Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28287 del 04/11/2019
Cassazione civile sez. lav., 04/11/2019, (ud. 06/03/2019, dep. 04/11/2019), n.28287
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRIA Lucia – Presidente –
Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –
Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –
Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –
Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 2956-2017 proposto da:
M.V., MIGROSS S.P.A., in persona del legale rappresentante pro
tempore elettivamente domiciliati in ROMA, VIA PIEMONTE 117, presso
lo studio dell’avvocato EMILIANO PELLEGRINO, rappresentati e difesi
dagli avvocati LUISA BERGAMINI, GIANLUCA SPOLVERATO;
– ricorrenti –
contro
DIREZIONE TERRITORIALE DEL LAVORO DI VERONA, in persona del legale
rappresentante pro tempore domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI
12, presso L’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e
difende ope legis;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2340/2016 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,
depositata il 03/11/2016 R.G.N. 464/2016.
LA CORTE, visti gli atti e sentito il consigliere relatore:
Fatto
OSSERVA
che:
con ricorso depositato il 26 novembre 2014
M.V. e MIGROSS S.p.a. proponevano opposizione avverso le ordinanze –
ingiunzioni, nn. 592-14 e 593-14, mediante le quali la Direzione
Territoriale del Lavoro di Verona aveva intimato al primo, in qualità di
trasgressore, siccome presidente del consiglio di amministrazione della
società, e alla seconda, quale obbligata solidale, il pagamento di Euro
241mila471,23 a titolo di sanzioni amministrative, più spese di
notifica per complessivi Euro 241.486,43 a seguito della contestata
violazione della L. n. 68 del 1999, artt. 3,7 e art. 9,
comma 1 accertata con precedente verbale d’ispezione in data 7 dicembre
2009 “per non aver coperto la prescritta quota di appartenenti alle
categorie dei disabili, decorsi sessanta giorni dalla data nella quale è
insorto l’obbligo della loro assunzione, per cause imputabili al datore
di lavoro (inosservanza dei termini e delle modalità previste dalla
convenzione stipulata per l’assunzione dei disabili in data 24 maggio
2004) relativamente lavoratori e nei periodi di seguito indicati” per un
totale di 4719 giornate lavorative di scopertura. Le pretese
sanzionatorie facevano riferimento al mancato rispetto della convenzione
di programma, intervenuta il 24 maggio 2004 tra MIGROS S.p.A. e la
Provincia di Verona – servizio di collocamento privato – ai sensi della L. n. 68 del 1999, art. 11,
comma 1. I ricorrenti avevano chiesto l’annullamento delle opposte
ordinanze, rilevando la tardività della loro emissione ed eccependo
l’insussistenza degli illeciti contestati sotto il profilo del dolo e
della colpa, atteso che l’azienda aveva fatto il possibile per adempiere
agli obblighi assunti, tenuto conto della situazione di mercato, mentre
l’Amministrazione provinciale non aveva provveduto all’avviamento
numerico di lavoratori disabili, cui era tenuta, con la conseguenza che
MIGROSS era stata parzialmente inadempiente all’obbligo di copertura
della quota di riserva per il periodo contestato. Il giudice di primo
grado, disattendendo i motivi dell’opposizione, aveva ritenuto la
fondatezza degli illeciti accertati in sede amministrativa, nonchè la
correttezza delle sanzioni applicate, rigettando quindi il ricorso;
gli opponenti, quindi, con citazione del 24
febbraio 2016, avevano appellato la sentenza n. 3359/2015, pronunciata
dal Tribunale di Verona, lamentando l’omessa valutazione delle
giustificazioni addotte a sostegno dell’assenza di colpevolezza, il cui
onere probatorio era carico dell’Amministrazione per l’applicazione
delle sanzioni, ai sensi della L. n. 68 del 1999, art. 15, comma 4;
la Corte d’Appello di Venezia con sentenza n. 2340
in data 18 ottobre – 3 novembre 2016 rigettava l’interposto gravame,
condannando di conseguenza parte appellante al pagamento delle relative
spese e dando atto della sussistenza a carico della stessa dei
presupposti relativi all’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater in ordine al raddoppio del contributo unificato;
in proposito la Corte territoriale ha osservato
come il giudice di primo grado non avesse operato alcuna “inammissibile
inversione dell’onere della prova”, dedotta invece da parte appellante,
atteso che una volta accertato il fatto oggettivo della commissione
dell’illecito, pacifico nel caso in esame, ricadeva sull’opponente
l’onere di dimostrare i fatti impeditivi della pretesa sanzionatoria.
Richiamando, tra l’altro, sul punto la pronuncia delle Sezioni unite di
questa Corte, n. 10508 del 1995, la Corte veneziana ha rilevato che
l’onere di provare di aver agito senza colpa e dolo, stante la
presunzione iuris tantum di colpevolezza, è posto a carico del
trasgressore e che inoltre ricade sull’opponente l’onere di dimostrare
la sussistenza di causa di giustificazione, o di errore di fatto o
dell’errore sul precetto scusabile. Inoltre, a giudizio della Corte
distrettuale, la buona fede è invocabile soltanto se la mancanza di
coscienza dell’illiceità del fatto deriva non da semplice ignoranza
della legge, ma da elementi positivi, ossia da ragionevoli circostanze
che abbiano indotto il soggetto a convincersi della liceità della
propria condotta e risulti che il trasgressore abbia fatto tutto quanto
possibile per conformarsi al precetto di legge. Era evidente che tali
circostanze non sussistevano nel caso in esame. Infatti, parte opponente
aveva sostenuto che l’obbligo di copertura delle quote di riserva era
stato puntualmente osservato “fino a quando la crisi generale del
mercato aveva temporaneamente imposto all’azienda un arresto sulle nuove
assunzioni (pagg. 16 – 18 del ricorso) e che la Provincia di Verona non
aveva provveduto, come invece suo dovere, all’avviamento numerico del
personale iscritto nelle liste di collocamento mirato. Al riguardo la
Corte distrettuale, in primo luogo, ha osservato che il quadro normativo
di riferimento prevedeva appositi meccanismi correttivi che
consentivano, in presenza di determinati presupposti, al datore di
lavoro di chiedere esenzioni o sospensioni dall’obbligo di assunzione.
Inoltre, nel caso di specie la stipula della convenzione non impediva,
qualora ne ricorressero le condizioni, di accedere all’istituto
dell’esonero parziale, ma nessuna di tali possibilità era stata
utilizzata dalla MIGROSS. Di conseguenza, le generiche asserzioni sulla
crisi di mercato, che avrebbero impedito alla società di rispettare il
programma di assunzioni previsto dalla convenzione stipulata il 24
maggio 2004, non potevano certo escludere la sussistenza della condotta,
perfettamente idonea ad integrare l’illecito previsto dal combinato
disposto della L. n. 68 del 1999, artt. 3,7 e art. 9,
comma 1, che sanzionava la mancata copertura della prescritta quota di
appartenenti alle categorie dei disabili. Quanto, poi, alla questione
della chiamata nominativa e degli obblighi gravanti sulle parti, ad
avviso della Corte territoriale, era documentalmente provato che a
seguito della stipula della convenzione la Provincia di Verona aveva
avviato la procedura di presentazione di ben venti candidature da parte
dell’Istituto Don Calabria e dei SIL delle ASL (OMISSIS), ottemperando
così ai propri obblighi. Parte opponente aveva sostenuto che la chiamata
nominativa del soggetto disabile da inserire nell’organizzazione
aziendale era facoltativa per il datore di lavoro, di modo che il
comportamento tale da manifestare l’intento di non esercitare detta
prerogativa determinava la necessità di una procedura di avviamento
numerico da parte della Provincia competente per territorio. L’assunto,
però, non era condivisibile, a giudizio della Corte veneziana,
considerato che la facoltatività della chiamata nominativa si riferiva a
datori di lavoro non sottoscrittori di convenzione. La ratio legis
delle convenzioni di programma risiedeva nella volontà di concordare
procedure di inserimento agevolate, tali da consentire soluzioni
condivise e idonee a conseguire l’obiettivo di trovare adeguata
sistemazione lavorativa ai soggetti disabili mediante l’assolvimento
dell’obbligo in maniera graduale e programmata. Non a caso tali
procedure vedevano il coinvolgimento di enti formativi, nella specie
l’istituto Don Calabria e i servizi sanitari, il cui apporto diventava
determinante nel ridurre in termini di percentuale l’eventualità che i
soggetti in tal modo selezionati non risultassero idonei alle mansioni
previste. Nessuna norma della L. n. 68 del 1999
presupponeva che l’inadempimento datoriale agli obblighi assunti con la
sottoscrizione della convenzione di programma si verificasse solo a
seguito della procedura di avviamento numerico da parte della Provincia
competente. Nè poteva ritenersi che la Provincia avesse avallato tale
interpretazione della legge con la diffida del 18 ottobre 2007, con la
quale la società opponente era stata avvertita che se non avesse
rispettato gli obblighi assunti con la convenzione si sarebbe proceduto
all’avviamento numerico dei lavoratori disabili e quindi alla
segnalazione di obblighi rispettivi. Conformemente a quanto ritenuto dal
primo giudicante, anche secondo la Corte d’Appello, si trattava infatti
di due iniziative distinte e autonome, una dall’altra, ed in ogni caso
la Provincia anche dopo la diffida aveva avviato la procedura di
presentazione di candidature da parte dell’istituto Don Calabria e dei
SIL, cui MIGROSS non aveva dato alcun riscontro. Era acclarata,
pertanto, la volontà della società di non procedere agli inserimenti
concordati dei lavoratori disabili, disattendendo così gli obblighi
assunti. In definitiva, secondo la Corte veneta, non vi erano dubbi
circa la sussistenza degli illeciti contestati, sia sotto il profilo
oggettivo che soggettivo;
avverso l’anzidetta pronuncia hanno proposto
ricorso per cassazione M.V. e MIGROSS S.p.a., come da atto in
data 17/19 gennaio 2017 (notifica poi rinnovata in virtù di decreto
presidenziale ex artt. 377 c.p.c., comma 3 e art. 291 c.p.c.
in data 16-10-2017), ricorso affidato a tre motivi, cui ha resistito
l’Ispettorato Nazionale del Lavoro di Verona con l’Avvocatura Generale
dello Stato mediante controricorso del 6 dicembre 2017;
parte ricorrente, inoltre, ha depositato memoria
illustrativa in vista dell’adunanza in camera di consiglio, fissata per
il sei marzo 2019.
Diritto
CONSIDERATO
che:
con il primo motivo o ricorrenti hanno denunciato violazione, errata interpretazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. della L. n. 68 del 1969, art. 15 nonchè del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 6
laddove con l’impugnata decisione era stata esclusa, nel caso di
specie, l’inversione dell’onere probatorio, tanto più che doveva
applicarsi l’anzidetto art. 6, comma 11, secondo cui il giudice accoglie
l’opposizione quando non vi sono prove sufficienti della responsabilità
dell’opponente. Di conseguenza, la prova della responsabilità di
quest’ultimo, coerentemente al sistema disciplinante l’onere della prova
in materia, incombeva sull’ente impositore. E’ stato richiamato,
inoltre, la cit. L. n. 68, art. 15, comma 4, secondo cui “Trascorsi
sessanta giorni dalla data in cui sorge l’obbligo di assumere soggetti
appartenenti alle categorie di cui all’art. 1, per ogni giorno
lavorativo durante il quale risulti non coperta, per cause imputabili al
datore di lavoro, la quota dell’obbligo di cui all’art. 3, il datore di
lavoro è tenuto al versamento, a titolo di sanzione amministrativa, al
fondo di cui all’art. 14, di una somma pari a Lire 100.000 al giorno per
ciascun lavoratore disabile che risulta non occupato nella medesima
giornata”. Tale norma, secondo parte ricorrente, alla luce pure dei
chiarimenti ministeriali forniti come da circolare del Ministero del
Lavoro in data 18 marzo 2003, n. 325, andava letta nel senso che non
basta la semplice scopertura per integrare la fattispecie di cui
all’art. 15, comma 4, essendo necessario altresì verificare, al fine
dell’irrogazione delle conseguenti sanzioni amministrative, il rifiuto
e/o l’ostacolo all’assunzione obbligatoria del lavoratore avviato dai
servizi competenti allorchè datore di lavoro abbia tempestivamente
presentato il prospetto informativo – valente come richiesta di
avviamento numerico – e comunque fatto richiesta in tal senso come in
sua facoltà, e/o comunque legittimamente confidato nell’avviamento
numerico da parte degli uffici competenti.
Nella fattispecie la Corte di appello, ritenuti assolti da parte
della Provincia i propri obblighi inerenti alla chiamata nominativa,
aveva ritenuto non condivisibile l’assunto circa la facoltatività
diretta chiamata per il datore di lavoro, donde la necessità di una,
procedura di avviamento numerico da parte della provincia, poichè la
facoltatività della chiamata nominativa si riferiva ai soli datori di
lavoro non sottoscrittori di convenzione. Detta interpretazione,
tuttavia, ad avviso dei ricorrenti, era in contrasto con la L. n. 68 del
1999, introducendo una inammissibile disparità di trattamento, in
violazione del principio di uguaglianza ex art. 3 Cost.,
tra datore di sottoscrittori di convenzione e datori di lavoro non
sottoscrittori, laddove ai primi, pur intenzionati ad adempiere ai
propri obblighi e che non abbiano reperito idonee candidature, fosse
precluso di ricorrere all’avviamento numerico. Al contrario, non era
rinvenibile alcuna norma di legge con obbligo per il datore di lavoro,
che abbia sottoscritto una convenzione, della chiamata nominativa. Tale
obbligatorietà contrasterebbe essa stessa con la ratio della L. n. 68,
dal momento che al datore di lavoro, pur intenzionato ad adempiere, ma
che non abbia trovato personale idoneo, non potrebbe ritenersi precluso
di ricorrere all’avviamento numerico, facendone domanda alla Provincia,
come avvenuto nel caso di specie, pena un’ingiustificata disparità di
trattamento, però non fondata in alcun modo sulla ratio della L. n. 68,
contrariamente a quanto asserito dal giudice di appello. Tale
interpretazione era stata confermata dalla nota circolare del Ministero
del Lavoro, n. 325 del 18 marzo 2003 (… se la funzione primaria delle
amministrazioni provinciali riguardo al collocamento obbligatorio si
individua nel perseguire la sistemazione lavorativa delle categorie
svantaggiate, e non già in quella del perseguimento delle sanzioni
amministrative a carico del datore di lavoro, il servizio competente
dovrebbe impegnarsi principalmente a curare il conseguimento di tale
obiettivo, indirizzando ed attuando ogni possibile iniziativa con le
risorse disponibili, compreso l’avviamento numerico… e quindi
sostituendosi ai datori di lavoro in caso di rinuncia alla facoltà di
ricorrere alla richiesta nominativa). Secondo parte ricorrente la
circolare aveva altresì chiarito che la mancata chiamata nominativa non è
di per sè elemento che faccia scattare la sanzione prevista, in quanto
gli uffici sono, comunque, tenuti a procedere con l’avviamento mediante
selezione da graduatoria. Tanto avrebbe dovuto condurre ad escludere, ai
sensi del citato art. 15, comma 4, e giusta il corretto riparto degli
oneri probatori nel caso di specie, in base pure ai richiamati art. 2697
e art. 6, comma 11, l’applicabilità di qualsivoglia sanzione;
con il secondo motivo di ricorso è stata denunciata la violazione dell’art. 1362 c.c. in combinato con la L. n. 68 del 1999, art. 15
in relazione all’affermazione secondo cui la Provincia di Verona con la
diffida del 18 ottobre 2007 – mediante cui la stessa avvertiva la
società che se non avesse rispettato gli obblighi assunti con la
convenzione si sarebbe proceduto all’avviamento numerico di lavoratori
disabili e quindi alla segnalazione agli organi ispettivi- non avrebbe
avallato l’interpretazione del surriferito 15, per cui l’inadempimento
datoriale agli obblighi assunti con la sottoscrizione della convenzione
di programma si verifica solo a seguito della procedura di avviamento
numerico da parte della provincia competente – Violazione degli artt. 1362 e 1366 c.c. in combinato con la L. n. 68 del 1999, art. 15 e della L. n. 689 del 1981, art. 3
laddove l’impugnata sentenza aveva omesso di considerare comunque alla
stregua di legittima scusante la diffida della Provincia in data 18
ottobre 2007, in quanto avallante e comprovante il legittimo affidamento
dell’azienda nel futuro avviamento numerico da parte della Provincia,
ciò in relazione all’art. 360 c.p.c.,
comma 1, nn. 3 e 5. Secondo parte ricorrente, errata risultava
l’interpretazione operata dalla Corte territoriale, che aveva inteso
inverato l’illecito al mero verificarsi della scopertura, in violazione
di quanto disposto dalla L. n. 68 del 1999, art. 15,
comma 4 laddove aveva trascurato che sul piano soggettivo debbono
rilevare comunque -precludendo la configurabilità della fattispecie
l’applicabilità della sanzione – la non imputabilità del datore di
lavoro, la sua buona fede, la correttezza del comportamento in generale
tenuto e l’oggettiva scusabilità del comportamento a fronte di elementi
positivi che ne sono prova. Nella specie la Corte territoriale aveva
omesso di considerare, senza fornire alcuna motivazione al riguardo, che
la Provincia con la diffida del 18 ottobre 2007 (con la quale aveva
letteralmente avvertito MIGROS che se non avesse rispettato gli obblighi
assunti con la convenzione si sarebbe proceduto all’avviamento numerico
dei lavoratori disabili e quindi alla segnalazione agli obblighi
ispettivi) se anche non avesse avallato l’interpretazione della legge
nel senso della facoltatività della chiamata nominativa, aveva comunque
ingenerato un legittimo affidamento in tal senso, determinante la
scusabilità, sulla scorta di tale erroneo convincimento, della mancata
copertura. Quindi, anche laddove si fosse ritenuto che la scopertura di
per sè configurasse illecito, la Corte distrettuale avrebbe dovuto
tenere in debita considerazione il comportamento della Provincia, che
aveva ingenerato un legittimo affidamento nell’azienda, precludente,
come esimente, L. n. 689 del 1981, ex art. 3 l’applicabilità della sanzione. Vi era stata errata interpretazione ed applicazione art. 1362 c.c. e ss., nonchè L. n. 689 del 1981, art. 3
in relazione alla L. n. 68 del 1999, art. 15 in punto di rilevanza del
comportamento della Provincia ai fini del giudizio di non imputabilità /
scusabilità della scopertura della quota di riserva. In particolare, la
Corte veneziana aveva errato nel non tenere in alcuna considerazione
che il comportamento della Provincia, ente competente a procedere
all’avviamento numerico, aveva ingenerato, con un atto espressione del
proprio corrispondente potere, un legittimo affidamento in MIGROSS, tale
da escludere la colpevolezza e comunque da inverare i presupposti per
la scusabilità della scopertura; con ciò, di conseguenza, precludendo,
se non la configurabilità dell’illecito, quantomeno l’applicabilità
della sanzione in relazione alla regola di giudizio di cui al D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 6.
In effetti, dopo avere sbrigativamente e fallacemente, opinato che
nessuna norma della L. n. 68 presupponeva che l’inadempimento datoriale
agli obblighi assunti con la sottoscrizione della convenzione di
programma si verificasse solo a seguito della procedura di avviamento
numerico da parte della provincia competente, la Corte territoriale
aveva ritenuto che con il proprio agire la Provincia non avesse avallato
tale interpretazione, nè reso scusabile l’omissione di MIGROSS. Così
deliberando la Corte aveva, però, trascurato – sebbene occorrente ai
fini della scusabilità e quindi della responsabilità ex citato art. 6 –
il dato documentale della diffida 18 ottobre 2007, emessa della
Provincia di Verona. La Corte territoriale, in particolare, aveva omesso
di considerare non solo che il tenore della dichiarazione contenuta
nella diffida ex art. 1362 c.c.
era inequivocabile, ma che, provenendo dall’ente competente a
provvedere alla richiesta di avviamento numerico, era idonea in generale
ex art. 1366 c.c.
nella società legittimo affidamento circa il successivo adempimento da
parte della Provincia ai propri obblighi in materia, cui era
condizionata la sanzionabilità della scopertura, per cui anche in
materia di atti amministrativi occorre pure fare riferimento al canone
della buona fede nell’interpretazione del provvedimento. Anche nei
rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione opera il principio
inoltre di legittimo affidamento che tutela la posizione del soggetto il
quale subisca pregiudizio a causa di un comportamento obiettivamente
equivocabile della pubblica amministrazione, che frustra una sua
aspettativa legittima di buona fede proprio perchè ingenerata dal factum
principis, peraltro corroborata dalla citata circolare ministeriale.
Nella specie la comunicazione della Provincia aveva ingenerato un
affidamento legittimo sulla situazione (inapplicabilità della sanzione
fintanto che la Provincia non avesse proceduto all’avviamento numerico
dalla medesima equivocamente preannunciato) connessa all’esercizio del
potere preannunciato dalla pubblica amministrazione e nel quale la
società aveva pertanto in totale buona fede confidato. Inoltre, la
decisione sul punto appariva in palese contraddizione con la chiara
interpretazione letterale dell’atto di diffida esaminato dal collegio e
comunque con l’interpretazione che secondo buona fede di esso aveva
potuto fare e dare il destinatario. L’omessa considerazione della
diffida della Provincia in data 18 ottobre 2007, come causa di
insorgenza di legittimo affidamento del destinatario, rappresentava
violazione delle norme di legge, che prevedono l’esimente della buona
fede, pacificamente applicabile anche all’illecito amministrativo
disciplinato dalla L. n. 689 del 1981 e rilevante come causa di esclusione della responsabilità amministrativa (citandosi sul punto Cass. 6 aprile 2011 n. 7885 nonchè 23 ottobre 2003 n. 14107);
con il terzo motivo è stata denunciata la violazione falsa applicazione della L. n. 68 del 1999, art. 15, comma 4, artt. 416 e 115 c.p.c.
in relazione all’omesso rilievo delle altre giustificazioni dedotte da
MIGROSS a sostegno della scusabilità del proprio comportamento, non
specificamente contestate dalla DTL – art. 360 c.p.c.,
nn. 3 e 5 (mancata specifica contestazione da parte opposta di
quant’altro allegato con l’atto di opposizione, di modo che dovevano
ritenersi pacifiche le seguenti circostanze. I fatti esposti da parte
opponente a giustificazione della non imputabilità del contestato
inadempimento, e che l’opposta DTL aveva del tutto superficialmente
contestato come “argomenti di circostanza”, da ritenersi dunque pacifici
secondo i ricorrenti, riguardavano: modesta dimensione aziendale dei
punti vendita MIGROSS e necessaria intercambiabilità dei ruoli da parte
del personale dipendente impiegato; eliminazione barriere
architettoniche; mancato superamento dei colloqui dai soggetti
contattati; difficoltà logistica, all’epoca dei fatti, di inserimento
del personale; periodo di crisi generale e sensibile arresto economico
del mercato che aveva frenato qualsiasi opportunità di nuove assunzioni.
Di tali circostanze, ostative all’adempimento della convenzione,
non contestate ex adverso e determinanti, la Corte d’Appello non aveva
tenuto conto, sebbene da considerarsi pacificamente provate tra le
parti, unitamente alle ulteriori evidenze probatorie, a conferma
dell’assenza di qualsivoglia responsabilità della MIGROSS in relazione
all’illecito addebitato. Nè la Corte veneziana aveva considerato la
circostanza, documentale, del fatto che la scopertura contestata fosse
soltanto parziale, laddove tale elemento avrebbe dovuto essere valutato
in quanto rilevante alla luce della normativa, che imponeva la verifica
della colpevolezza, da dimostrarsi a cura dell’ente impositore, al fine
di considerare verificato l’illecito e applicabile la conseguente
sanzione. Nè la Corte di merito aveva considerato la stipula in data 14
aprile 2012 di una nuova convenzione di programma L. n. 68 del 1999, ex art. 11, comma 1);
pertanto, la considerazione, ai fini dell’insussistenza della
colpevolezza, della parzialità della scopertura e della generale
complessiva correttezza di MIGROSS nell’adempimento dei doveri di
copertura doveva comportare, in applicazione delle norme indicate, la
scusabilità del comportamento tenuto in buona fede dalla società, ossia,
nel contesto di crisi, cessare le assunzioni in questione che,
soprannumerarie, avrebbero determinato il licenziamento di altri
dipendenti, quindi ricorso alla cassa integrazione e / o alla mobilità,
ossia le stesse causali che nel quadro normativo di riferimento
consentivano l’esecuzione o la sospensione dell’obbligo di assunzione.
Nella specie, applicati correttamente gli oneri probatori, il collegio
giudicante avrebbe dovuto concludere nel senso che non vi erano prove
sufficienti a stabilire la responsabilità degli opponenti sotto il
duplice profilo dell’assenza dell’elemento soggettivo, necessario per
l’insorgenza di responsabilità, e della inesigibilità di comportamenti
ulteriori e diversi da quelli tenuti dagli opponenti, conformemente alla
convenzione con la Provincia di Verona in data 24 maggio 2004. La Corte
di merito avrebbe, di conseguenza, dovuto accogliere l’opposizione ai
sensi del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 6, comma 11;
tanto premesso, il ricorso va disatteso in base alle seguenti ragioni;
in primo luogo, parte opponente ha omesso di riportare in modo sufficiente, perciò in violazione dell’art. 366 c.p.c.,
comma 1, n. 6, l’accertamento ispettivo di cui alle successive opposte
ordinanze, accertamento sul quale decisioni dei giudici di merito, di
primo e secondo grado, hanno evidentemente fondato le loro decisioni.
Nemmeno risulta riprodotto il testo della convenzione di programma
stipulata il 24 maggio 2004, e parimenti dicasi per la corrispondenza
che si assume intercorsa dopo la diffida di ottobre 2007 (neanche questa
testualmente e per intero trascritta, sebbene ne sia stata contestata
l’interpretazione), laddove a tal riguardo parte ricorrente ha dedotto
di aver fatto tutto quanto possibile per poter rispettare la convenzione
ai fini della pattuita assunzione di disabili. Nè risultano
adeguatamente trascritte le difese svolte dalla opposta pubblica
amministrazione, da cui poter desumere le ammissioni e la pacificità
ipotizzate da parte ricorrente, le cui doglianze in questa sede, per
altro verso, vanno esaminate nei soli limiti in cui risultano
sintetizzati i motivi del gravame a suo tempo interposto, giusta le
lettere a) e b) a pag. 10 del ricorso (errato riparto degli oneri
probatori nel giudizio di opposizione a ordinanza ingiunzione in prime
cure – art. 2697 c.c. e D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 6, comma 4, ed errata applicazione della regola di giudizio di cui al D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 6,
comma 11, in relazione alla fattispecie della L. n. 68 del 1999, art.
15, comma 4, essendo dovere del giudice accogliere l’opposizione quando
non vi sono prove sufficienti della responsabilità dell’opponente, la
cui prova incombe sull’opposto, attore in senso sostanziale; erronea
configurazione, nell’ipotesi della L. n. 68 del 1999, art. 15,
comma 4, di in caso di responsabilità senza colpa, a prescindere
dall’imputabilità all’agente delle cause dell’illecito e della buona
fede pur invocata dagli opponenti anche in relazione alla condotta
omissiva, suscettibile di equivoci e di antitetico, legittimo
affidamento, della Provincia – assenza di colpa e di dolo in capo a
MIGROSS – sussistenza dell’esimente di buona fede, causa di esclusione
della responsabilità amministrativa);
non è consentito, infatti, anche nel giudizio di legittimità
esaminare e valutare questioni e circostanze diverse da quelle dedotte
nel precedente grado di merito, se non in quanto desumili da complete
allegazioni di parte ricorrente ai sensi del citato art. 366 c.p.c., comma 1, e dalla lettura dell’impugnata sentenza (v. da ultimo Cass. II civ. n. 2038 del 24/01/2019:
ove una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento
di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata,
il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità ha
l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per
novità della censura, non solo di allegarne l’avvenuta deduzione innanzi
al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio
precedente vi abbia provveduto, onde dare modo alla Corte di cassazione
di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di
esaminare nel merito la questione stessa. Conforme Cass. n. 20518 del 2008. In senso analogo v. altresì Cass. III civ. n. 14590 del 12/07/2005,
secondo cui nel giudizio di cassazione è preclusa alle parti la
prospettazione di nuove questioni che postulino indagini ed accertamenti
di fatto non compiuti dal giudice del merito, perchè allo stesso non
sollecitati. Ove una determinata questione che implichi un accertamento
di fatto non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il
ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità ha
l’onere di indicare in quale atto del giudizio di merito l’abbia
dedotta, così da permettere alla S.C. di controllare “ex actis” la
veridicità di tale asserzione, prima di ogni altro esame. In senso
conforme, tra le altre, Cass. nn. 6542, 6656 e 15950 del 2004);
va inoltre rilevata, comunque, ancora, l’inammissibilità di tutte
le censure nella specie formulate da parte ricorrente in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (indipendentemente anche dalla possibile preclusione, ex art. 348-ter c.p.c.,
per effetto di doppia conforme decisione di merito in punto di fatto,
visto che la sentenza di primo grado, risalente al 15.12.2015, quindi
impugnata con atto del 24.02.2016, è stata per intero confermata da
quella pronunciata in appello, oggetto di questo giudizio, mediante
rigetto del gravame. Cfr. sul punto anche Cass. I civ. n. 26774 del 22/12/2016: nell’ipotesi di “doppia conforme”, prevista dall’art. 348-ter c.p.c., comma 5, – applicabile, ai sensi del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 2, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012,
ai giudizi d’appello introdotti con ricorso depositato o con citazione
di cui sia stata richiesta la notificazione dal giorno 11 settembre
2012-, il ricorrente in cassazione – per evitare l’inammissibilità del
motivo di cui all’art. 360 c.p.c.,
n. 5 – nel testo riformulato dal D.L. n. 83 cit., art. 54, comma 3, ed
applicabile alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012 – deve
indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della
decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello,
dimostrando che esse sono tra loro diverse. Conforme, tra le altre, Cass. II civ. n. 5528 del 10/03/2014);
invero, alla luce di quanto accertato e deciso, nei sensi sopra
indicati, non risulta omesso l’esame di alcun fatto, rilevante e
decisivo, in base alla vigente attuale formulazione del succitato art.
360, n. 5, norma che ad ogni modo non consente il sindacato di
legittimità in ordine all’apprezzamento delle acquisite emergenze
istruttorie operato dai giudici di merito (cfr. Cass. II civ. n. 27415 del 29/10/2018: l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv. in L. n. 134 del 2012,
introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per
cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o
secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli
atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le
parti e abbia carattere decisivo; pertanto, l’omesso esame di elementi
istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto
decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato
comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non
abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.
Cfr. analogamente anche Cass. sez. un. Civ. nn. 8053 e 8054 del 2014, nonchè Cass. II civ. n. 14802 del 14/06/2017: l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012,
introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per
cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o
secondario, nel cui paradigma non è inquadrabile la censura concernente
la omessa valutazione di deduzioni difensive.
Cass. Sez. 6 – 3, n. 22598 del 25/09/2018: in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012,
non è più deducibile quale vizio di legittimità il semplice difetto di
sufficienza della motivazione, ma i provvedimenti giudiziari non si
sottraggono all’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 111 Cost., comma 6, e, nel processo civile, dall’art. 132 c.p.c.,
comma 2, n. 4. Tale obbligo è violato qualora la motivazione sia
totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto
inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni
della decisione e, in tal caso, si concreta una nullità processuale
deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.
Similmente Cass. III civ. n. 23940 del 12/10/2017: in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012,
non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di
contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di
merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla
motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del
“minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c.,
comma 2, n. 4, e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza
della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento
giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed
irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od
incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può
essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia
formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una
diversa soluzione della controversia. Inoltre, secondo Cass. n. 23940/2017, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c.,
opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile
in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle
predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio
di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile
nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 4, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato
attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e
dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012.
V. ancora Cass. Sez. 6 – 5, n. 11863 del 15/05/2018: la deduzione
avente ad oggetto la persuasività del ragionamento del giudice di merito
nella valutazione delle risultanze istruttorie attiene alla sufficienza
della motivazione ed è, pertanto, inammissibile ove trovi applicazione
l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione novellata dal D.L. n. 83 del 2012, conv., con modificazioni, nella L. n. 134 del 2012.
Cass. lav. n. 21439 del 21/10/2015:
nel giudizio di cassazione è precluso l’accertamento dei fatti ovvero
la loro valutazione a fini istruttori, tanto più a seguito della
modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, operata dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv. con modif. in L. n. 134 del 2012,
che consente il sindacato sulla motivazione limitatamente alla
rilevazione dell’omesso esame di un “fatto” decisivo e discusso dalle
parti.
Cass. Sez. 6 – 3, n. 12928 del 9/6/2014: in tema di ricorso per cassazione, dopo la modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) ad opera del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134,
la ricostruzione del fatto operata dai giudici di merito è sindacabile
in sede di legittimità soltanto quando la motivazione manchi del tutto,
ovvero sia affetta da vizi giuridici consistenti nell’essere stata essa
articolata su espressioni od argomenti tra loro manifestamente ed
immediatamente inconciliabili, oppure perplessi od obiettivamente
incomprensibili.
Cass. Sez. 6 – L, n. 2498 del 10/02/2015: l’omesso esame di
elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di
un fatto decisivo, censurabile ex art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 5, qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato
comunque preso in considerazione dal giudice di merito, ancorchè la
sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie, sicchè
il fatto storico non può identificarsi con il difettoso esame dei
parametri della liquidazione dell’indennità L. 4 novembre 2010, n. 183, ex art. 32, comma 5.
Cass. III civ. n. 11892 del 10/06/2016::
il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali
da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile
con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma
dell’art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 5 – che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto
storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo
della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di
discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio-,
nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite
dell’art. 132 c.p.c.,
n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta
in violazione di legge costituzionalmente rilevante. Conforme Cass. I civ. n. 23153 del 26/09/2018);
dall’inammissibilità, nella fattispecie in esame, di censure ex art. 360 c.p.c., n. 5, oltre che di denunzie ai sensi dell’art. 360 c.p.c.,
n. 3 circa pretese violazioni o false applicazioni di legge, però
ricostruendo i fatti diversamente da quanto accertato in sede di merito
dai giudici al riguardo esclusivamente competenti, deriva
l’impossibilità di valutare e di sindacare in questa sede quanto
difformemente in punto di fatto opinato dai ricorrenti circa le
contestate violazioni in ordine alla mancata copertura della prescritta
quota di appartenenti alle categorie di disabili, una volta decorsi i
sessanta giorni dal momento in cui era maturato l’obbligo
dell’assunzione di costoro, a causa dell’inosservanza, da parte
datoriale, dei termini e delle modalità previsti dall’apposita
convenzione stipulata il 24 maggio 2004, relativamente ai lavoratori e
ai periodi indicati come da verbale ispettivo in data 7 dicembre 2009,
per un totale di 4719 giornate lavorative di scopertura, violazione
ascrivibile alla società MIGROSS ed al suo legale rappresentante pro
tempore, per cui i giudici di merito non hanno ravvisato nemmeno
elementi utili da cui poter desumere scriminanti di sorta, peraltro
indimostrate nemmeno sotto il profilo soggettivo, avuto pure riguardo
alla diffida da parte della Provincia in data 18-10-2007, in relazione
alla quale, peraltro, a parte carenti allegazioni ex art. 366 c.p.c.,
n. 6 per difetto di esauriente e completa riproduzione dell’atto, non
si rilevano puntuali deduzioni circa specifici errori d’interpretazione ex art. 1362 c.c.
e ss.. Ne consegue che vale il motivato apprezzamento espresso in
proposito dai giudici di merito, non risultando quest’ultimo abnorme
ovvero del tutto implausibile, tanto più poi che anche in seguito alla
suddetta diffida comunque la stessa Provincia aveva avviato la procedura
di presentazione di altre candidature, perciò chiaramente nominative,
cui però la MIGROS non aveva dato alcun riscontro, a confutazione,
evidentemente, della tesi dell’affidamento sostenuta da parte
appellante, sicchè la Corte di merito ha ritenuto, pertanto, “acclarata
la volontà di non procedere agli inserimenti concordati dei lavoratori
disabili, disattendendo gli obblighi assunti. In definitiva non vi
possono essere dubbi sulla sussistenza degli illeciti contestati sia
sotto il profilo oggettivo che soggettivo” (cfr., del resto, tra le
altre, Cass. I civ. n. 640 del 14/01/2019, secondo cui le espressioni violazione o falsa applicazione di legge, di cui all’art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 3, descrivono i due momenti in cui si articola il giudizio
di diritto: a) quello concernente la ricerca e l’interpretazione della
norma ritenuta regolatrice del caso concreto; b) quello afferente
all’applicazione della norma stessa una volta correttamente individuata
ed interpretata. Il vizio di violazione di legge investe immediatamente
la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione
erronea della esistenza o inesistenza di una norma, ovvero
nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto
riguardo alla fattispecie in essa delineata; il vizio di falsa
applicazione di legge consiste, o nell’assumere la fattispecie concreta
giudicata sotto una norma che non le si addice, perchè la fattispecie
astratta da essa prevista – pur rettamente individuata e interpretata –
non è idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma, in relazione alla
fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur
corretta sua interpretazione. Non rientra, invece, nell’ambito
applicativo dell’art. 360 c.p.c.,
comma 1, n. 3, l’allegazione di un’erronea ricognizione della
fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, che è, invece,
esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica
valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di
legittimità. In senso analogo, Cass. I civ. n. 24155 del 13/10/2017, nonchè Cass. lav. n. 195 in data 11/01/2016);
le complessive argomentazioni svolte con la sentenza qui impugnata,
peraltro da leggersi anche ad integrazione di quelle contenute nella
pronuncia di primo grado, infatti confermata in appello, appaiono
indubbiamente congrue ed esaurienti, oltre che logiche e lineari nella
loro esplicazione, di guisa che sicuramente non possono dirsi inferiori
al c.d. minimo costituzionale occorrente a norma dell’art. 111 Cost. e art. 132 c.p.c., n. 4 (v. sul punto Cass. in part. Cass. 22598/18 cit.);
pertanto, alla stregua di quanto motivatamente ed insindacabilmente
accertato dai giudici di merito, del tutto corretto, anche in punto di
diritto, appare l’iter argomentativo seguito dai giudici di merito,
specialmente laddove è stata esclusa ogni indebita inversione dell’onere
probatorio circa il profilo soggettivo della contestata ed acclarata
violazione, tenuto soprattutto conto della formulazione della L. n. 689 del 1981, art. 3
(Nelle violazioni cui è applicabile una sanzione amministrativa
ciascuno è responsabile della propria azione od omissione, cosciente e
volontaria, sia essa dolosa o colposa. Nel caso in cui la violazione è
commessa per errore sul fatto, l’agente non è responsabile quando
l’errore non è determinato da sua colpa), alla luce della consolidata
giurisprudenza di legittimità formatasi sul punto, in tema di elemento
soggettivo, di guisa che, in materia di illecito amministrativo, la
buona fede dell’autore del medesimo può rilevare come causa di
esclusione della responsabilità amministrativa solo quando l’errore
sulla liceità del fatto risulti incolpevole, occorrendo a tal fine un
elemento positivo idoneo ad indurre un errore siffatto, non ovviabile
dall’interessato con l’ordinaria diligenza, restando escluso che la mera
tolleranza della p.a. costituisca un fatto idoneo a radicare la buona
fede dell’agente (Cass. I civ. n. 14107 del 23/09/2003, confermando inoltre quanto affermato in precedenza da questa Corte con la sentenza n. 7143 del 25/05/2001, secondo cui la L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 3
pone una presunzione “iuris tantum” di colpa in chi ponga in essere o
manchi di impedire un fatto vietato e rivesta una delle qualità che la
legge espressamente contempli come costitutive dell’obbligo di tenere un
comportamento diverso; ne consegue che è legittima l’irrogazione della
sanzione in assenza di deduzioni, da parte dell’opponente, atte a
superare detta presunzione mediante la dimostrazione della propria
estraneità al fatto o dell’impossibilità di evitarlo tramite un
diligente espletamento dei compiti connessi alla carica ricoperta). In
particolare, le Sezioni unite con la sentenza n. 10508 del 6/10/1995,
avevano già chiarito che il principio posto dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 3
secondo cui per le violazioni colpite da sanzione amministrativa è
richiesta la coscienza e volontà della condotta attiva o omissiva sia
essa dolosa o colposa, deve essere inteso nel senso della sufficienza
dei suddetti estremi, senza che occorra la concreta dimostrazione del
dolo o della colpa, atteso che la norma pone una presunzione di colpa in
ordine al fatto vietato a carico di colui che lo abbia commesso,
riservando poi a questi l’onere di provare di aver agito senza colpa (v.
ancora Cass. II civ. n. 1781 del 28/01/2008, secondo cui l’esimente della buona fede, prevista dalla L. n. 689 del 1981, art. 3
non trova applicazione quando l’affidamento relativo alla liceità della
condotta, dipende dalla concomitanza di una pluralità di fattori, tra i
quali l’imprudente comportamento dell’autore della violazione. Cfr.
altresì Cass. II civ. n. 726 del 16/01/2008: non sussiste l’esimente della buona fede come causa di esclusione della responsabilità, ai sensi della L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 3,
comma 2, ove sia esclusa la sussistenza di atti positivi
dell’Amministrazione competente a concedere l’autorizzazione, volti a
creare un ragionevole affidamento sulla legittimità della condotta
contestata.
V. parimenti Cass. II civ. n. 20219 del 31/07/2018: l’esimente della buona fede, applicabile anche all’illecito amministrativo disciplinato dalla L. n. 689 del 1981,
rileva come causa di esclusione della responsabilità amministrativa –
al pari di quanto avviene per quella penale in materia di
contravvenzioni – solo quando sussistano elementi positivi idonei ad
ingenerare nell’autore della violazione il convincimento della liceità
della sua condotta e risulti che il trasgressore abbia fatto tutto il
possibile per conformarsi al precetto di legge, onde nessun rimprovero
possa essergli mosso.
In senso conforme Cass. II civ. n. 13610 in data 11/06/2007, secondo cui, in particolare, ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 3
per le violazioni colpite da sanzione amministrativa è necessaria e al
tempo stesso sufficiente la coscienza e volontà della condotta attiva o
omissiva, senza che occorra la concreta dimostrazione del dolo o della
colpa, giacchè la norma pone una presunzione di colpa in ordine al fatto
vietato a carico di colui che lo abbia commesso, riservando poi a
questi l’onere di provare di aver agito senza colpa.
V. pure Cass. II civ. n. 720 del 15/01/2018: la sufficienza, al fine d’integrare l’elemento soggettivo della violazione, della semplice colpa L. n. 689 del 1981, ex art. 3
comporta che, al fine di escludere la responsabilità dell’autore
dell’infrazione, non basta uno stato di ignoranza circa la sussistenza
dei relativi presupposti, ma occorre che tale ignoranza sia incolpevole,
cioè non superabile dall’interessato con l’uso dell’ordinaria
diligenza.
Id. n. 2956 del 16/02/2016:
in tema di sanzioni amministrative, la valutazione circa l’offensività,
in concreto, del comportamento del trasgressore non rileva, salva la
sua sussumibilità nell’esimente della buona fede, quale causa di
esclusione della responsabilità, giacchè l’idoneità della condotta a
realizzare l’effetto vietato è stata valutata “ex ante” dal legislatore
con la previsione della norma sanzionatoria.
Inoltre, secondo Cass. V civ. n. 23019 del 30/10/2009,
in tema di sanzioni amministrative, l’onere della prova degli elementi
positivi che riscontrano l’esistenza della buona fede è a carico
dell’opponente e la relativa valutazione costituisce un apprezzamento di
fatto di stretta competenza del giudice di merito, non sindacabile in
sede di legittimità se non sotto il profilo del vizio di motivazione.
Parimenti, secondo Cass. lav. n. 911 del 2/2/1996, poichè ai sensi della L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 3
per integrare l’elemento soggettivo delle violazioni cui è applicabile
una sanzione amministrativa è sufficiente la semplice colpa, l’errore
sulla liceità del fatto – anche derivante da una situazione di
psicologica ignoranza del precetto, secondo il principio enunciato in
materia penale dalla sentenza costituzionale n. 363 del 1988 –
comunemente indicato come buona fede, può rilevare come causa di
esclusione della responsabilità – al pari di quanto avviene per la
responsabilità penale in materia di contravvenzioni – soltanto quando
risulti incolpevole e cioè non superabile con l’uso dell’ordinaria
diligenza, rientrando il relativo accertamento nei poteri del giudice di
merito, salvo il controllo in sede di legittimità sotto l’aspetto del
vizio logico o giuridico di motivazione. Conformi Cass. nn. 8180 del 1992, 3693 del 1994 e n. 1873 del 1995); del tutto inconferente, inoltre, appare l’asserita violazione del D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, art. 6
(in vigore dal 6-10-2011) in materia di opposizione ad
ordinanza-ingiunzione, laddove al comma 11 è stabilito che il giudice
accoglie l’opposizione quando non vi sono prove sufficienti della
responsabilità dell’opponente, visto che espressamente la Corte di
merito ha escluso dubbi sulla sussistenza degli illeciti contestati, sia
sotto il profilo oggettivo che soggettivo, perciò ritenendo accertata
la sanzionata inadempienza, giudizio questo che, alla stregua di quanto
già in precedenza chiarito, risulta assolutamente incensurabile in
questa sede di legittimità, sicchè si appalesano irrilevanti le diverse
opinioni sul punto espresse da parte ricorrente (in proposito, per
completezza va anche chiarito come parte ricorrente equivochi il
significato delle parole cause imputabili adoperate nella formulazione
della L. n. 68 del 1999, art. 15,
comma 4, – “Trascorsi sessanta giorni dalla data in cui sorge l’obbligo
di assumere soggetti appartenenti alle categorie di cui all’art. 1, per
ogni giorno lavorativo durante il quale risulti non coperta, per cause
imputabili al datore di lavoro, la quota dell’obbligo di cui all’art. 3,
il datore di lavoro è tenuto al versamento, a titolo di sanzione
amministrativa, al fondo di cui all’art. 14, di una somma pari a lire
100.000 al giorno per ciascun lavoratore disabile che risulta non
occupato nella medesima giornata”-, in quanto la suddetta locuzione
attiene chiaramente all’elemento oggettivo, ossia alla condotta
ascrivibile al datore di lavoro, da cui derivi la mancata copertura
della quota d’obbligo, perciò a prescindere dall’elemento soggettivo –
dolo o colpa -, la cui disciplina agli effetti sanzionatori resta
comunque diversamente regolata dalla L. n. 689 del 1981, art. 3 mentre l’imputabilità in senso tecnico concerne la capacità d’intendere e di volere – art. 85 c.p.
-, coscienza e volontarietà anch’esse, come sopra visto, contemplate
come presupposti indefettibili dal cit. art. 3, indifferentemente con
dolo o colpa – v. parimenti l’art. 42 c.p.,
u.c.: “Nelle contravvenzioni ciascuno risponde della propria azione od
omissione cosciente e volontaria sia essa dolosa o colposa”);
infondate, pertanto, appaiono anche le censure circa l’asserita errata applicazione della L. n. 68 del 1999,
nei limiti di ammissibilità di cui si è detto in precedenza in
relazione agli anzidetti motivi di appello, laddove la Corte
territoriale ha pure correttamente chiarito come nella specie non poteva
ammettersi la facoltatività della chiamata nominativa, possibile
soltanto per i datori non aderenti alle convenzioni di cui alla L. n. 68 del 1999, art. 11;
di conseguenza, nemmeno appare giustificato il sospetto
d’incostituzionalità, per violazione del principio di uguaglianza,
adombrato da parte ricorrente, trattandosi di valutazione discrezionale e
non irragionevole, nè irrazionale, compiuta dal legislatore nell’ambito
delle sue precipue competenze, nel cui contesto normativo, inoltre,
parte datoriale ha scelto di obbligarsi aderendo ad apposita
convenzione, con i relativi conseguenti effetti;
dunque, il ricorso va respinto, ma nonostante la soccombenza, deve
pure rilevarsi l’improcedibilità del controricorso, di guisa che nulla
va liquidato a favore dell'”Ispettorato Nazionale del Lavoro di Verona”,
poichè la notifica risulta tardivamente attivata e comunque giammai
perfezionata (infatti all’esito dell’ordine di rinnovazione del ricorso –
che non era stato notificato presso l’Avvocatura generale dello Stato,
ma presso quella distrettuale in Venezia- disposta con il provvedimento
in data 16.10.2017 ed eseguito da parte ricorrente il 26.10.2017 – data
quest’ultima testualmente indicata nell’intestazione del controricorso –
l’intimata amministrazione ha provveduto a notificare il controricorso
come da relata con spedizione postale in data sei dicembre 2017 –
mercoledì, giorno feriale – perciò al 41 giorno, quindi oltre il termine
previsto dall’art. 370 c.p.c..
Per giunta, detta notifica non risulta perfezionata, non essendo stato
depositato l’avviso di ricevimento pervenuto al destinatario della
raccomandata spedita il 6.12.2017, come pure sul punto espressamente
eccepito da parte ricorrente nell’anzidetta memoria illustrativa,
depositata in vista dell’adunanza fissata per il sei marzo 2019, laddove
in particolare è stato dedotto che l’atto difensivo avversario non è
mai pervenuto alla ricorrente presso il domicilio eletto, nè mai
ricevuto altrove – cfr. al riguardo da ultimo anche Cass. V civ. n. 21105 del 24/08/2018,
secondo cui, in tema di condanna alle spese nel giudizio di
legittimità, il controricorso inammissibile non può essere posto a
carico del ricorrente soccombente nel computo dell’onorario di difesa da
rimborsare alla parte resistente, poichè in tale ipotesi detta condanna
deve limitarsi all’attività successiva eventualmente svolta, che, nel
procedimento in camera di consiglio dinanzi alla sezione ordinaria,
previsto dal D.L. n. 168 del 2016, conv., con modif., dalla L. n. 197 del 2016,
è limitato alla redazione della memoria scritta ex art. 380 bis c.p.c.,
comma 1, ossia all’unica attività difensiva consentita in detto
procedimento, da ritenersi equiparata alla – o sostitutiva della –
discussione in pubblica udienza. Nel caso qui in esame, ad ogni modo, la
suddetta memoria scritta è stata depositata dalla sola parte
ricorrente, nonostante i rituali e tempestivi avvisi di rito a tutti gli
aventi diritto);
atteso, per altro verso, l’esito negativo dell’impugnazione, sussistono i presupposti processuali di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
la Corte RIGETTA il ricorso. NULLA per le spese. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali
per il versamento, da parte ricorrente dell’ulteriore importo a titolo
di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma
dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 6 marzo 2019.
Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2019