Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28286 del 04/11/2019
Cassazione civile sez. lav., 04/11/2019, (ud. 06/03/2019, dep. 04/11/2019), n.28286
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRIA Lucia – Presidente –
Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –
Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –
Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –
Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 3397/2015 proposto da:
FLORGARDEN S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore,
P.V., in proprio e quale legale rappresentante della
FLORGARDEN S.R.L., domiciliati ope legis presso la Cancelleria della
Corte di Cassazione, rappresentati e difesi dall’Avvocato VITTORIO
PERRIA;
– ricorrenti –
contro
MINISTERO LAVORO POLITICHE SOCIALI DIREZIONE TERRITORIALE LAVORO
SASSARI, in persona del legale rappresentante pro tempore
domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso L’AVVOCATURA
GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 922/2013 del TRIBUNALE di SASSARI, depositata
il 07/06/2013 R.G.N. 3977/2011;
avverso l’ordinanza n. 37/2014 della CORTE di APPELLO di CAGLIARI –
SEZIONE DISTACCATA di SASSARI, depositata il 9/06/2014 R.G.N.
37/2014.
LA CORTE, visti gli atti e sentito il Consigliere relatore.
Fatto
RILEVA
che la Corte d’Appello di Cagliari – sezione distaccata di Sassari – con ordinanza in data 6 – 9 giugno 2014 ai sensi degli artt. 348 bis e 348 ter c.p.c.,
dichiarava inammissibile l’appello proposto da FLORGARDEN s.r.l. e da
P.V. avverso la sentenza n. 922 pubblicata il 7 giugno 2013, con
la quale era stata respinta dal locale giudice del lavoro l’opposizione
contro l’ordinanza – ingiunzione n. 510 dell’11 ottobre 2011,
notificata il successivo giorno 17, proposta dagli stessi come da atto
depositato il 15 novembre 2011, nei confronti della Direzione
Provinciale del Lavoro di Sassari;
avverso detta sentenza, unitamente all’anzidetta
declaratoria di inammissibilità, non notificata, hanno proposto ricorso
per cassazione FLORGARDEN S.r.l. e la sig.ra P.V., come da atto
in data 22 gennaio 2015, affidato a due motivi, cui ha resistito il
Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali – DIREZIONE TERRITORIALE
del LAVORO di Sassari (già Direzione Provinciale del Lavoro) mediante
controricorso del 10 marzo 2015 (notificato presso la cancelleria di
questa Corte, domicilio eletto nel anzidetto ricorso, come indicato
anche nella relativa procura speciale in calce allo stesso, laddove si
dichiarava peraltro di voler ricevere le comunicazioni di rito
all’indirizzo p.e.c. ivi indicato);
comunicati tempestivi avvisi di rito, il Pubblico
Ministero in sede non ha presentato requisitoria con le sue conclusioni e
le parti non hanno depositato memorie illustrative.
Diritto
CONSIDERATO
che:
con il primo motivo parte ricorrente ha denunciato la violazione degli artt. 24 e 111 Cost., in relazione al diritto di difesa e al giusto processo, nonchè al contraddittorio; violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112,115,116 e 246 c.p.c., nonchè art. 2697 c.c.
– motivazione contraddittoria e/o gravemente insufficiente – violazione
dei principi giurisprudenziali affermati da questa Corte;
al riguardo si è sostenuto che i giudici di appello, in buona
sostanza, avrebbero considerato corretta la sentenza impugnata nella
parte in cui aveva ritenuto fondato l’accertamento sulla sola ed
esclusiva base del verbale ispettivo e delle sole dichiarazioni rese
dagli informatori agli ispettori, “per giunta, neppure esplicitamente
indicate nel verbale: tutti atti e documenti mai confermati in
tribunale, nè dagli ispettori, nè da coloro che erano stati assunti a
sommarie informazioni”. Ciò aveva comportato una gravissima lesione al
proprio diritto di difesa, sia in primo che in secondo grado, poichè
giudicanti avevano fatto strame dei principi regolatori del processo e
dei relativi oneri probatori, spettanti questi ultimi alla pubblica
amministrazione. Peraltro, l’efficacia fidefaciente ex art. 2700 c.p.c.,
riguardava soltanto la provenienza del sottoscrittore e le
dichiarazioni a lui rese dagli altri e i fatti attestati come avvenuti
in sua presenza o da lui compiuti, efficacia probatoria privilegiata
perciò non inerente ai verbali circa l’intrinseca veridicità delle
dichiarazioni raccolte dal pubblico ufficiale durante la propria
ispezione, le quali, secondo parte ricorrente, per poter rilevare a fini
probatori dovevano essere confermate in giudizio dalle persone che le
avevano rese, non essendo sufficienti le dichiarazioni invocate nel
verbale redatto dal pubblico ufficiale. In sostanza, secondo parte
ricorrente, riguardo alle ulteriori circostanze di fatto che il pubblico
ufficiale segnali di avere accertato per averle apprese de relato o in
seguito ad ispezioni documenti, la legge non attribuisce al verbale
alcun valore probatorio precostituito, neppure di presunzione semplice.
Pertanto, dal momento che le dichiarazioni degli informatori e i loro
nominativi non erano indicati nei verbali e in ogni caso neppure erano
in alcun modo ascrivibili a circostanze direttamente apprese dei
pubblici ufficiali nel corso dell’operazione di ispezione, bensì a fatti
precedenti meramente riferiti da soggetti presenti in loco, sia il
Tribunale che la Corte d’Appello avevano chiaramente errato
nell’interpretare la giurisprudenza di legittimità dagli stessi
richiamata, finendo per fare il contrario di quello che il precedente
giurisprudenziale citato vietava, cioè attribuire fede privilegiata
all’intrinseca veridicità delle dichiarazioni rese agli ispettori.
L’asserita attendibilità privilegiata delle dichiarazioni rese dai
lavoratori in occasione dell’ispezione era stata l’unico elemento
invocato dai giudici aditi a sostegno delle proprie decisioni, dal
momento che non esistevano altri elementi di prova che potessero
corroborarne l’attendibilità. Peraltro, l’esigenza di istruzione della
controversia emergeva anche dai documenti prodotti da parte opponente,
dai quali si evinceva che il sig. C. non era un dipendente della
società, ma che egli collaborava con la moglie, la quale a sua volta
svolgeva attività di lavoro autonomo per la stessa opponente FLORGARDEN.
Ciò che integrava quantomeno indizi circa la diversa natura dei
rapporti giuridici tra la società, il C. e la M., tanto più che
l’illecito avrebbe dovuto essere attribuito a quest’ultima, la quale era
la reale fruitrice delle prestazioni lavorative rese dal marito “in
nero” (“con buona pace dell’asserita attendibilità dei due coniugi
“disinteressati””). Lo stesso Ministero si era offerto di provare la
fondatezza dell’ordinanza ingiunzione opposta e del verbale ispettivo
con le opportune allegazioni istruttorie, sicchè l’attendibilità delle
dichiarazioni supinamente attestata dai giudici di merito andava
debitamente compiutamente e valutata a seguito dell’assunzione delle
prove testimoniali dedotte dalle parti o quantomeno in base ai documenti
all’uopo prodotti. Nè occorreva una querela di falso, posto che il
verbale, come già ricordato, non faceva piena prova circa le
dichiarazioni ivi assunte, appunto fino a querela di falso.
Per altro verso, la Corte territoriale si era limitata a dichiarare
che la ricchezza di precisazioni e la conformità delle risposte
escludeva che i denuncianti fossero testi inattendibili o comunque
interessati ai sensi dell’art. 246 c.p.c..
Tuttavia, il fatto che tra gli informatori figurassero anche gli stessi
C. e M., chiaramente interessati alla condanna della società
opponente, nonchè altri lavoratori in causa con la stessa rendeva
chiaramente manifesta l’estrema fragilità di quelle dichiarazioni, che
invece la Corte d’Appello aveva ritenuto dotate di rilevante
attendibilità e credibilità. A tal proposito parte ricorrente ha
richiamato alcune pronunce di questa Corte, tra le quali la n. 10545 del
9 maggio 2007 e la n. 12739 del 29 maggio 2006.
Pertanto, era stato gravemente leso il diritto di difesa di essi
opponenti, laddove era stato in particolare del tutto omesso di prendere
in considerazione il principio fondamentale in forza del quale le prove
devono essere assunte durante il processo nel contraddittorio tra le
parti con le garanzie derivanti dalla direzione del procedimento davanti
al giudice.
Quanto, poi, alla rilevata omissione di specifica censura in ordine
alla mancata ammissione della prova orale richiesta in primo grado,
parte ricorrente ha ribadito che gli oneri probatori circa la fondatezza
dell’ordinanza ingiunzione gravavano sul Ministero, che in sede di note
conclusionali aveva omesso la riproposizione delle richieste
istruttorie formulate con la sua memoria difensiva, con conseguente
rinuncia alle stesse.
Tutto ciò considerato, era evidente la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè dei principi fondamentali del giusto processo espressi dalla Costituzione;
con il secondo motivo parte ricorrente ha dedotto violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2094 c.c., nonchè degli artt. 115 e 116 c.c.
(? c.p.c. ?), in relazione alla L. 23 aprile 2002, n. 73, art. 3, comma
3 e successive modifiche ed integrazioni. Infatti, il giudice di primo
grado aveva omesso ogni concreta motivazione circa la sussistenza dei
requisiti caratteristici della subordinazione del rapporto di lavoro al
fine dell’applicazione delle sanzioni contestate. In particolare,
l’asserita continuità del rapporto con l’inserimento nell’organizzazione
aziendale, l’osservanza di un orario fisso predeterminato da
rispettare, la retribuzione fissa predeterminata con difetto di ogni
rischio di impresa nonchè l’asserita sottoposizione alle direttive di
Ca.Fr. e Vi. concretizzavano affermazioni rimaste prive di
qualunque riscontro probatorio, tra cui anche le dichiarazioni
acquisite dagli ispettori;
tanto premesso, va in primo luogo ricordato come il giudice adito
-rilevato in via preliminare che nell’ambito del procedimento di
opposizione avverso l’ordinanza ingiunzione parte attrice in senso
sostanziale deve ritenersi quella opposta cui per l’effetto è devoluto
l’onere probatorio ex art. 2697 c.c.,
secondo la citata giurisprudenza, mentre compete all’opponente, che
assume formalmente la veste di parte convenuta, la prova dei fatti
impeditivi ed estintivi – avesse osservato che nel caso di specie a
sostegno dei fatti contestati con l’ordinanza impugnata
l’amministrazione resistente aveva prodotto, tra le altre, le
dichiarazioni rese in sede ispettiva da A.R. e da
F.V.. Costoro avevano confermato che C.G. e M.S.
avevano lavorato alle dipendenze della società FLOGARDEN fin dal 2007,
mentre parte ricorrente aveva contestato che il C. avesse prestato la
sua attività di lavoro in nero presso Garden Center FLORGARDEN s.r.l.,
opponente, dal 24 aprile 2007 al 4 settembre 2008 come commesso addetto
alla vendita, laddove in effetti costui non aveva mai prestato attività
di lavoro alle dipendenze della società prima del settembre dell’anno
2008. Il primo giudicante aveva evidenziato come A.R. avesse
dichiarato ai verbalizzanti, in data 28 marzo 2011, che C.G. e
M.S. prestavano la loro attività professionale di maestri
fiorai per la Florgarden sin dal 2007, a tempo pieno e per l’intero
orario di apertura al pubblico, allo stesso modo di altri colleghi, dal
lunedì al sabato e a turno pure la domenica, essendo stati addetti alla
vendita e al confezionamento dei fiori, nonchè alla cassa e alla
predisposizione di preventivi per i matrimoni. Inoltre, nel 2009, anno
in cui i dipendenti, tra i quali pure il C. e la M., con
contratto full time erano stati costretti a passare al part-time, di
fatto avevano continuato a lavorare con lo stesso orario a tempo pieno
in precedenza osservato. Tali fatti erano stati confermati anche con le
dichiarazioni rese il 29 marzo 2011 da F.V.. Lo stesso
C.G. il 18 gennaio 2011 aveva dichiarato di aver lavorato presso il
Garden Center di Florgarden sito in (OMISSIS) dal 27 aprile 2007 al 30
settembre 2009, precisando che dall’aprile 2007 sino al 4 ottobre 2008
aveva lavorato per l’anzidetta società in nero, mentre dall’ottobre 2008
era stato assunto con contratto a tempo pieno, laddove poi dal mese di
aprile 2009 la società aveva modificato il contratto da tempo pieno a
tempo parziale, ma che egli di fatto aveva continuato a lavorare a tempo
pieno e a percepire la retribuzione corrispostagli in precedenza, con
la parte eccedente il part-time in contanti e fuoribusta, unitamente
alla sua compagna M.. Parimenti, M.S. in data 18
gennaio 2011 aveva dichiarato di aver lavorato presso il Garden Center
denominato Florgarden s.r.l. ai primi di marzo dell’anno 2007 sino al 30
settembre 2009, precisando che da marzo 2007 al dicembre 2008 aveva
operato per la suddetta società come lavoratrice autonoma con partita
i.v.a., mentre a dicembre 2008 era stata assunta come dipendente a tempo
pieno e indeterminato, lavorando tutti i giorni dal lunedì alla
domenica secondo gli orari indicati e con un giorno di riposo
settimanale non necessariamente ricadente nella domenica. Da aprile 2009
la società aveva poi modificato il contratto da tempo pieno a tempo
parziale, ma che di fatto aveva continuato a lavorare con gli stessi
orari full time percependo la medesima retribuzione, ma con la parte
eccedente il part-time fuoribusta in contanti. Secondo il giudice di
primo grado, pertanto, le dichiarazioni spontanee rese dai lavoratori
agli ispettori nel corso degli accertamenti, come da allegati in atti,
avevano dato pieno riscontro la tesi sostenuta la parte opposta circa la
sussistenza del rapporto di lavoro subordinato tra il C.G. e la
Florgarden Srl. Nella valutazione complessiva degli acquisiti elementi
non poteva prescindersi dalle anzidette dichiarazioni, anche se poi i
lavoratori non erano stati escussi come testi in udienza. Richiamava la
giurisprudenza (Cass. sezioni unite n. 12545 del 1992),
secondo cui l’efficacia probatoria delle dichiarazioni acquisite nel
corso dell’accertamento ispettivo faceva fede fino a querela di falso
per le attività che il pubblico ufficiale dichiarava di aver compiuto o
che erano state compiute in sua presenza, ovvero delle dichiarazioni al
medesimo rese in sede di accertamento. Tale efficacia probatoria
privilegiata, tuttavia, non assisteva l’intrinseca veridicità delle
dichiarazioni raccolte dal pubblico ufficiale, le quali però erano da
considerare in assoluto dotate di un grado di attendibilità
privilegiata, perchè rese senza preavviso e perciò più genuine e
sincere, in quanto non inquinate dalla volontà di favorire il proprio
datore di lavoro. Detta attendibilità privilegiata, inoltre, era da
considerare ulteriormente rafforzata in presenza di dichiarazioni
contenenti una serie di precisazioni e puntualizzazioni in ordine ai
tempi e alle modalità con le quali l’attività lavorativa risultava in
concreto svolta, le quali non potevano che confortare tale valutazione.
Pertanto, secondo il Tribunale, erano perfettamente ravvisabili nei
rapporti di lavoro concernenti C.G. e M.S. gli
elementi presuntivi della subordinazione: continuità del rapporto e
inserimento nell’organizzazione aziendale, orario di lavoro fisso e
predeterminato da rispettare con l’obbligo di chiedere l’autorizzazione
per eventuali assenze, retribuzione fissa predeterminata evidenziante la
mancanza di un rischio d’impresa, la sottoposizione alle direttive di
Ca.Fr. e Vi.. Quindi, l’opponente doveva ritenersi tenuta
a provvedere, nel corso dei rapporti di lavoro oggetto di
contestazione, agli obblighi di cui al D.L. n. 12 del 2002, art. 3, comma 3, convertito in L. n. 73 dello stesso anno, come modificato dal D.L. n. 223 del 2006, art. 36 bis, comma 7, convertito con modifiche in L. n. 248 del 2006, D.L. n. 510 del 1996, art. 9 bis, comma 2, convertito con modificazioni nella L. n. 608 del 1996, come modificato dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, nonchè al D.Lgs. n. 181 del 2000, art. 4 bis, comma 2, come sostituito dal D.Lgs. n. 297 del 2002, art. 6, comma 1. Pertanto, la sanzione pecuniaria comminata era da considerarsi legittima;
la Corte d’Appello, quindi, nel confermare l’anzidetta pronuncia
mediante declaratoria di inammissibilità dell’interposto gravame, ha
osservato che l’impugnazione non aveva ragionevole probabilità di essere
accolta, visto che con un unico articolato motivo parte appellante si
era doluta dell’efficacia probatoria attribuita dal tribunale alle
dichiarazioni rese agli ispettori, i cui verbali erano stati prodotti in
giudizio, trattandosi di dichiarazioni scritte provenienti da terzi,
raccolte da pubblici ufficiali e come tali assistiti dall’efficacia di
cui all’art. 2700 c.p.c., quanto alla circostanza della loro
effettuazione, richiamando inoltre Cass. lav. 17 agosto 2004 n. 16055, nonchè 6 settembre 2012n. 14965,
secondo la quale il rapporto ispettivo dei funzionari dell’ente
previdenziale, pur non facendo piena prova fino a querela di falso, è
attendibile fino a prova contraria, quando esprime gli elementi da cui
trae origine, in particolare mediante allegazione delle dichiarazioni
rese da terzi, restando comunque liberamente valutabile dal giudice in
concorso con altri elementi probatori. Nello stesso senso, si era
pronunciata Cass. 8 gennaio 2014 n. 166.
Dunque, il percorso motivazionale osservato dal primo giudicante era
conforme ai principi di diritto espressi dalla giurisprudenza di
legittimità nella parte in cui aveva utilizzato a fini probatori
dichiarazioni rilasciate dalle persone informate sui fatti di causa agli
ispettori di lavoro in sede di accertamento, rilevando che – per quanto
i relativi verbali non potessero considerarsi assistiti da fede
privilegiata in ordine alla loro intrinseca veridicità – dette
dichiarazioni erano comunque dotate di una rilevante attendibilità,
perchè rese nell’immediatezza dell’ispezione. La loro credibilità non
andava, infatti, confusa con la fede privilegiata sino a querela di
falso dei fatti che il pubblico ufficiale attesta essere avvenuti in sua
presenza, valore questo che il tribunale non aveva attribuito affatto
alle dichiarazioni degli informatori, citandosi sul punto Cass. 19 aprile 2010 n. 9251, parimenti 6 giugno 2008n. 15073.
Quanto, poi, all’attendibilità dei soggetti assunti a verbale dagli
ispettori, la ricchezza di precisazioni e la conformità delle risposte
escludeva che i denuncianti C. – M. fossero inattendibili o
comunque interessati ai sensi dell’art. 246 c.p.c., citandosi sul punto Cass. 8 febbraio 2011 n. 3051,
circa l’esclusa incapacità a testimoniare che l’art. 246 codice di rito
ricollega non solo alla posizione di parte formale e sostanziale del
giudizio, ma anche alla titolarità di situazione giuridica dipendente da
quella dedotta in giudizio da altro soggetto, nell’ambito del giudizio
tra ente previdenziale e parte datoriale. Infine, la Corte territoriale
ha osservato che gli appellanti non avevano proposto alcuna specifica
censura in ordine alla mancata ammissione della prova orale dagli stessi
dedotta in primo grado, nè avevano interesse a dolersi della mancata
ammissione della prova testimoniale richiesta da controparte;
tanto premesso, il ricorso è inammissibile per tardività, a parte poi taluni difetti di autosufficienza e di specificità ex art. 366 c.p.c., nonchè carenza di doglianze censurabili in questa sede di legittimità ex art. 360 c.p.c.;
invero, parte ricorrente ha omesso di far presente se, come e
quando le sia stata comunicata l’anzidetta ordinanza n. 37 in data sei –
nove giugno 2014 della Corte d’Appello, pronunciata ai sensi degli artt. 348 bis e ter c.p.c.,
essendosi limitata a dedurre l’omessa notificazione del provvedimento,
avendo però chiesto la notifica del ricorso per cassazione in data 22
gennaio 2015, cioè ben oltre il termine di giorni sessanta, pur
computando la sospensione feriale (secondo il testo della L. n. 742 del 1969, art. 1,
qui ratione temporis applicabile) dal primo agosto al 15 settembre
dell’anno 2014 (infatti, sommando 21 giorni di giugno, 31 di luglio e 8
di settembre, questi ultimi dal 16 incluso, il 60 giorno andava a
scadere martedì 23 settembre 2014, ultimo giorno feriale utile);
tale rilevante omessa allegazione rende pertanto il ricorso inammissibile (cfr. Cass. III civ. n. 20852 del 21/08/2018), poichè la parte che intenda esercitare il diritto di ricorrere in cassazione ex art. 348 ter c.p.c., comma 3, deve rispettare il termine di sessanta giorni, di cui all’art. 325 c.p.c.,
comma 2, che decorre dalla comunicazione dell’ordinanza, ovvero dalla
sua notificazione, nel caso in cui la controparte vi abbia provveduto
prima della detta comunicazione o se la cancelleria abbia del tutto
omesso tale adempimento, mentre il termine lungo di cui all’art. 327 c.p.c.,
opera esclusivamente quando risulti non solo omessa la comunicazione,
ma anche la notificazione. Ne consegue che il ricorrente, per dimostrare
la tempestività del ricorso ex art. 348 ter c.p.c.,
proposto oltre i sessanta giorni dalla pubblicazione dell’ordinanza, ha
l’onere di allegare sia l’assenza di comunicazione (potendo
quest’ultima avvenire lo stesso giorno della pubblicazione), sia la
mancata notificazione, affermando, pertanto, di fruire del c.d. termine
lungo (in senso conforme, tra le altre, Cass. VI civ. – 3, ordinanza n. 2594 del 9/2/2016);
l’anzidetta rilevata tardività è assorbente rispetto anche alle
menzionate ulteriori lacune, che rendono anch’esse inammissibili il
ricorso, laddove peraltro la succitata seconda censura appare anche
nuova rispetto alle doglianze fatte valere (cfr. pagg. da 7 a 11 del
ricorso per cassazione) a suo tempo con l’interposto gravame (peraltro
infondate alla stregua di quanto, correttamente e motivatamente,
apprezzato e statuito dai giudici di merito in precedenza aditi. Cfr. a
tal riguardo, in part., Cass. lav. n. 16055 del 17/08/2004:
ai fini di accertare l’intervenuta violazione, da parte del datore di
lavoro, degli obblighi di comunicazione agli uffici di collocamento
degli eventi relativi alla costituzione e alla cessazione dei rapporti
di lavoro, possono essere utilizzate con valore indiziario le
dichiarazioni scritte provenienti da terzi, specie se raccolte da
pubblici ufficiali e come tali assistite dall’efficacia di cui all’art. 2700 c.c.,
quanto alla circostanza della loro effettuazione, come pure valore
quanto meno indiziario hanno le risultanze dei verbali ispettivi redatti
dagli ispettori del lavoro o dai funzionari degli enti previdenziali.
V. altresì Cass. sez. un. civ. n. 916 del 3/2/1996,
secondo cui i verbali redatti dagli ispettori del lavoro, o comunque
dai funzionari degli enti previdenziali, fanno fede fino a querela di
falso, ai sensi dell’art. 2700 c.c.,
solo relativamente alla loro provenienza dal sottoscrittore, alle
dichiarazioni a lui rese ed agli altri fatti che egli attesti come
avvenuti in sua presenza o da lui compiuti, mentre, per quanto riguarda
le altre circostanze di fatto che egli segnali di avere accertato nel
corso dell’inchiesta per averle apprese da terzi o in seguito ad altre
indagini, i verbali, per la loro natura di atto pubblico, hanno
un’attendibilità che può essere infirmata solo da una specifica prova
contraria. Conforme Cass. n. 7095 del 1994. Cfr., inoltre, Cass. lav. n. 14965 del 6/9/2012,
secondo cui, in particolare, il rapporto ispettivo dei funzionari
dell’ente previdenziale, pur non facendo piena prova fino a querela di
falso, è attendibile fino a prova contraria, quando esprime gli elementi
da cui trae origine, restando, comunque, liberamente valutabile dal
giudice in concorso con gli altri elementi probatori. In senso analogo Cass. lav. n. 9251 del 19/04/2010. Parimenti, Cass. n. 15073 del 6/6/2008, conforme Cass. lav. n. 3525 del 22/02/2005. V. altresì Cass. lav. n. 4651 del 26/02/2009,
secondo cui nell’ambito del giudizio di opposizione ad ordinanza
ingiunzione emessa dall’ispettorato provinciale del lavoro nei confronti
di un datore di lavoro, il lavoratore non è incapace di testimoniare, ex art. 246 c.p.c.,
quando l’oggettiva natura della violazione commessa ovvero la posizione
giuridica del lavoratore non gli consentano il conseguimento di
specifici diritti connessi all’oggetto della causa, sicchè, pur
attenendo la controversia ad elementi del suo rapporto di lavoro, una
sua pur potenziale pretesa sia inipotizzabile);
pertanto, il ricorso va disatteso, con conseguente condanna della parte rimasta soccombente al rimborso delle relative spese;
atteso l’esito negativo dell’impugnazione, sussistono i presupposti processuali di cui del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
la Corte dichiara INAMMISSIBILE il ricorso. Condanna le ricorrenti
al pagamento delle spese, che liquida a favore di parte controricorrente
nella misura di complessivi Euro 3500,00 (tremilacinquecento/00), oltre
spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,
comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali
per il versamento, da parte ricorrente dell’ulteriore importo a titolo
di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a
norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 6 marzo 2019.
Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2019