Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2832 del 05/02/2021

Cassazione civile sez. III, 05/02/2021, (ud. 24/09/2020, dep. 05/02/2021), n.2832

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRAZIOSI Chiara – Presidente –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 35421-2018 proposto da:

T.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MONTASOLA,

41, presso lo studio dell’avvocato VIVIANA VARANI, rappresentato e

difeso dall’avvocato PAOLA LEMMA;

– ricorrente –

SOCIETA’ ASSICURATIVA AVIVA ITALIA SPA, elettivamente domiciliato

presso la cancelleria di questa Corte di Cassazione, rappresentata e

difesa dall’Avv. GIOVANNI ZINDATO;

– controricorrente –

e contro

M.G., T.A., T.M.,

TR.MA. e F.P.;

avverso la sentenza n. 523/2018 della CORTE D’APPELLO di REGGIO

CALABRIA, depositata il 31/07/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

24/09/2020 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. T.F., sia in proprio che nella qualità di erede “pro quota” del padre V.S., ricorre, sulla base di nove motivi, per la cassazione della sentenza n. 523/18, del 31 luglio 2018, della Corte di Appello di Reggio Calabria, che – respingendo il gravame dallo stesso esperito avverso la sentenza n. 10906/06, del 17 settembre 2006, del Tribunale di Reggio Calabria – ha confermato sia la sua concorrente responsabilità, stimata nella misura del 30%, nella causazione del sinistro stradale tra le vettura di proprietà di T.V.S. e F.P. (rispettivamente condotte, in quel frangente, l’una da T.F. e l’altra da C.P.), sia la quantificazione del danno conseguente alle lesioni personali subite dell’odierno ricorrente, danno già posto a carico del F. e del suo assicuratore per la “RCA”, società Commercia Union Italia S.p.a., oggi società Aviva Italia S.p.a.

2. Riferisce, in punto di fatto, l’odierno ricorrente di aver adito – unitamente al padre T.V.S. – il Tribunale di Reggio Calabria, per chiedere la condanna del F. e della Commercial Union Italia a risarcire i danni cagionati sia alla vettura di proprietà del padre, sia alla propria persona, ritenendo non congruo l’importo già liquidato dalla predetta compagnia assicurativa.

Gli attori assumevano, infatti, che l’esclusiva responsabilità del sinistro stradale, occorso in (OMISSIS) all’incrocio tra le (OMISSIS), fosse da ascrivere alla C. (conducente dell’auto di proprietà del F.), per aver omesso di dare precedenza, come imposto da segnaletica presente “in loco”.

Istruita la causa mediante l’escussone dei testi indicati da parte attrice e lo svolgimento di CTU medico-legale (senza, però, che dopo i chiarimenti resi dall’ausiliario fosse disposta la rinnovazione della consulenza, come da richiesta degli attori), il primo giudice, nella contumacia del F., riconosceva, come detto, la concorrente responsabilità di T.F. – in misura del 30% – nella causazione del sinistro, individuando il danno alla persona dallo stesso patito come “un modesto focolaio contusivo parenchimale”, al quale era seguita una semplice sindrome soggettiva generale del soggetto traumatizzato cranico e non un danno contusivo, liquidando, pertanto, l’importo dovuto a titolo risarcitorio alla stregua di una lesione “micropermanente”.

Esperito gravame da T.F. – e, con esso, dagli altri eredi di T.V.S. (nel frattempo deceduto), ovvero M.G., nonchè A., Ma. e T.M. – lo stesso veniva integralmente rigettato.

3. Avverso la pronuncia della Corte reggina ricorre per cassazione il solo T.F., sulla base – come detto di nove motivi.

3.1. Con il primo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – si denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. e degli artt. 2043, 2054, 2697, 2698, 2699 e 2700 c.c. “in tema di responsabilità nel sinistro”.

Il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui afferma, in relazione alla dinamica del sinistro, che i testi B. e A., pur confermando la violazione dell’obbligo di dare precedenza da parte della C., non hanno “riferito alcun elemento utile a dedurre che il T., alla guida della Fiat 500, si sia pienamente uniformato alle norme di circolazione e alle norme di comune prudenza”. Dalle deposizioni testimoniali emergerebbe, anzi, secondo la Corte territoriale, come l’odierno ricorrente non lo avesse fatto, e ciò in considerazione tanto “del ribaltamento dell’auto e del tentativo di sterzata”, non essendovi tra i due veicoli scontratisi “una differenza di massa” che fosse “tale da giustificare il ribaltamento della 500, se questa avesse proceduto ad una velocità adeguata al tratto di strada (incrocio)”, quanto della circostanza che il T. non indossasse la cintura di sicurezza, avendo il B. riferito di non sapere se il medesimo l’avesse allacciata, precisando, però, di averlo “trovato senza cintura”, quando ebbe a soccorrerlo.

Orbene, secondo il ricorrente, poichè gli unici fatti storici provati dalle deposizioni sono che il T., nel tentativo di evitare l’urto, sterzava a sinistra, non sussistendo, invece, alcuna prova circa il mancato uso della cintura di sicurezza, la Corte territoriale avrebbe “violato la natura della stessa testimonianza il cui contenuto, per natura, come tassativamente imposto dall’art. 116 c.p.c., non può essere oggetto di libera valutazione da parte del giudice” (è richiamata Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2016, n. 11892).

Inoltre, nell’ascrivere il ribaltamento dell’auto condotta dal T. “alla velocità non accertata della stessa e non al mancato rispetto del segnale di dare precedenza”, la sentenza impugnata avrebbe anche violato gli artt. 2699 e 2700 c.c., avendo disatteso il contenuto delle dichiarazioni rese alla polizia municipale, nell’immediatezza del fatto, dallo stesso T. e dalla C., in spregio al principio secondo cui i verbali di accertamento delle infrazioni stradali fanno piena prova, fino a querela di falso, delle dichiarazioni rese dalle parti all’agente accertatore.

3.2. Con il secondo motivo – proposto sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – si denuncia nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4), attesa la “contraddittorietà e illogicità manifesta sui generali principi di economicità del processo e sulla ragionevole durata”.

Si censura, sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà (il solo, ormai, idoneo ad integrare il vizio motivazionale), la decisione della Corte reggina di non ammettere la rinnovazione della CTU medico-legale, essendo stata motivata “in ragione dei principi di economia processuale e ragionevole durata del processo”, contraddittorietà derivante dal fatto che il giudice di appello – sottolinea il ricorrente – ha impiegato dieci anni per definire il secondo grado di giudizio, ed addirittura otto dallo scioglimento della riserva sulle richieste istruttorie fino alla precisazione delle conclusioni.

3.3. Con il terzo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – è denunciata, “in tema di lesioni”, violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. e degli artt. 2697 e 2043 c.c.

Si censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha recepito, quanto alle lesioni subite dal T., le conclusioni della CTU, in particolare affermando che esse “rappresentano postumi di carattere permanente e consistono in uno stato neuropsicoastenico persistente, valutabile come sindrome soggettiva generale di chi subisce un trauma cranico”, escludendo che la “MAV (malformazione artero-venosa, n.d.r.) temporale sinistra” sia “in rapporto materiale di causalità con il sinistro”, e ciò all’esito di un approfondimento delle indagini diagnostiche (suggerito dal fatto che il T. lamentasse uno “stato vertiginoso secondario”), dalle quali è emerso che l’odierno ricorrente “è affetto da “angiodisplasia””, per concludere che il trauma, in quanto di “lieve entità”, ha “rappresentato non il fattore causante, ma solo l’occasione per il concretizzarsi di un evento già maturo per la sua realizzazione, che, pertanto, si sarebbe verificato in assenza del trauma stesso”.

Sul presupposto che è possibile denunciare la violazione dell’art. 116 c.p.c. – alla stregua della giurisprudenza di questa Corte (è citata, nuovamente, Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2016, n. 11892) – allorchè “la “valutazione imprudente” della prova sia grave, risolvendosi in un’interpretazione logicamente insostenibile, ed abbia determinato un’errata ricostruzione del fatto e quindi un’erronea applicazione della norma di diritto”, il ricorrente assume che la sentenza impugnata avrebbe attribuito alla documentazione medica prodotta in giudizio un significato esattamente contrario al suo contenuto, con il risultato, errato, di ritenere il trauma da esso subito “come micropermanente piuttosto che macropermanente”. In particolare, essa avrebbe ignorato una serie di dati – “la soffusione ematica in rachide temporale lato sinistro compatibile con focolaio contusivo”, “epilessia parziale sintomatica” e “ansia marcata ricorrente” accertati da strutture pubbliche, “disattendendo certificati medici e di inabilità dalla data del sinistro ad oltre un anno”, nonchè “la perizia medica del Dott. Z.R.” (ovvero, il consulente tecnico di parte) “con relativi allegati”, documenti “accettati dalla Corte ma travisati nei contenuti”.

3.4. Con il quarto motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – si denuncia nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), per “contraddittorietà ed illogicità della motivazione in relazione a sinistro e trauma”.

Si censura la sentenza impugnata nel passaggio in cui afferma che il trauma riscontrato, in quanto di “lieve entità”, ha “rappresentato non il fattore causante, ma solo l’occasione per il concretizzarsi di un evento già maturo per la sua realizzazione, che, pertanto, si sarebbe verificato in assenza del trauma stesso”. Si tratterebbe di motivazione, nuovamente, affetta da manifesta illogicità e irriducibile contraddittorietà, giacchè la Corte territoriale, per un verso, ritiene il trauma in rapporto di causalità con il sinistro, salvo qualificarlo poi come “occasione” (e non come fattore causante) delle lesioni.

3.5. Il quinto motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 40 e 41 c.p., degli artt. 115 e 116 c.p.c. e art. 2043 c.c. “in tema di rapporto di causalità e di valutazione della prova”.

La doglianza investe, in questo caso, la sentenza della Corte reggina per avere – sempre con l’affermazione già oggetto del quarto motivo di ricorso – “violato di fatto il criterio della preponderanza dell’evidenza” (applicato dalla giurisprudenza di legittimità in tema di accertamento del nesso causale), avendo ritenuto più probabile “una causa che non trova riscontro nella letteratura scientifica, come riportato dal documento peritale medico del Dott. Z.”, sicchè la “violazione di legge sulle prove” si sarebbe riverberata “anche sulla questione del nesso di causa”, in quanto “ciò che era meno probabile (e cioè che il trauma si fosse verificato indipendentemente dal sinistro) è divenuto per la Corte di Appello di Reggio Calabria “maggiormente probabile””.

3.6. Con il sesto motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – è denunciata nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), per “motivazione apparente/assente”, ovvero per “mancata disamina dei motivi di appello”.

Si censura la sentenza impugnata nella parte in cui afferma che il rigetto del gravame rendeva “superflua la disamina delle altre deduzioni e/o osservazioni (da ritenersi tutte assorbite) svolte dalle parti costituite nel presente giudizio”.

In questo modo, tuttavia, la Corte territoriale avrebbe ignorato sei motivi di appello, “relativi ad origine di crisi epilettiche post-traumatiche, alla patologia di ansia depressiva grave”, nonchè al “rapporto di causalità tra sinistro ed eventi traumatici”, tutti “avvolti da motivazione apparente, senza essere così neppure esaminati ed oggetto di esame critico”.

3.7. Con il settimo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), “per violazione dell’art. 115 c.p.c.” – è denunciato “omesso esame di fatti storici principali/secondari risultante dagli atti, oggetto di discussione tra le parti aventi carattere decisivo”, relativi alla “necessità di rinnovazione CTU”.

Assume il ricorrente che la sentenza “non ha considerato e non ha affrontato, anzi ha travisato, il fatto storico per come rappresentato in atti e documenti versati per la valutazione dei giudizi di merito”, in particolare trascurando di esaminare, quali fatti che “si ricollegano al trauma cranico commotivo-contusione temporale sinistra, la soffusione emorragica postraumatica, l’epilessia postraumatica, la sindrome depressiva ricorrente grave con crisi lipotimiche frequenti con ansia marcata”, non dando corso alla richiesta di rinnovazione della CTU.

3.8. L’ottavo motivo denuncia – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), per “motivazione apparente sul diniego di rinnovazione della CTU”.

Si censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso tale necessità sul rilievo che la tesi del consulente è stata suffragata anche da uno specialista neurochirurgo, che ha parimenti escluso la dipendenza causale tra “MAV” e altre lesioni traumatiche conseguenti al sinistro.

Si tratterebbe, secondo il ricorrente, di motivazione apparente, in quanto non consentirebbe di conoscere l’eventuale iter logico dell’esame dei motivi di appello, difettando, inoltre, ogni motivazione e documentazione per individuare le ragioni dell’adesione alle conclusioni dello specialista, peraltro pronunciatosi solo sul mancato nesso di causalità tra sinistro e MAV (che il ricorrente assume non essere mai stato contestato dagli appellanti), “senza esprimersi sui motivi controversi”.

3.9. Infine, con il nono motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), “per violazione dell’art. 115 c.p.c.” – si assume la “necessità di rinnovazione CTU”.

Si censura l’affermazione della sentenza impugnata che, per motivare il diniego della rinnovazione della CTU, ha richiamato il principio della insindacabilità dei poteri del giudice di merito in ordine alla concessione, o meno, dei mezzi istruttori, così violando l’art. 115 c.p.c., omettendo di accertare specifiche situazioni di fatto con l’ausilio delle speciali cognizioni tecniche anche sulla base della perizia del Dott. Z..

4. Solo la società Aviva Italia ha resistito, con controricorso, all’avversaria impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità (giacchè esso tenderebbe ad una non consentita, rinnovata, valutazione delle risultanze istruttorie), ovvero, in subordine, il rigetto.

In relazione, in particolare, al primo motivo di ricorso, la controricorrente evidenzia come il riferimento alla sentenza di questa Corte n. 11892 del 2016 non sia pertinente, dal momento che essa ravvisa violazione dell’art. 116 c.p.c. quando il giudice disattenda il valore di una prova legale, valutandola secondo il suo prudente apprezzamento, fattispecie, per definizione, non ravvisabile nel caso in esame, essendo quella testimoniale una tipica prova libera. D’altra parte, il motivo risulta anche non fondato, perchè la Corte territoriale ha motivato le ragioni per le quali ha ravvisato il concorso dello stesso T. nella causazione del sinistro, facendo, oltretutto, applicazione del principio secondo cui, in caso di scontro tra veicoli, l’accertamento della violazione dell’obbligo di dare precedenza da parte di uno di essi non dispensa il giudice dal verificare, attraverso un attento esame delle prove raccolte (del quale deve dare conto nella motivazione della sentenza), il comportamento dell’altro conducente onde stabilire se quest’ultimo abbia a sua volta violato o meno le norme sulla circolazione stradale o i normali precetti di prudenza (è citata, in particolare, Cass. Sez. 3, ord. 15 febbraio 2018, n. 3696).

L’infondatezza del secondo motivo è, invece, motivata sul duplice rilievo che l’ordinanza istruttoria, la quale ha escluso la rinnovazione della CTU, non reca alcun riferimento al principio della durata ragionevole del processo e che, in ogni caso, la sentenza impugnata ha motivato, sul punto, soprattutto in ragione della condivisibilità delle conclusioni proposte dall’ausiliario.

Quanto ai motivi terzo, quarto e quinto, la controricorrente sottolinea come non vi sia stato alcun travisamento delle risultanze istruttorie (dovendo, in particolare, escludersi che la sentenza impugnata abbia negato la ricorrenza di un trauma cranico), nè alcuna violazione del principio del principio del “più probabile che non”.

Non ricorrerebbe, inoltre, alcuna motivazione apparente, come lamentato con il sesto motivo, essendo tale evenienza ormai ipotizzabile solo quando la sentenza non renda percepibile il fondamento della decisione, ipotesi da escludere nel caso che occupa.

Infine, quanto ai motivi settimo, ottavo e nono, si richiama nel senso della loro infondatezza – il principio secondo cui il rinnovo della CTU rientra tra i poteri discrezionali del giudice, senza che sia necessaria neppure un’espressa pronuncia sul punto, visto che il giudice, mentre è obbligato ad indicare le ragioni per le quali reputi di disattendere le conclusioni dell’ausiliario, qualora aderisca alla stessa può limitarsi a motivare affermando di averla riscontrata convincente, oltre che immune da difetti e lacune.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

5. Il ricorso va rigettato.

5.1. Il primo motivo – che prospetta, in relazione alla mancata considerazione delle risultanze delle prove testimoniali e delle dichiarazioni rese dai conducenti dei veicoli coinvolti nel sinistro, queste trasfuse nel verbale redatto dagli agenti accertatori nell’immediatezza dello stesso, violazione, rispettivamente, dell’art. 116 c.p.c. e degli art. 2699 e 2700 c.c. (nonchè, di riflesso, degli 2043, 2054, 2697 e 2698 c.c.) non è fondato.

5.1.1. Quanto, infatti, al supposto valore di “prova legale” della testimonianza, deve qui ribadirsi come la stessa rientri, invece, per eccellenza nel paradigma della prova “libera”, sicchè la valutazione “delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione”, involge “apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata” (da ultimo, Cass. Sez. 1, sent. 2 agosto 2016, n. 16056, Rv. 641328-01; in senso conforme, Cass. Sez. 1, ord. 31 luglio 2017, n. 19011, Rv. 645841-01; Cass. Sez. 6-5, ord. 7 dicembre 2017, n. 29404, Rv. 646976-01).

D’altra parte, in relazione alla – supposta – violazione di legge che sarebbe consistita nel disattendere le risultanze delle dichiarazioni rese dagli interessati in occasione del sinistro, nonchè trasfuse nel verbale di accertamento dell’infrazione stradale, deve osservarsi che, in realtà, le dichiarazioni “de quibus” non affrontano affatto il tema della adeguatezza della velocità dei veicolo condotto dal T., ovvero la circostanza che ha indotto la Corte territoriale a ravvisare la sua concorrente responsabilità (nella misura del 30%) nella causazione del sinistro.

5.2. Il secondo motivo – che investe la motivazione con cui la Corte territoriale ha rigettato la richiesta di supplemento di CTU – non è fondato, sebbene esso richieda una precisazione, anche a fini nomofilattici, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c.

5.2.1. E’, infatti, errata e – astrattamente – suscettibile di integrare il denunciato vizio di legittimità, l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata (nella quale però, come si vedrà, non si esaurisce la motivazione della Corte territoriale, donde la non fondatezza del presente motivo di ricorso), secondo cui i “principi di economia processuale e ragionevole durata del processo” avrebbero ostato, nella specie, alla possibilità di dare corso al richiesto supplemento di indagine tecnica.

Sul punto, deve ribadirsi che – come evidenziato già dalla stessa formulazione letterale dell’art. 111 Cost. – la giurisdizione, o meglio ogni giurisdizione, è destinata ad attuarsi “mediante il giusto processo”, del quale la legge (ma anche, per vero, la concreta conduzione del giudizio da parte del singolo giudice, investito di un “frammento” di quella giurisdizione) deve assicurare “la ragionevole durata”.

Se, dunque, nel concetto di “giusto processo” – enucleabile dalla Costituzione, già prima che la Legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, modificasse il testo del suo art. 111 – è certamente insito il carattere della tempestività della definizione del giudizio, resta inteso che tale esigenza risulta dotata di rilievo costituzionale se, appunto, “ragionevole”, vale a dire concepita non quale valore assoluto, ma anche in rapporto alle altre tutele costituzionali in materia, primo fra tutti il diritto delle parti di agire e difendersi in giudizio garantito dall’art. 24 Cost. (si veda sul punto, quanto alla giurisprudenza costituzionale successiva alla citata Legge Cost. n. 2 del 1999, Corte Cost. ordd. 30 giugno 2003, n. 251; 20 novembre 2002, n. 519; 11 aprile 2002, n. 137, e 25 gennaio 2001, n. 32).

Un’impostazione, questa, presente con grande nettezza già nella giurisprudenza della Corte delle leggi anteriore alla revisione costituzionale dell’art. 111 Carta fondamentale, se è vero che essa ha ravvisato nel “giusto processo”, pur in assenza di una sua formale enunciazione del testo costituzionale, una “esigenza suprema che non si risolve in affari di singoli, ma assurge a compito fondamentale di una giurisdizione che non intenda abdicare alla primaria funzione di “dicere ius” di cui i diritti di agire e di resistere nel processo (quale che ne sia l’oggetto) rappresentano soltanto i veicoli necessari in non diversa guisa delle norme disciplinatrici della titolarità e dell’esercizio della potestà dei giudici” (Corte Cost., sent. 2 maggio 1984, n. 137). Nella stessa prospettiva, del resto, la Corte costituzionale ha pure osservato, tra l’altro con specifico riferimento alla giurisdizione civile, che il “giusto processo civile viene celebrato non già per sfociare in pronunce procedurali che non coinvolgono i rapporti sostanziali delle parti che vi partecipano – siano esse attori o convenuti – ma per rendere pronuncia di merito rescrivendo chi ha ragione e chi ha torto: il processo civile deve avere per oggetto la verifica della sussistenza dell’azione in senso sostanziale di chiovendiana memoria, nè deve, nei limiti del possibile, esaurirsi nella discettazione sui presupposti processuali, e per evitare che ciò si verifichi si deve adoperare il giudice” (Corte Cost., sent. 14 ottobre 1986, n. 220).

Considerazioni analoghe ha espresso – e non potrebbe essere altrimenti – anche la giurisprudenza di questa Corte, nella sua massima funzione nomofilattica.

Difatti, nel riconoscere che “il principio della ragionevole durata del processo è divenuto punto costante di riferimento nell’ermeneutica delle norme, in particolare di quelle processuali, e nella individuazione del rispettivo ambito applicativo, conducendo a privilegiare, pur nel doveroso rispetto del dato letterale, opzioni contrarie ad ogni inutile appesantimento del giudizio”, si è, tuttavia, ribadito che il principio del “giusto processo”, nella sua dimensione sia costituzionale che sovranazionale (è richiamato l’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, ma merita considerazione, a giudizio di questo collegio, anche l’art. 14 cd. “Patto di New York” sui diritti civili e politici del 1966, ratificato e reso esecutivo in Italia con L. 25 ottobre 1977, n. 831), “non si esplicita nella sola durata ragionevole dello stesso” (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. 12 marzo 2014, n. 5700, non massimata sul punto). Invero, “occorre prestare” – secondo le indicazioni delle Sezioni Unite – “la massima attenzione ad evitare di sanzionare comportamenti processuali ritenuti non improntati al valore costituzionale della ragionevole durata del processo, a scapito degli altri valori in cui pure si sostanzia il processo equo, quali il diritto di difesa, il diritto al contraddittorio, e, in definitiva, il diritto ad un giudizio” (Cass. Sez. Un., sent. n. 5700 del 2014, cit.).

5.2.2. Tanto premesso, ove il rigetto della richiesta di supplemento della CTU fosse stato motivato dalla Corte territoriale soltanto sul rilievo della sua contrarietà ai “principi di economia processuale e ragionevole durata del processo” esso, per le ragioni illustrate, meriterebbe censura.

Tuttavia, come anticipato, la Corte territoriale non sì è limitata a tale (errata) affermazione, avendo motivato la propria decisione “soprattutto”, come espressamente afferma la sentenza impugnata, “in ragione del fatto che le risultanze della CTU svolta in primo grado” sono state “ritenute pienamente condivisibili”.

Ne consegue, pertanto, il rigetto del secondo motivo di ricorso, risultando tale ulteriore “ratio decidendi” – anche alla luce dell’avvenuta “riduzione al minimo costituzionale” del sindacato sulla motivazione della sentenza (riduzione sulla quale si tornerà in seguito, nello scrutinare altri motivi del presente atto di impugnazione) – idonea a sorreggere la decisione adottata.

5.3. Il terzo motivo – che censura la sentenza impugnata per aver recepito, quanto alla valutazione delle lesioni (come micropermanenti) patite dall’odierno ricorrente, le conclusioni del CTU, ignorando una serie di documenti in atti – è inammissibile in ogni sua censura.

5.3.1. Quanto, in primo luogo, a quella relativa al recepimento della CTU, la sua formulazione non risulta conforme al requisito di ammissibilità richiesto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6).

Al riguardo, deve ribadirsi, infatti, che, nel vigore del “novellato” testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), “la contestazione del vizio motivazionale elevata nei confronti della motivazione della sentenza che recepisca le conclusioni della CTU non può limitarsi al rilievo di una insufficienza dell’indicazione delle ragioni del detto recepimento”, dovendo il ricorrente indicare – a norma dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) – “il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività””, adempimenti che questa Corte ha escluso essere stati correttamente compiuti qualora, come avvenuto pure nel caso in esame, nella “articolazione delle censure” non venga specificatamente indicato in quale parte la CTU “non si sia fatta carico di esaminare e confutare i rilievi di parte, limitandosi la ricorrente a giustapporre le proprie valutazioni (…) alle conclusioni dei consulenti”, senza che siano “precisati i passaggi della consulenza nella quale siano mancati l’esame e la confutazione dei rilievi di parte” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 26 luglio 2017, n. 18391, non massimata; in senso analogo anche Cass. Sez. 1, sent. 3 giugno 2016, n. 11482, Rv. 639844-01; Cass. Sez. 1, ord. 3 agosto 2017, n. 19427, Rv. 645178-02).

Il medesimo esito, ovvero la declaratoria di inammissibilità, si impone anche in relazione alla censura che ipotizza la violazione dell’art. 116 c.p.c. con riferimento ad un supposto travisamento della documentazione medica, giacchè l’esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali, da parte del giudice di merito, “non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), nè in quello dei precedente n. 4), disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4), – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante” (Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2016, n. 11892, Rv. 640194-01; in senso conforme, tra le altre, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940; Cass. Sez. 3, sent. 12 aprile 2017, n. 9356, Rv. 644001-01; Cass. Sez. 3, ord. 30 ottobre 2018, n. 27458). Fermo restando, poi, che tale documentazione sanitaria (se si eccettua la perizia di parte), mentre attesta le condizioni patologiche in cui versava, di volta in volta, il T., nulla riferisce in ordine all’eziologia delle stesse, o meglio alla loro riconducibilità al sinistro per cui è causa, non senza, infine, osservare che rispetto, in particolare, ai documenti che consistono in cartelle cliniche trova applicazione il principio secondo cui esse “hanno natura di certificazione amministrativa, cui è applicabile lo speciale regime di cui agli artt. 2699 c.c. e segg. per quanto attiene alle sole trascrizioni delle attività espletate nel corso di una terapia o di un intervento, restando, invece, non coperte da fede privilegiata le valutazioni, le diagnosi o, comunque, le manifestazioni di scienza o di opinione in essa espresse” (da ultimo, Cass. Sez. Lav., ord. 20 novembre 2017, n. 27471, Rv. 646436-01; nello stesso senso già, tra le altre, Cass. Sez. 3, sent. 30 novembre 2011, n. 25568, Rv. 620437-01).

Infine, quanto alla violazione dell’art. 2697 c.c. va data, qui, continuità al principio secondo cui la stessa, “censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti” (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 29 maggio 2018, n. 13395, Rv. 649038-01); evenienza, la seconda delle due indicate, che è quella lamentata nel caso che occupa.

5.4. Anche il quarto motivo – che ipotizza un vizio motivazionale, in relazione alla qualificazione del trauma cranico subito dal ricorrente come “occasione” e non “causa” dei postumi di invalidità permanente lamentati dal T. – è inammissibile.

5.4.1. Sul punto, infatti, va rammentato che, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) – nel testo “novellato” dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, 134 (applicabile “ratione temporis” al presente giudizio) – il sindacato di questa Corte è destinato ad investire la parte motiva della sentenza solo entro il “minimo costituzionale” (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8053, Rv. 629830-01, nonchè, “ex multis”, Cass. Sez. 3, ord. 20 novembre 2015, n. 23828, Rv. 637781-01; Cass. Sez. 3, sent. 5 luglio 2017, n. 16502, Rv. 637781-01).

Lo scrutinio di questa Corte è, dunque, ipotizzabile solo in caso di motivazione “meramente apparente”, configurabile, oltre che nell’ipotesi di “carenza grafica” della stessa, quando essa, “benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento” (Cass. Sez. Un., sent. 3 novembre 2016, n. 22232, Rv. 641526-01, nonchè, più di recente, Cass. Sez. 6-5, ord. 23 maggio 2019, n. 13977, Rv. 654145-01), o perchè affetta da “irriducibile contraddittorietà” (cfr. Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940, Rv. 645828-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 25 settembre 2018, n. 22598, Rv. 650880-01), ovvero connotata da “affermazioni inconciliabili” (da ultimo, Cass. Sez. 6-Lav., ord. 25 giugno 2018, n. 16111, Rv. 649628-01), mentre “resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (Cass. Sez. 2, ord. 13 agosto 2018, n. 20721, Rv. 650018-01).

La sentenza impugnata, invero, chiarisce quali siano le ragioni che l’hanno indotta a tale conclusone, riportando analiticamente le conclusioni del CTU alle quali ha ritenuto di aderire, senza che emergano quei profili di “inconciliabilità logica” o “irriducibile contraddittorietà” o di “imperscrutabilità del percorso decisionale” che, soli, potrebbero giustificare la ricorrenza del vizio denunciato.

La sentenza, infatti, ha motivato la conclusione relativa alla preesistenza della cd. “MAV” rispetto al trauma cranico sul rilievo che nella lettura medica “non è stato descritto neppure un solo caso di sanguinamento di una MAV con comizialità e crisi parziali di tipo temporale, a distanza di sei mesi da un trauma cranico, peraltro lieve”, soggiungendo che tale affermazione compiuta dal consulente d’ufficio “è stata suffragata da uno specialista nEurochirurgo”, presso il quale l’odierno ricorrente era stato “inviato dallo stesso consulente”.

5.5. Il quinto motivo – che censura la stessa affermazione già oggetto del quinto motivo di ricorso, sebbene in relazione, questa volta, alla violazione del principio del “più probabile che non” risulta, nuovamente, inammissibile.

5.5.1. Invero, la qualificazione di un fatto come “causa” o “occasione” dell’evento dannoso costituisce accertamento tipicamente fattuale demandato al giudice di merito, sicchè, al riguardo, appare necessario rammentare che mentre “l’errore compiuto dal giudice di merito nell’individuare la regola giuridica in base alla quale accertare la sussistenza del nesso causale tra fatto illecito ed evento è censurabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)”, resta, invece, inteso che “l’eventuale errore nell’individuazione delle conseguenze che sono derivate dall’illecito, alla luce della regola giuridica applicata, costituisce una valutazione di fatto, come tale sottratta al sindacato di legittimità, se adeguatamente motivata” (Cass. Sez. 3, sent. 25 febbraio 2014, n. 4439, Rv. 630127-01).

D’altra parte, poi, che quello denunciato non costituisca un “vizio di sussunzione”, sotto forma di falsa applicazione delle norme di diritto in materia di accertamento del nesso causale, è confermato dal contenuto stesso della doglianza, lamentando il ricorrente che la “violazione di legge sulle prove” si sarebbe, nella specie, riverberata “anche sulla questione del nesso di causa”.

Orbene, sul punto, deve ribadirsi che “il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa” – che è quanto, appunto, si lamenta nel caso di specie, dal momento che ci si duole delle conseguenze che la violazione delle norme sulle prove avrebbe determinato sull’accertamento del nesso di causa – “è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità” (da ultimo, “ex multis”, Cass. Sez. 1, ord. 13 ottobre 2017, n. 24155, Rv. 645538-03, nonchè Cass. Sez. 3, ord. 13 marzo 2018, n. 6035, Rv. 648414-01).

5.6. Il sesto motivo non è fondato.

5.6.1. Non risulta, infatti, ipotizzabile alcuna omessa pronuncia – nè motivazione apparente – in relazione ai (sei) motivi di appello relativi alla richiesta di risarcimento di voci ulteriori di danno subiti dalla persona richiesti dal T..

Una volta, infatti, che la Corte territoriale ha ritenuto che il pregiudizio lamentato dall’odierno ricorrente fosse consistito in “un modesto focolaio contusivo parenchimale”, al quale era seguita una “semplice sindrome soggettiva generale del soggetto traumatizzato cranico e non un danno contusivo” (ritenendo che l’angiodisplasia, pure riscontrata a carico del T., avesse trovato in quell’evento traumatico solo “un’occasione per il concretizzarsi di un evento già maturo”), la Corte d’appello non aveva necessità di provvedere su tali ulteriori voci, avendone escluso la dipendenza dal trauma cranico. Difatti, deve escludersi “il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancata decisione su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo” (tra le tante, Cass. Sez. 5, ord. 6 dicembre 2017, n. 29191, Rv. 646290-01).

Del resto, il giudice “non è tenuto ad occuparsi espressamente e singolarmente di ogni allegazione, prospettazione ed argomentazione delle parti, risultando necessario e sufficiente, in base all’art. 132 c.p.c., n. 4), che esponga, in maniera concisa, gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione, e dovendo ritenersi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l’iter “argomentativo seguito”, di talchè “il vizio di omessa pronuncia”, configurabile allorchè risulti del tutto omesso il provvedimento del giudice indispensabile per la soluzione del caso concreto, “non ricorre nel caso in cui, seppure manchi una specifica argomentazione, la decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte ne comporti il rigetto” (da ultimo, Cass. Sez. 2, ord. 25 giugno 2020, n. 12652, Rv. 658279-01).

5.7. Infine, i motivi settimo, ottavo e nono non sono fondati.

5.7.1. Essi censurano, sotto diversi profili – ovvero, denunciando l’esistenza di una motivazione apparente, nonchè l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio e, infine, la violazione dell’art. 115 c.p.c. – il rigetto della richiesta della rinnovazione della CTU.

Sul punto, nel premettere che il diniego è sufficientemente motivato, per le ragioni già in precedenza illustrate (la Corte ha chiarito le ragioni che l’hanno portata ad escludere la dipendenza del “MAV” dal trauma cranico, e dunque la necessità della rinnovazione della consulenza), va, comunque, ribadito che “rientra nel potere discrezionale del giudice di merito accogliere o rigettare l’istanza di riconvocazione del consulente d’ufficio per chiarimenti o per un supplemento di consulenza” (lo stesso è, evidentemente, a dirsi anche per il conferimento di una nuova consulenza), “senza che l’eventuale provvedimento negativo possa essere censurato in sede di legittimità deducendo la carenza di motivazione espressa al riguardo, quando dal complesso delle ragioni svolte in sentenza, in base ad elementi di convincimento tratti dalle risultanze probatorie già acquisite e valutate con un giudizio immune da vizi logici e giuridici, risulti l’irrilevanza o la superfluità dell’indagine richiesta, non sussistendo la necessità, ai fini della completezza della motivazione, che il giudice dia conto delle contrarie motivazioni dei consulenti di fiducia che, anche se non espressamente confutate, si hanno per disattese perchè incompatibili con le argomentazioni poste a base della motivazione” (da ultimo, Cass. Sez. 2, sent. 20 agosto 2019, n. 21525, Rv. 645507-01).

6. Le spese del presente giudizio vanno integralmente compensate tra le parti, ricorrendo “giusti motivi” ai sensi dell’art. 92 c.p.c., nel testo originario della norma, ovvero anteriore alle diverse modifiche legislative apportate a partire dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2, comma 4, (testo applicabile “ratione temporis” al presente caso, essendo stato il giudizio di primo grado instaurato con citazione del 18 dicembre 2001).

I giusti motivi, in particolare, sono da individuare sia nella complessità del caso, soprattutto in relazione agli accertamenti tecnici che ha richiesto (tanto da aver indotto l’ausiliario del giudice ad inviare il danneggiato ad un neurochirurgo, per l’approfondimento della patologia da cui è risultato affetto), sia per l’erroneità dell’affermazione contenuta nella sentenza della Corte territoriale, di cui si è già sopra detto, che ha giustificato l’assunzione della presente impugnazione, da ritenersi, pertanto, tutt’altro che defatigatoria o strumentale, ma espressione del diritto a vedere vagliata una statuizione, come visto, risultata del tutto errata.

7. Infine, a carico del ricorrente sussiste l’obbligo di versare, se dovuto, un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso, compensando integralmente tra le parti le spese del presente giudizio.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 24 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 5 febbraio 2021

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