidente e arbitro di parte, cosicchè l’arbitro non soltanto deve essere indipendente e imparziale, ma deve anche apparire tale perchè possa svolgere la sua funzione con il necessario distacco delle parti, e anche dai loro difensori, in un ruolo di terzietà nel giudicare la controversia. I doveri di dignità e decoro (art. 5 C.d.f. e art. 12 legge professionale) impongono inoltre a chi è chiamato a svolgere tali funzioni di evitare comportamenti virtualmente idonei a pregiudicare l’immagine di un ruolo, che anche per il rilievo pubblicistico che l’ordinamento attribuisce, deve garantire alla società e ai cittadini, oltrechè alle parti, le massime affidabilità e imparzialità nell’applicazione della legge e nella attuazione della giustizia”.

Il mancato svolgimento di attività difensiva da parte dell’intimato Consiglio comporta il non doversi provvedere in ordine alle spese della presente fase.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 15 novembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 22 dicembre 2011

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