Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28310 del 11/12/2020

Cassazione civile sez. II, 11/12/2020, (ud. 11/09/2020, dep. 11/12/2020), n.28310

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21066/2019 proposto da:

D.M., elettivamente domiciliato in Foggia via Da Zara n.

3, presso lo studio dell’avv.to VITTORIO SANNONER, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrenti –

e contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che

lo rappresenta e difende;

– resistenti –

avverso il decreto del TRIBUNALE di BARI, depositata il 16/05/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

11/09/2020 dal Consigliere Dott. LUCA VARRONE.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

1. Il Tribunale di Bari, con decreto pubblicato il 16 maggio 2019, respingeva il ricorso proposto da D.M., cittadino della (OMISSIS), avverso il provvedimento con il quale la competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale aveva, a sua volta, rigettato la domanda proposta dall’interessato di riconoscimento dello status di rifugiato e di protezione internazionale, escludendo altresì la sussistenza dei presupposti per la protezione complementare (umanitaria).

2. Il Tribunale evidenziava che il ricorrente proveniente dalla città di (OMISSIS) distretto autonomo ed ex capitale della Costa d’Avorio aveva riferito nel corso di due audizioni di aver perso la famiglia nel (OMISSIS) a seguito di un incidente stradale, ragione per la quale era rimasto a vivere nella casa del nonno insieme ad un altro parente e ad un cugino che aveva perso la famiglia nello stesso incidente. L’istante aveva riferito che sia lui che il cugino erano spesso tristi per la perdita dei genitori e non riuscivano a riposare per cui il nonno decise di farli dormire nello stesso letto e di dare loro dei soldi per comprarsi ciò che volevano. I due ne avevano approfittato per comprare giornali pornografici che avevano guardato insieme e che li aveva portati ad avere rapporti sessuali. Una volta cresciuti il nonno aveva imposto loro di dormire in stanze separate ma loro si vedevano lo stesso di notte e continuavano ad avere rapporti. Dopo il diploma il ricorrente aveva trovato lavoro presso il negozio di famiglia e il nonno e lo zio pretendevano che si sposasse. Lui aveva acconsentito nel 2012, tuttavia, non riusciva ad avere rapporti con la moglie che lo derideva pubblicamente. Egli così decideva di lasciarla nel 2014. Il nonno tuttavia lo costringeva a sposare un’altra donna nel 2015, anche in questo caso egli non riusciva ad avere rapporti intimi con la seconda moglie e invece pensava al cugino. Nel 2016 era stato scoperto dalla moglie mentre incontrava di nascosto il cugino e lo zio e il nonno lo avevano picchiato con l’aiuto anche di altre persone. Il ricorrente, approfittando del momento in cui gli aggressori stavano picchiando il cugino, era riuscito a fuggire di casa rifugiandosi in un altro quartiere e a prendere un pullman per il Burkina Faso.

Il Tribunale riteneva il racconto reso dal ricorrente nel complesso non credibile nè coerente non circostanziato con riferimento a fatti luoghi e persone anche in ragione delle numerose contraddizioni emerse nel corso delle audizioni. Il racconto appariva inattendibile anche alla luce delle linee guida UNHCR sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere, avendo il ricorrente risposto alle domande che gli venivano rivolte relativamente alla realizzazione della sua identità sessuale in maniera del tutto generica e stereotipata ovvero inverosimile. Egli avrebbe scoperto di essere omosessuale perchè sfogliava giornali pornografici con suo cugino con il quale aveva rapporti fisici divertendosi, mentre una volta sposato stava male non riuscendo ad avere rapporti con la moglie. Il richiedente, pertanto, non aveva rappresentato all’intervistatore il suo percorso di maturazione interiore e la sua consapevolezza dei riflessi nel corso del tempo in ambito familiare e nella sua comunità dei suoi sentimenti, che al contrario si mostravano circoscritti al mero atto sessuale.

Inoltre nonostante il ricorrente riferiva di aver vissuto in un contesto sociale in cui l’omosessualità era soggetta a discriminazione e persecuzione la sua relazione con il cugino era durata 10 anni e non aveva mai determinato alcun concreto episodio di disapprovazione o ritorsione o persecuzione psichica, tanto all’interno della famiglia, quanto della comunità o della società, peraltro quando riferiva al nonno di non essere inteso soddisfare sessualmente la moglie non appariva credibile che questi non gli avesse rivolto alcuna richiesta di spiegazioni e che non avesse nutrito il dubbio che il nipote fosse omosessuale. Il Tribunale evidenziava ulteriori contraddizioni nel racconto anche in relazione alle date indicate dal dichiarante e concludeva nel senso che per la complessiva vaghezza della ricostruzione degli accadimenti delle numerose incongruenze e contraddizioni il racconto non poteva ritenersi attendibile.

L’inattendibilità del racconto effettuato dal richiedente ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, in assenza di ulteriori riscontri probatori, rendeva inaccoglibile l’istanza di protezione non sussistendo elementi sui quali concretamente basare una decisione in senso positivo.

Quanto alla protezione sussidiaria ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), doveva evidenziarsi che mancavano i presupposti connessi alla situazione di conflitto o instabilità interna e in ogni caso la situazione generale del paese non presentava una situazione generalizzata di violenza indiscriminata come risultante dalle fonti internazionali.

Con riferimento alla protezione umanitaria il Tribunale evidenziava che operato un raffronto tra la situazione del paese d’origine e la condizione attuale di vita in Italia doveva escludersi che l’esistenza di un’occupazione lavorativa, sebbene regolare, potesse di per sè sola giustificare la concessione della tutela. Non erano valorizzabili neanche le condizioni di salute del ricorrente relative a una sublussazione che non era di gravità tale da giustificare il riconoscimento in suo favore della protezione umanitaria.

2. Dia kite Mamadou ha proposto ricorso per cassazione avverso il suddetto decreto sulla base di tre motivi di ricorso.

3. Il Ministero dell’interno si è costituito tardivamente al solo fine di partecipare all’eventuale udienza di discussione.

4. Il Procuratore Generale ha rassegnato conclusioni scritte chiedendo l’accoglimento del ricorso.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5.

Il tribunale non avrebbe applicato il principio dell’onere probatorio attenuato e non avrebbe valutato la credibilità del richiedente alla luce dei parametri stabiliti dalla norma sopra indicata. Il ricorrente dopo aver formulato tempestivamente la domanda di protezione internazionale invece avrebbe compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziarla. Peraltro, il tribunale non avrebbe tenuto conto della situazione di vulnerabilità del richiedente e della grave situazione in Costa d’Avorio.

Nel corso del giudizio era stata depositata anche una lettera firmata dal presidente dell’Arcigay della sede di (OMISSIS) e anche foto che lo ritraevano in momenti partecipativi dell’ente rappresentativo. Sarebbero stati del tutto disattesi e non valorizzati gli sforzi probatori compiuti dal richiedente e il Tribunale non avrebbe esercitato gli ampi e doverosi poteri istruttori.

2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8 e art. 14, lett. c).

La censura attiene alla situazione della Costa d’Avorio caratterizzata da una grave conflitto interno da disordini legati a trascorse vicende politiche. Tale situazione di per sè era sufficiente a giustificare il riconoscimento della protezione sussidiaria trattandosi di una violenza generalizzata e non controllata, sussistevano pertanto tanto la condizione oggettiva che quella soggettiva per il riconoscimento della protezione.

3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, comma 6.

La censura attiene al rigetto della domanda di protezione umanitaria senza un esame della sussistenza dei requisiti per il suo rilascio. Il Tribunale non avrebbe valutato la particolare situazione di vulnerabilità riferita dal ricorrente anche per la sua condizione di omosessualità che lo porrebbe anche in pericolo di vita. Sussisterebbe, inoltre, anche una situazione di vulnerabilità oggettiva per la situazione della Costa d’Avorio.

4. I tre motivi di ricorso, che stante la loro evidente connessione possono essere trattati congiuntamente, sono inammissibili, anche ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, come interpretato da questa Corte a Sezioni Unite con la pronuncia n. 7155 del 2017.

In particolare, quanto alla valutazione in ordine alla credibilità del racconto del richiedente, essa costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni siano coerenti e plausibili, del D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito. (Sez. 1, Ordinanza n. 3340 del 05/02/2019, Rv. 652549).

Occorre, in proposito, osservare che il legislatore ha ritenuto di affidare la valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente asilo non alla mera opinione del Giudice, ma ha previsto una procedimentalizzazione legale della decisione, da compiersi non sulla base della mera mancanza di riscontri oggettivi, ma alla stregua dei criteri indicati nel D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 e tenendo conto “della situazione individuale e della circostanze personali del richiedente” (di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, comma 3, lett. c)), con riguardo alla sua condizione sociale e all’età, non potendo darsi rilievo a mere discordanze o contraddizioni su aspetti secondari o isolati quando si ritiene sussistente l’accadimento, sicchè è compito dell’autorità amministrativa e del giudice dell’impugnazione di decisioni negative della Commissione territoriale, svolgere un ruolo attivo nell’istruzione della domanda” (Cass., 14 novembre 2017, n. 26921).

Anche nel caso il racconto del richiedente riguardi la sua sfera sessuale il Giudice non può ritenersi esonerato dal motivare le ragioni per le quali egli deve essere ritenuto credibile sulla scorta dei consueti parametri di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5.

Il D.Lgs. n. 251 del 2007, citato art. 3, comma 5, infatti, dispone che, qualora gli elementi della dichiarazione non sono suffragati da prove sono comunque considerati veritieri se l’autorità giudiziaria ritiene che: “a) il richiedente ha compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) tutti gli elementi pertinenti in suo possesso sono stati prodotti ed è stata fornita una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni del richiedente sono ritenute coerenti e plausibili e non sono in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; d) il richiedente ha presentato la domanda di protezione internazionale il prima possibile, a meno che egli non dimostri di aver avuto un giustificato motivo per ritardarla; e) dai riscontri effettuati il richiedente è, in generale, attendibile”. La norma riproduce il testo art. 4, comma 5 della Direttiva 2004/83/CE, sulla quale la CGUE così si è espressa: “quando taluni aspetti delle dichiarazioni di un richiedente asilo non sono suffragati da prove documentali o di altro tipo, tali aspetti non necessitano di una conferma purchè siano soddisfatte le condizioni cumulative stabilite dall’art. 4, paragrafo 5, lettere da a) a c) della medesima direttiva” (CGUE, grande sezione, 2.12.2014, cause riunite C-148/13 a C-150/13).

Per quanto riguarda in particolare la condizione di omosessualità e il rischio che una persona sia sottoposta ad atti persecutori o a trattamenti inumani e degradanti a causa del suo orientamento sessuale, deve qui ricordarsi quanto precisato dalla CGUE, nelle sentenze del 25.1.2018 nella causa C-473/16, del 2.12.2014, sopra citata, e del 7.11.2013, nelle cause riunite da C-199/12 a C-201/12, ed in particolare che: l’orientamento sessuale è un elemento idoneo a dimostrare l’appartenenza del richiedente ad un particolare gruppo sociale, ai sensi dell’art. 2, lett. d), della direttiva 2011/95, quando il gruppo delle persone i cui membri condividono lo stesso orientamento sessuale è percepito dalla società circostante come diverso; quando gli Stati membri applicano il principio in base al quale incombe al richiedente motivare la propria domanda (in Italia il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, in attuazione della Direttiva 2004/83/CE) le dichiarazioni del richiedente relative al suo orientamento sessuale che non sono suffragate da prove documentali o di altro tipo, non necessitano di conferma se le condizioni di cui a tale disposizione sono soddisfatte, dato che tali condizioni si riferiscono, in particolare, alla coerenza e plausibilità di tali dichiarazioni e non si riferiscono in alcun modo all’esecuzione o all’impiego di una perizia; lo svolgimento di un colloquio individuale condotto dal personale dell’autorità accertante è tale da contribuire alla valutazione delle dichiarazioni, dal momento che sia l’art. 13, paragrafo 3, lettera a), della direttiva 2005/85 sia l’art. 15, paragrafo 3, lettera a), della direttiva 2013/32 stabiliscono che gli Stati membri provvedono affinchè la persona incaricata di condurre il colloquio abbia la competenza per tener conto del contesto personale in cui è presentata la domanda, in particolare dell’orientamento sessuale del richiedente; le autorità competenti hanno il dovere ai sensi dell’art. 13, paragrafo 3, lettera a), della direttiva 2005/85 e dell’art. 4, paragrafo 3, della direttiva 2004/83, di condurre il colloquio tenendo conto della situazione personale o generale in cui si inserisce la domanda, segnatamente della vulnerabilità del richiedente e di procedere ad una valutazione individuale di tale domanda, tenendo conto delle circostanze personali e non devono fondarsi unicamente su nozioni stereotipate associate all’omosessualità, in quanto il fatto che un richiedente asilo non sia in grado di rispondere a domande fondate su tali nozioni non può costituire, di per sè, un motivo sufficiente per concludere che egli non sia credibile, dato che un modo di procedere del genere sarebbe contrario a quanto richiesto dall’art. 4, paragrafo 3, lettera c), della direttiva 2004/83 nonchè dall’art. 13, paragrafo 3, lettera a), della direttiva 2005/85.

Ne consegue che le dichiarazioni del richiedente asilo sul proprio orientamento sessuale devono essere raccolte da un intervistatore competente e valutate dal giudice secondo i criteri procedimentali di cui al D.Lgs. n. 251 n. 2007, art. 3, comparate con COI aggiornate e pertinenti, e possono essere sufficienti da sole a dimostrare l’appartenenza al gruppo sociale a rischio persecutorio. Il giudicante, evitando indebite invasioni nella vita privata (ad es. interrogatori sui dettagli delle pratiche sessuali, produzione di foto e video) e non lasciandosi condizionare da stereotipi (ad es. essere o non essere iscritti ad una associazione LGBT), deve accertare la concreta situazione del richiedente e la sua particolare condizione personale, e valutare quindi se questi possa subire, a causa del suo orientamento sessuale, reale o percepito, atti persecutori e minacce gravi ed individuali alla propria vita o alla persona e dunque sia nell’impossibilità di vivere nel proprio paese d’origine senza rischi effettivi per la propria incolumità psico-fisica (Cass. n. 11176 del 2019).

Nella specie le condizioni richieste dalla giurisprudenza sopra richiamata si sono realizzate e il racconto del richiedente non è stato ritenuto credibile alla stregua dei parametri di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, citato art. 3, comma 5. Il Tribunale, nella motivazione ha fatto anche riferimento ai criteri di cui alle linee guida UNHCR sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere ed ha ampiamente motivato sulle numerose contraddizioni e incongruità del racconto.

La critica formulata nei motivi costituisce, dunque, una mera contrapposizione alla valutazione che il Tribunale ha compiuto nel rispetto dei parametri legali e dandone adeguata motivazione, neppure censurata mediante allegazione di fatti decisivi emersi nel corso del giudizio che sarebbero stati ignorati dal giudice di merito.

Il Tribunale ha anche motivato sia in relazione alla situazione soggettiva del ricorrente sia in ordine alla situazione complessiva della Costa d’Avorio, sicchè è del tutto evidente che non vi è stata alcuna violazione di legge o omessa motivazione nell’accezione di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5. Ne consegue che la censura si risolve in una richiesta di nuova valutazione dei medesimi fatti.

Il ricorrente, inoltre, deduce genericamente la violazione di norme di legge, avuto riguardo alla sua vicenda personale ed alla situazione generale del paese di origine, attraverso il richiamo alle disposizioni disattese e tramite una ricostruzione della fattispecie concreta quanto all’insicurezza della Costa d’Avorio difforme da quella accertata nel giudizio di merito.

Come si è detto il Tribunale ha esaminato, richiamando varie fonti di conoscenza, la situazione generale del paese di origine ed in particolare della regione di provenienza del ricorrente, precisando che, in base alle fonti, deve escludersi una situazione di violenza indiscriminata in conflitto armato.

Il potere-dovere di cooperazione istruttoria, correlato all’attenuazione del principio dispositivo, quanto alla dimostrazione, e non anche all’allegazione, dei fatti rilevanti, è stato dunque correttamente esercitato con riferimento all’indagine sulle condizioni generali del paese, benchè la vicenda personale narrata sia stata ritenuta non credibile (Cass. n. 14283/2019). Invece l’esercizio di poteri ufficiosi circa l’esposizione a rischio del richiedente in virtù della sua condizione soggettiva, in relazione alle fattispecie previste dal citato art. 14, lett. a) e b), si impone solo se le allegazioni di costui al riguardo siano specifiche e credibili, il che non è nella specie, per quanto già detto.

Inoltre, in tema di protezione sussidiaria, l’accertamento della situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), che sia causa per il richiedente di una sua personale e diretta esposizione al rischio di un danno grave, quale individuato dalla medesima disposizione, implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito. Il risultato di tale indagine può essere censurato, con motivo di ricorso per cassazione, nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. ord. 30105 del 2018).

In ordine al riconoscimento della protezione umanitaria, anche in questo caso il diniego è dipeso dall’accertamento dei fatti da parte del giudice di merito, che ha escluso con idonea motivazione, alla stregua di quanto considerato nei paragrafi che precedono l’esistenza di una situazione di sua particolare vulnerabilità. All’accertamento compiuto dai giudici di merito viene inammissibilmente contrapposta una diversa interpretazione delle risultanze di causa. Peraltro il ricorrente nel fare riferimento alla sfera sessuale del richiedente non si confronta con il giudizio di non credibilità espresso dal Tribunale.

5. In conclusione il ricorso è inammissibile, le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

6. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2100 più spese prenotate a debito;

ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 11 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 11 dicembre 2020

 

 

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