Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2831 del 07/02/2014
Civile Sent. Sez. 3 Num. 2831 Anno 2014
Presidente: MASSERA MAURIZIO
Relatore: RUBINO LINA
SENTENZA
sul ricorso 15180-2010 proposto da:
TARIULO
RENATO
GIAMBATTISTA
TRLGBT39P071178A,
CHZRNT58D27C351W,
CHIZZONI
CHIZZONI
LETIZIA
RITA
CHZLZR68R68C351A, quali eredi di CHIZZONI CESARE e di
CAMPIONE
GRAZIA,
CANCELLARA
e
TOMMASO
CNCTMS43B10C351C, quale erede di COCO MARIA,
elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA ADRIANA 11,
presso lo studio dell’avvocato GIURATO UGO,
rappresentati e difesi dagli avvocati GIURATO UBALDO,
NUZZACI FABIO giusta delega in atti;
– ricorrenti –
1
Data pubblicazione: 07/02/2014
contro
AVV. SALVATORE VIAGGIO, nella qualità di CURATORE DEL
FALLIMENTO DEI FRATELLI GIUSEPPE E ANTONINO VENEZIA
93005140871, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA
DEI GRACCHI 187, presso lo studio dell’avvocato
dall’avvocato DI CATALDO VINCENZO giusta delega in
atti;
– controricorrente nonchè contro
ROCCELLA GIUSEPPA nato a CENTRURIPE il 23/04/1936,
CONSOLI ANGELO nato a CATANIA il 01/09/1916, SCALISI
AGATINA nato a ADRANO il 31/01/1962, SCALISI ALFIO
nato a ADRANO il 28/12/1955, SCALISI GIUSEPPA nato a
CATANIA il 13/03/1965, SCALISI GIUSEPPE nato a ADRANO
a CATANIA
il
02/02/1947,
MILONE MARIA LUCREZIA nato
il
10/08/1948,
GAMBINO ALESSANDRO nato a CATANIA il
DANIELA
nato
a
CATANIA
il
ZUPPARDO
FRANCO
nato
a
CATANIA
il
ZUPPARDO
RITA
CATANIA
il
01/06/1966,
GAMBINO
19/12/1968,
06/10/1946,
nato
a
CATANIA
il
PAGLIARISI
ANGELA
nato
a
CATANIA
il
PAPPALARDO
CARMELO
PEDARA
il
CASACCIO
21/03/1955,
18/02/1920,
02/01/1928,
28/04/1915,
a
GIOVANNI
04/09/1950,
05/11/1925,
nato
a
nato
MACCARRONE MARIA STELLA nato a PEDARA il
CASTORINA
SPOTO
nato
ANNA
GIULIA
AGATA
2
nato
CATANIA
a
a
CATANIA
il
il
GIOVANNI MAGNANO SAN LIO, rappresentato e difeso
nato a
18/02/1944, SPOTO AGATA RITA
CATANIA il
22/09/1947, SPOTO MARIO nato a CATANIA il 17/08/1952,
CALI’ MASSIMO
nato a
CATANIA il 29/09/1969, CALI’
CONSALVO nato a CATANIA il 06/10/1970, CALI’ GIOVANNA
nato a CATANIA il 10/05/1982, CIROLLI CRISTINA nato a
nato a
CATANIA il 15/05/1977, SPOTO FRANCESCO nato a CATANIA
il 21/10/1980, CALI’ FRANCESCO
nato a
nato a
05/12/1976, SPOTO CONSUELO
CATANIA il
CATANIA il
21/06/1984, NICOLOSI GAETANA
nato a
ADRANO il
17/08/1923, SCALISI VINCENZO
nato a
ADRANO il
nato a
ADRANO il
03/09/1953, GRILLO FORTUNATA
nato a
CATANIA il
21/05/1951, SCALISI GAETANA
nato a
CATANIA il
18/02/1949, SCALISI CARLO
15/01/1974, SCALISI SALVATRICE
10/03/1975, SCALISI CARMELO
21/05/1976, SCALISI FRANCESCO
10/10/1977,
ROMEO FRANCESCO
28/10/1944,
ROMEO GAETANO
nato a
nato a
nato a
nato a
nato a
CATANIA il
CATANIA il
CATANIA il
CATANIA il
CATANIA il
06/11/1950, ROMEO SANTA nato a CATANIA il 04/01/1959,
RIVA AGATA
nato a
CATANIA il 26/04/1924, GAMBINO
GRAZIA nato a CATANIA il 16/11/1936, GAMBINO CARMELA
nato a CATANIA il 14/05/1932, AVELLI GIUSEPPA GAETANA
nato a CATANIA il 24/07/1942, DOTTORE GIUSEPPINA nato
a CENTURIPE il 25/12/1933, TOMASELLI ANTONINO
nato a
PEDARA il 13/10/1925, VARANO ANTONINO nato a PETRIZZI
3
CATANIA il 09/08/1974, CIROLLI GIUSEPPE
il 05/07/1914, CAPRINO CARMELA nato a CATANIA il
06/02/1927, CONSOLI CARMELO nato a CATANIA il
25/09/1924, CASACCIO FILIPPO nato a CATANIA il
18/08/1953, CASACCIO ITALO nato a CATANIA il
13/06/1952, CUMIA GIUSEPPE nato
a BARRAFRANCA il
12/10/1922, CUMIA GIUSEPPA nato
a BARRAFRANCA il
21/08/1914,
CUMIA CATENA nato
a BARRAFRANCA il
16/01/1920,
CUMIA EPIFANIA nato
a BARRAFRANCA il
24/04/1930,
CUMIA STELLA nato
a BARRAFRANCA il
09/01/1933,
ZAPPALA’
UMBERTO nato
a CATANIA il
26/02/1939,
ZAPPALA’
DOMENICO nato
a CATANIA il
06/12/1934,
ZAPPALA’
SALVATORE nato
a CATANIA il
05/07/1931;
– intimati –
avverso la sentenza n. 478/2009 della CORTE D’APPELLO
di CATANIA, depositata il 14/04/2009, R.G.N. 2118 e
2119/02;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 12/12/2013 dal Consigliere Dott. LINA
RUBINO;
udito l’Avvocato VINCENZO DI CATALDO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. ROSARIO GIOVANNI RUSSO che ha concluso
per l’inammissibilità dei primi tre motivi;
accoglimento
40
motivo
4
(limitatamente
29/07/1962, CASACCIO MARIA RITA nato a CATANIA il
all’applicazione art. 936 c.c.) e in subordine del 6 °
motivo (quanto alla illiceita’ della costruzione)
assorbiti gli altri; denuncia alla competente Procura
della Repubblica ex art. 331 c.p.p..
5
R.g. 15180 2010
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
ai F.11i Venezia Giuseppe e Antonio, imprenditori edili, un terreno con sovrastanti
risalenti costruzioni sito in Catania, via Fumali, per la realizzazione di un edificio di
civile abitazione a più piani. Rimasero escluse dalla pattuizione parte dell’area scoperta,
corrispondente a quella sulla quale era previsto che dovessero sorgere otto rimesse, e i
piani secondo e terzo dell’edificio che i F.11i Venezia si proponevano di edificare sul
terreno. Le parti concordarono di compensare il prezzo della vendita con il
corrispettivo del contratto di appalto che pure si impegnarono a concludere, per la
costruzione sul terreno di otto rimesse e dei piani secondo e terzo dell’edificio da
costruire, che sarebbero stati acquistati in proprietà dai promittenti venditori. I Venezia
portarono a termine le attività preliminari a loro carico (demolizione di alcune casette
preesistenti sul terreno ed altro) ma i prominenti venditori rifiutarono di concludere il
contratto definitivo di compravendita. Ciò nonostante, i F.11i Venezia costruirono sul
terreno un edificio di sei elevazioni fuori terra, finché, nel 1967, vennero dichiarati
falliti. Morta Annino Maria, le succedeva Annino Salvatore e poi a questi succedeva la
moglie, Spoto Giuseppina, che nel 1975 vendeva il terreno e alcune delle sovrastanti
costruzioni a Chizzoni Cesare e Campione Grazia, Tariulo Giambattista, Coco Maria,
Pagliarisi Angela (come da impegno già assunto dalla F.11i Venezia), impegnandosi a
rinunziare al giudizio intrapreso nei confronti dei fratelli Venezia ; il contratto prevedeva
anche l’accollo in capo agli acquirenti di eventuali indennità dovute al fallimento dei F.11i
Venezia. Nel novembre 1975 il Fallimento dei F.11i Venezia chiedeva il sequestro
conservativo delle unità immobiliari vendute agli odierni ricorrenti, e quindi citava Spoto
Consalvo ( nella qualità di erede di Spoto Giuseppina) e gli acquirenti degli immobili
costruiti dai F.11i Venezia per ottenere dai convenuti il pagamento dell’indennità dovuta
ex art. 936 c.c. Il Tribunale di Catania con sentenza non definitiva del 1987 accoglieva la
6
Con scrittura privata del 1960, Annino Salvatore e Annino Maria promisero di vendere
domanda della Curatela fallimentare, dichiarando sia l’erede dei proprietari dell’area,
Spoto Consalvo, che gli acquirenti ( ciascuno dei quali aveva acquistato un singolo
appartamento all’interno dell’edificio realizzato dalla impresa fallita) tenuti in solido al
pagamento dell’indennità ex art. 936 c.c. e convalidando il sequestro. Con sentenza
definitiva del 1988 lo stesso tribunale condannava tutti i convenuti in solido a pagare al
Fallimento la somma di lire 1.036.235.000, con interessi legali dal 1967.
2. Avverso la sentenza del Tribunale di Catania proponevano appello Chizzoni Cesare,
in proprio e nella qualità di erede della moglie Campione Grazia, nonché i figli Chizzoni
Renato e Chizzoni Letizia Rita. La Corte d’appello di Catania, con sentenza n. 814 del
1998, dichiarava la nullità dell’attività processuale svolta in primo grado dopo
l’interruzione per morte della Campione verificatasi nel 1982 , per difetto di integrità del
contraddittorio, e quindi, dichiarata la nullità di entrambe le sentenze di primo grado,
rimetteva la causa al primo giudice per l’integrazione del contraddittorio.
3. Il Fallimento dei F.11i Venezia riassumeva la causa dinanzi alla sezione stralcio del
Tribunale di Catania. Con sentenza n. 1541 del 2001 il Tribunale di Catania rigettava la
domanda della curatela nei confronti di Spoto Consalvo (erede degli originari
proprietari), rigettava l’eccezione di estinzione del giudizio sollevata dagli acquirenti,
convalidava il sequestro conservativo a suo tempo emesso e condannava gli altri
convenuti, ovvero gli acquirenti degli immobili, al pagamento della indennità ex art. 936
c.c. nella stessa misura originariamente determinata dal giudice di prime cure in lire
1.036.235.000.
4. Avverso la seconda sentenza di primo grado proponevano appello dinanzi alla corte
d’Appello di Catania gli acquirenti Pagliarisi, Di Gregorio, Pappalardo, Maccarone , i tre
Chizzoni, e il Tariulo mentre gli altri acquirenti proponevano appello incidentale contro
il Fallimento dei F.11i Venezia e gli eredi di Spoto Consalvo. La causa veniva interrotta e
poi riassunta a causa della morte degli appellanti incidentali Casaccio Salvatore e Scalisi
Agatino. Alcune delle parti riassumevano, e infine la corte d’appello, con sentenza n.
478 del 14.4.2009, in parziale riforma della sentenza n. 1541 del 2001 del Tribunale di
Catania rigettava la domanda proposta dal Fallimento nei confronti degli eredi di
Casaccio Salvatore nonché degli Scalisi e dei loro eredi, e per il resto confermava la
–
sentenza di primo grado. Per quanto ancora qui può interessare, la Corte accoglieva il
l’appello dei soli Casaccio Giacomo e Scalisi Carmelo ( e dei loro eredi), ritenendo che
spettasse alla curatela provare la loro qualità di eredi degli originari acquirenti, onere
probatorio al quale la curatela non aveva adempiuto. Rigettava invece l’appello proposto
dagli originari acquirenti degli appartamenti e dai loro eredi : in merito all’eccezione di
per mancata notifica dell’atto di riassunzione nei confronti di due degli originari
convenuti nonché dell’eredità giacente di Spoto Giuseppina, la corte la rigettava
ritenendo applicabili nella specie non l’art. 305 c.p.c. ma gli artt. 353 e 354 c.p.c. , per
aver il Fallimento provveduto a tentare la notifica del ricorso in riassunzione nei termini,
e poi a rinotificare gli atti, la cui notifica non era andata a buon fine, entro un tempo
ragionevole. Osservava che tra acquirenti accollanti e dante causa accollata sussisteva
una situazione non di litisconsorzio necessario ma facoltativo, e pertanto alla
proposizione dell’eccezione di estinzione sarebbero state legittimate solo le parti
coinvolte nelle rispettive cause con la curatela fallimentare in primo grado. Rigettava
l’appello sull’inapplicabilità dell’art. 936 c.c. al caso di specie, ritenendo che ben
potessero qualificarsi i Venezia terzi ai sensi dell’art. 936 c.c. non esistendo nessun
contratto di contenuto reale relativo al terreno né di appalto relativo alle costruzioni. La
corte rigettava poi i motivi di appello con i quali si lamentava che la decisione del
giudice di prime cure si fosse fondata su una ctu depositata nel 1987, ovvero nel periodo
di attività processuale dichiarata nulla per difetto del contraddittorio con sentenza n. 814
del 1998 della corte d’appello, e che il consulente non avesse tenuto conto di alcuni
elementi essenziali per determinare l’ammontare dell’indennizzo dovuto (abusività non
sanabile delle costruzioni, esistenza di un provvedimento di demolizione definitivo) ,
rilevando che nel secondo giudizio di primo grado le parti avevano contestato nel merito
le conclusioni cui era pervenuto il ctu, senza osservare alcunché in ordine alla
inutilizzabilità della consulenza stessa per difetto del contraddittorio ed anche in appello i
rilievi si erano indirizzati principalmente verso le conclusioni cui era pervenuto l’ausiliare.
Osservava poi che era ben vero che la costruzione era stata eseguita senza licenza
edilizia, ma che alla luce della normativa all’epoca vigente era stata soltanto inviata dal
estinzione del giudizio di primo grado, riproposta in appello da alcuni degli appellanti,
sindaco una diffida a demolire l’immobile, a cui non era seguita alcuna iniziativa volta
alla effettiva demolizione dei fabbricati e che l’ipotesi che essa fosse disposta per il
futuro doveva ritenersi in concreto insussistente. Pertanto, riteneva che il valore
dell’edificio fosse interamente valutabile al fine della quantificazione dell’indennizzo
dovuto al Fallimento dell’impresa costruttrice. Concordava infine con il giudice di prime
5. Tariulo Giambattista, Chizzoni Renato, Chizzoni Letizia Rita e Cancellara Tommaso
propongono ricorso contro la sentenza n. 478 del 2009 della Corte d’Appello di Catania,
depositata il 14.4.2009, non notificata, articolato in sette motivi, nei confronti del
Fallimento dei Fratelli Venezia Giuseppe e Antonio e nei confronti di Roccella
Giuseppa, Consoli Angelo, Scalisi Agatina, Scalisi Alfio, Scalisi Giuseppa, Scalisi
Giuseppe, Milone Maria Lucrezia, Gambino Alessandro, Gambino Daniela in Testa,
Zuppardo Franco, Zuppardo Rita, Casaccio Giovanni, Pagliarisi Angela, Pappalardo
Carmelo, Maccarone Maria Stella, Castorina Anna, Spoto Giulia Agata, Spoto Agata Rita,
Spoto Mario, Cali Massimo, Cali Consalvo, Cali Giovanna, Cirolli Cristina, Cirolli
Giuseppe, Spoto Francesco, Cali Francesco, Spoto Consuelo„ Nicolosi Gaetana, Scalisi
Vincenzo, Scalisi Carlo, Grillo Fortunata, Scalisi Gaetana, Scalisi Salvatrice, Scalisi
Carmelo, Scalisi Francesco, Romeo Francesco, Romeo Gaetano, Romeo Santa in
Boncompag-no, Riva Agata, Gambino Grazia in Marino, Gambino Carmela, Avelli
Giuseppa Gaetana, Dottore Giuseppina, Tomaselli Antonino, Varano Antonino,
Caprino Carmela, Consoli Carmelo,Casaccio Filippo, Casaccio Giovanni, Casaccio Italo,
Casaccio Maria Rita, Cumia Giuseppe, Cumia Giuseppa, Cumia Catena, Cumia Epifania,
Cumia Stella, Zappalà Umberto, Zappalà Domenico, Zappalà Salvatore.
Degli intimati, soltanto il Fallimento dei F.11i Giuseppe e Antonino Venezia ha
depositato controricorso ed anche memoria ex art. 378 c.p.c.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Va premesso che il ricorso è stato proposto per impugnare una sentenza pubblicata una
volta entrato in vigore il D. Lgs. 15 febbraio 2006, n. 40, recante modifiche al codice di
cure anche sulla natura di debito di valore dell’indennizzo ex art. 936 c.c.
procedura civile in materia di ricorso per cassazione; con l’applicazione, quindi, delle
disposizioni dettate nello stesso decreto al Capo I.
Secondo l’art. 366-bis c.p.c. — introdotto dall’art. 6 del decreto — i motivi di ricorso
devono essere formulati, a pena di inammissibilità, nel modo ivi descritto ed, in
particolare, nei casi previsti dall’ art. 360, n. 1), 2), 3) e 4, l’illustrazione di ciascun motivo
si deve concludere con la formulazione di un quesito di diritto, mentre, nel caso previsto
chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume
omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della
motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione.
Segnatamente, nel caso previsto dall’art. 360 n. 5 c.p.c., l’illustrazione di ciascun motivo
deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in
relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni
per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la renda inidonea a giustificare la
decisione; e la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo del
quesito di diritto), che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare
incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità
(S.U. 1.10.2007 n. 20603; Cass. 18.7.2007 n. 16002).
Il quesito, al quale si chiede che la Corte di cassazione risponda con l’enunciazione di un
corrispondente principio di diritto che risolva il caso in esame, poi, deve essere
formulato, sia per il vizio di motivazione, sia per la violazione di norme di diritto, in
modo tale da collegare il vizio denunciato alla fattispecie concreta ( v. S.U. 11.3.2008 n.
6420 che ha statuito l’inammissibilità – a norma dell’art. 366 bis c.p.c. – del motivo di
ricorso per cassazione il cui quesito di diritto si risolva in un’enunciazione di carattere
generale ed astratto, priva di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua
riconducibilità alla fattispecie in esame, tale da non consentire alcuna risposta utile a
definire la causa nel senso voluto dal ricorrente, non potendosi desumere il quesito dal
contenuto del motivo od integrare il primo con il secondo, pena la sostanziale
abrogazione del suddetto articolo).
10
dall’art. 360, primo comma, n. 5), l’illustrazione di ciascun motivo deve contenere la
La funzione propria del quesito di diritto – quindi – è quella di far comprendere alla Corte
di legittimità, dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della
questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito e quale sia,
secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (da ultimo Cass.7.4.2009
n. 8463; v, anche S.U. ord. 27.3.2009 n. 7433).
ricorso in cassazione, comporta – ai fini della declaratoria di inammissibilità del ricorso
stesso -, una diversa valutazione, da parte del giudice di legittimità, a seconda che si sia in
presenza dei motivi previsti dai numeri 1, 2, 3 e 4 dell’art. 360, primo comma, c.p.c.,
ovvero del motivo previsto dal numero 5 della stessa disposizione.
Nel primo caso ciascuna censura – come già detto – deve, all’esito della sua illustrazione,
tradursi in un quesito di diritto, la cui enunciazione (e formalità espressiva) va
funzionalizzata, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., all’enunciazione del principio di diritto,
ovvero a dieta giurisprudenziali su questioni di diritto di particolare importanza.
Nell’ipotesi, invece, in cui venga in rilievo il motivo di cui al n. 5 dell’art. 360 c. p.c.c. (il
cui oggetto riguarda il solo iter argomentativo della decisione impugnata), è richiesta una
illustrazione che, pur libera da rigidità formali, si deve concretizzare in una esposizione
chiara e sintetica del fatto controverso ( cd. momento di sintesi) – in relazione al quale la
motivazione si assume omessa o contraddittoria – ovvero delle ragioni per le quali la
dedotta insufficienza rende inidonea la motivazione a giustificare la decisione (v. da
ultimo Cass. 25.2.2009 n. 4556; v. anche Cass. 18.11.2011 n. 24255).
Tutto ciò premesso, Con il primo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la violazione
e falsa applicazione dell’art. 102 c.p.c. in relazione all’art. 2909 c.c. per aver la corte di
merito erroneamente ritenuto che il giudicato interno, formatosi a seguito di una
precedente sentenza che ha annullato il primo procedimento di primo grado , abbia ad
oggetto “la statuizione di litisconsorte necessario nei confronti degli eredi della parte
deceduta in corso del giudizio e non nel riguardo a tutte le altre parti”.
Con il secondo motivo di ricorso, i ricorrenti lamentano la violazione e falsa
applicazione dell’art. 102 c.p.c., in relazione all’art. 1273, 3° comma c.p.c. , per aver
ritenuto la corte d’appello che nel caso di specie, in merito alla proposta domanda di
Inoltre, l’art. 366 bis c.p.c., nel prescrivere le modalità di formulazione dei motivi del
ottenimento della indennità ex art. 936 c.c. , non sussista il litisconsorzio necessario tra i
proprietari o comproprietari del terreno su cui sorge l’immobile e gli acquirenti dei vari
appartamenti di cui l’immobile stesso si compone.
Con il terzo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione
da parte della corte d’appello dell’art. 143 c.p.c. in relazione agli artt. 354 e 102 c.p.c., in
quanto, essendo stata la notificazione del ricorso in riassunzione eseguita nel termine di
negativo, essendosi le parti trasferite all’estero, tentativo cui ha fatto seguito la notifica
ex art. 143 c.p.c. in un tempo ragionevole, non ha ritenuto necessario, ai fini della
validità della notifica ex art. 143 c.p.c., l’esperimento da parte del notificante delle
indagini che avrebbe potuto condurre usando l’ordinaria diligenza per accertare il nuovo
indirizzo.
I tre motivi di ricorso sono legati tra loro, anche nella prospettazione dei ricorrenti, che
lamentano che la corte d’appello non abbia dichiarato l’intervenuta estinzione del
processo per mancata integrazione del contraddittorio nel termine dell’art. 354 in
relazione all’art. 353 c.p.c. Essi sono inammissibili in quanto non è agevolmente
comprensibile, attraverso le espressioni utilizzate, quale sia la censura mossa nei
confronti della sentenza di appello. A quanto è dato comprendere, ciò che lamentano i
ricorrenti è che la corte d’appello abbia ritenuto che nel giudizio di merito, in cui si
chiedeva la condanna dei proprietari del terreno e degli acquirenti degli immobili in
solido al pagamento dell’indennità ex art. 936 c.c., i convenuti fossero legati solo da un
rapporto di solidarietà, e che pertanto si trattasse, secondo un consolidato orientamento
di legittimità, di litisconsorzio facoltativo, e non necessario, e di conseguenza che la
mancata notifica dell’atto di riassunzione nei confronti di due delle parti originarie non
abbia portato all’estinzione del giudizio in quanto essa avrebbe dovuto essere eccepita
non da una qualsiasi delle parti del giudizio ma solo dai coeredi degli originati convenuti.
Inoltre, i quesiti di diritto non sono strutturati in forma interrogativa, né tanto meno
contengono un quesito chiaro sulla corretta applicazione o meno di una o più norme da
parte della corte di provenienza in relazione alla fattispecie concreta. Le censure mosse
sono generiche ai limiti dell’inintelligibilità. In particolare, il terzo quesito di diritto così
legge nei confronti di alcune delle parti e solo tentata nei confronti di altre parti con esito
recita :”Dica l’Ecc.ma Corte di cassazione previa verifica della documentazione in atti che le notifiche
nei confronti dei signori Scalisi Agatino e Gambino Carmela sono nulle per il mancato accertamento dei
requisiti di legge”.
Con il quarto motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione
dell’art. 936 c.c. e ipotizzano la configurabilità delle ipotesi previste dall’art. 360, primo
comma, numeri 3,4 e 5. Il quesito che pongono alla corte è se il soggetto che abbia fatto
ex art. 936 c.c. secondo comma soltanto ai proprietari del fondo, o se possa agire anche
nei confronti dei successivi acquirenti di quanto ivi costruito. Non contestano che nel
caso di specie vi sia stato un accollo, con il quale gli acquirenti si sono obbligati verso il
venditore — proprietario del terreno ad assumersi l’eventuale debito di questi nei
confronti del fallimento dell’impresa costruttrice, ma sostengono che si sia trattato di un
accollo rimasto meramente interno tra proprietario e acquirenti del fondo, e che essi non
possano pertanto essere chiamati a rispondere verso il terzo creditore..
Il motivo va dichiarato inammissibile sotto svariati profili. In primo luogo, il motivo di
ricorso difetta del requisito dell’autosufficienza, non avendo i ricorrenti riprodotto le
parti del contratto di compravendita intercorso con gli allora proprietari del terreno che
riguardano l’accollo, al fine di poter verificare se effettivamente si tratti di mero accollo
interno. Inoltre, il controricorrente sostiene che mai in precedenza la questione che gli
acquirenti non risponderebbero in quanto l’accollo è solo interno è stata prospettata. In
effetti la sentenza di appello non tocca affatto questo profilo per cui, non essendo stato
denunciato il vizio di omessa pronuncia, deve ritenersi che la questione sia stata sollevata
per la prima volta, inammissibilmente, nel corso del giudizio di cassazione.
Con il quinto motivo di ricorso i ricorrenti lamentano nuovamente la violazione
dell’art. 936, in questo caso secondo comma, del c.c.. I ricorrenti si dolgono del fatto
che, ai fini della quantificazione dell’indennizzo, il giudice di merito abbia preso in
considerazione l’aumento di valore del fondo, in considerazione dell’erezione su di esso
della costruzione, facendo riferimento ad una ctu redatta nel 1987, ovvero nel periodo la
cui attività processuale è stata successivamente dichiarata nulla dalla prima sentenza
della corte d’appello.
43
a sue spese opere o costruzioni su un fondo possa richiedere il pagamento dell’indennità
Anche questo quesito deve essere dichiarato inammissibile, in quanto non è strutturato
in forma interrogativa, né tanto meno contiene un quesito chiaro sulla corretta
applicazione o meno di una o più norme da parte della corte di provenienza in relazione
alla fattispecie concreta. Le censure mosse sono generiche ai limiti dell’intelligibilità e
sono relative all’utilizzazione da parte della corte territoriale, per la formazione del
proprio convincimento, di una consulenza espletata nel periodo in cui l’attività
contraddittorio. Come osservato dalla corte d’appello, nel corso del secondo giudizio di
primo grado gli odierni ricorrenti hanno in effetti chiesto la rinnovazione della ctu ma
non per violazione del contraddittorio o perché ne contestassero la validità ma soltanto
perché contestavano il metodo seguito e le conclusioni alle quali il consulente era
pervenuto, e sostanzialmente lo stesso ragionamento è stato riprodotto in appello.
Con il sesto motivo di ricorso, i ricorrenti lamentano che la corte di merito sia arrivata
alla quantificazione dell’indennizzo dovuto, ponendo a loro carico il pagamento di una
cospicua somma, senza adeguatamente considerare che l’immobile in relazione al quale si
chiede l’indennizzo è totalmente abusivo, per essere stato costruito in carenza di licenza
edilizia, sulla base della sola considerazione fattuale che non essendosi l’amministrazione
mai attivata per demolirlo, il rischio che intervenga una demolizione deve ormai ritenersi
nullo. Quindi la questione che sottopongono alla corte a quanto è dato comprendere è se
possa essere riconosciuta l’indennità ex art. 936 c.c. in favore del costruttore che abbia
realizzato l’opera in violazione della normativa edilizia
Anche questo motivo va dichiarato inammissibile, come i precedenti, in quanto non è
strutturato in forma interrogativa, né tanto meno contiene un quesito chiaro sulla
corretta applicazione o meno di una o più norme da parte della corte di provenienza in
relazione alla fattispecie concreta. Le censure mosse sono generiche ai limiti
dell’intelligibilità ed in particolare non è dato comprendere in che termini avesse il
ricorrente già sottoposto la questione se l’indennizzo possa ritenersi dovuto anche in
presenza di costruzione realizzata in violazione della normativa edilizia alla corte
territoriale.
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processuale svolta è stata dichiarata successivamente nulla per violazione del
Infine, con il settimo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano che le spese di giudizio
siano state poste ingiustamente a loro carico.
Il motivo è inammissibile in quanto non si contesta la corretta applicazione delle
norme di legge che regolano la ripartizione delle spese di lite sula base della
soccombenza ma, all’inverso, il ricorrente lamenta di esser stato ingiustamente
censura totalmente inammissibile in quanto non prospetta una erronea violazione di
legge ma un errato giudizio in fatto.
Conclusivamente, il ricorso è inammissibile.
Le spese seguono la soccombenza e, liquidate come in dispositivo, sono poste a carico
del ricorrente.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese
di giudizio in favore del resistente costituito Fallimento Fili Venezia e le liquida in
complessivi € 20.200,00, di cui € 200,00 per spese; il tutto oltre accessori di legge.
Così deciso il 12 dicembre 2013 in Roma, nella camera di consiglio della terza sezione
civile della Corte di cassazione.
soccombente e che di conseguenza siano state poste a suo carico le spese di giudizio, con