Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28290 del 04/11/2019
Cassazione civile sez. lav., 04/11/2019, (ud. 26/06/2019, dep. 04/11/2019), n.28290
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Presidente –
Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –
Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –
Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –
Dott. CIRIELLO Antonella – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 12255/2015 proposto da:
Z.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIROLAMO
SAVONAROLA 39, presso lo studio dell’avvocato CARMINE PELLEGRINO,
che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
COPREZ S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore,
elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CARLO DOSSI 45, presso lo
studio dell’avvocato GIOVANNI MARIA FACILLA, che la rappresenta e
difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 8121/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,
depositata il 19/11/2014, R.G.N. 871/2013.
Fatto
RILEVATO
che la Corte di appello di Roma, con sentenza del
19.11.2014, ha confermato la sentenza del Tribunale di Roma n.
16524/2012, con la quale, pure essendo accertata l’esistenza del
rapporto di lavoro di Z.A. alle dipendenze di Coprez s.r.l.,
con decorrenza dal 18.1.10 anteriore alla stipulazione del contratto
part time del 17.3.10, era stata – tuttavia – respinta la domanda volta
ad ottenere la condanna al pagamento di differenze retributive
conseguenti al riconoscimento di una qualifica superiore, dello
svolgimento di un maggior orario lavorativo rispetto al contrattuale,
nonchè la domanda di accertamento della nullità del licenziamento
intimato con reintegrazione nel posto di lavoro;
che a fondamento del decisum, per quanto qui
rileva, la Corte territoriale, sul rilievo che la parte non avesse
formulato censure specifiche relative al livello di inquadramento (il V,
anzichè al IV livello richiesto) e che solo in appello avesse chiarito
di aver fatto riferimento per errore all’inquadramento al terzo livello,
aveva rigettato la relativa domanda, ritenuta infondata sulla base
dell’esame delle declaratorie; aveva – altresì – la corte ritenuto che
non fosse stata fornita, dalla lavoratrice, la prova del maggiore orario
prestato, a fronte della stipula di contatto scritto part-time di 15
ore settimanali; infine la corte aveva escluso la nullità del
licenziamento poichè, in primo grado, era stata ritenuta fornita la
prova delle dimissioni, contestata solo in appello con una
argomentazione nuova (ossia che la necessità della forma scritta
scaturisse dal CCNL, neppure prodotto), argomentando a favore della
conclusione che la lavoratrice si dimise, dalla circostanza che mai ella
propose l’impugnativa stragiudiziale del licenziamento, e che neppure
offrì le proprie prestazioni di lavoro;
che avverso la decisione di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione la Z., affidato a due motivi;
che Coprez s.r.l. ha resistito con controricorso;
che il P.G. non ha formulato richieste scritte.
Diritto
CONSIDERATO
che, con il ricorso per cassazione, in sintesi, si censura:
1.- il vizio di violazione di legge in cui sarebbe incorsa la corte territoriale, in relazione agli artt. 1350,2735 c.c., artt. 416,115 c.p.c., artt. 2697,2721,2725,1325,2907 c.c.,
ritenendo che la lavoratrice avrebbe dovuto fornire la prova
dell’orario di lavoro, nonostante il tribunale, con capo di sentenza
passata in giudicato, avesse accertato l’inizio del rapporto di lavoro
in epoca anteriore a quella di sottoscrizione dei contratti di lavoro a
tempo determinato, che quindi sarebbero stati implicitamente dichiarati
nulli anche con riferimento all’orario part-time che recavano; avrebbe
errato, ancora la corte, secondo la ricorrente, nell’applicare non
correttamente il principio di non contestazione in ordine agli orari
svolti, anche alla luce delle dichiarazioni rese dai testi, da cui si
desumevano orari di lavoro incompatibili con quelli indicati dalla
Coprez;
2. – il vizio di violazione di legge in cui sarebbe incorsa la corte territoriale, in relazione agli artt. 1350,2735 c.c., artt. 416,115 c.p.c., artt. 2697, 2721, 2725, 160, 163 del CCNL Turismo, art. 1372 c.c., L. n. 604 del 1966, art. 2,
escludendo erroneamente il licenziamento orale, per ravvisare le
dimissioni orali della lavoratrice, sulla base di una non corretta
valutazione delle dichiarazioni testi (come si evincerebbe dall’equivoco
circa la teste D.F. le cui dichiarazioni furono erroneamente
attribuite dalla corte ad un inesistente teste A. o A.);
avrebbe errato, altresì, la corte, nel ritenere non prodotto il CCNL
rilevante quanto alla forma delle dimissioni e nel ritenere la
contestazione circa la forma delle dimissioni un tema nuovo proposto per
la prima volta in appello, nonostante la società in primo grado non
avesse contestato tale omessa produzione e dal contratto individuale
emergessero le norme del CCNL rilevanti;
che il ricorso deve essere rigettato;
che il primo motivo è infondato; dalla mera lettura della sentenza
di appello si evince la non corretta deduzione della critica, che nel
prospettare genericamente come l’accertamento svolto dal Tribunale di un
anteriore rapporto di lavoro a tempo indeterminato (decorrente dal
18.1.10) avrebbe travolto non meglio specificati “contratti a tempo
determinato”, non si confronta con la motivazione della sentenza
impugnata, che valorizza la sottoscrizione tra le parti di un contratto
part time in data 17.3.10; la corte di appello, in particolare, dopo
aver richiamato i corretti principi secondo i quali il rapporto di
lavoro subordinato (in assenza della prova di un rapporto part-time,
nascente da atto scritto) si presume a tempo pieno ed è onere del datore
di lavoro, che alleghi invece la durata limitata dell’orario di lavoro
ordinario, fornire la prova della consensuale riduzione della
prestazione lavorativa (Cass. 18.3.04, n. 5518),
ha, infatti, evidenziato la esistenza di un contratto part-time tra le
parti, contenente una rinnovata manifestazione di volontà integrante una
novazione oggettiva dell’intesa negoziale (eventualmente) inizialmente
concordata, di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in
rapporto a tempo parziale: e ciò tanto ai sensi del D.L. 30 ottobre 1984, n. 726, art. 5, conv. in L. n. 863 del 1984 (Cass. 11.12.14, n. 26109), quanto conformemente alla disciplina dettata dal D.Lgs. n. 61 del 2000 (Cass. 6.12.16, n. 25006; Cass. 19.1.18, n. 1375);
– che, in ogni caso, avendo la censura ad oggetto una
contestazione, pure generica, dell’apprezzamento di merito operato (già
dal Tribunale e condiviso) dalla Corte territoriale, con argomentazione
corretta e congrua (dal 3 cpv di p. 3 al 1 di p. 4 della sentenza), la
stessa appare insindacabile in sede di legittimità, sicchè il vizio
denunciato non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di
norme di legge, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato
attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e
dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, il che nel caso di specie non emerge dalla formulazione del motivo (cfr. ex multis Cass. 23940 del 2017).
– che il secondo motivo è inammissibile, poichè, a fronte
dell’accertamento di fatto svolto dal Tribunale, in ordine alla prova
delle dimissioni della lavoratrice, condiviso motivatamente dalla Corte
territoriale (cfr. p. 4 della sentenza impugnata), la doglianza appare
in concreto dedurre un vizio di motivazione, formulando mera
confutazione della valutazione probatoria, in assenza di alcuna
violazione di legge denunciata e risultando il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d. doppia conforme (v. Cass. n. 23021 del 2014);
che alla stregua di quanto esposto il ricorso deve, pertanto, essere rigettato;
che al rigetto segue la condanna della ricorrente, secondo il
principio della soccombenza, alla rifusione delle spese del presente
giudizio di legittimità;
che l’attuale condizione della ricorrente di ammessa al patrocinio a
spese dello Stato (con Delib. Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di
Roma 17 aprile 2015) esclude, allo stato, la sussistenza dei presupposti
per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato previsto dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 (Cass. 15 ottobre 2015, n. 20920; Cass. 2 settembre 2014, n. 18523).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento,
in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di
legittimità che liquida in Euro 4000,00 per compensi, oltre alle spese
forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in
Euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 quater, dà atto della non sussistenza allo stato dei
presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore
importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il
ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 24 giugno 2019.
Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2019