Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28270 del 04/11/2019

Cassazione civile sez. II, 04/11/2019, (ud. 02/04/2019, dep. 04/11/2019), n.28270

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 4003/2018 proposto da:

ALBERGO DALL’ONGARO s.r.l., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliati in Roma, via G.G. Belli n. 96,

presso lo studio dell’avvocato Paolo Mereu, che la rappresenta e

difende con l’avvocato Cesare Malattia del Foro di Pordenone;

– ricorrente –

contro

F.M.A., B.G. e B.E.,

elettivamente domiciliati in Roma, via G.G. Belli n. 96, presso lo

studio dell’avvocato Paolo Mereu, che la rappresenta e difende con

l’avvocato Cesare Malattia del Foro di Pordenone;

– controricorrenti e ricorrenti incidentali –

contro

B.T., elettivamente domiciliata in Roma, piazza Barberini n.

12 presso lo studio del Prof. avvocato Enrico Tonelli, rappresenta e

difesa dall’avvocato Giuseppe Caforio del Foro di Perugia;

– controricorrente –

contro

B.A., rappresentata e difesa dall’avvocato Annalisa Del

Col del Foro di Pordenone;

– controricorrente –

contro

B.M.A., rappresenta e difesa dall’avvocato Daniela

Facca del Foro di Pordenone;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 877/2017 della Corte di appello di Trieste

depositata il 22 novembre 2017 e notificata a mezzo PEC il 1

dicembre 2017;

udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del 2

aprile 2019 dal Consigliere relatore Dott.ssa Milena Falaschi;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. CELESTE Alberto, che ha concluso per l’accoglimento

di entrambi i ricorsi;

uditi gli Avv.ti Antonio Malattia (con delega dell’Avv.to Cesare

Malattia), per parte ricorrente, e Daniela Facca (anche con delega

dell’Avv.to Annalisa Del Col) e Giuseppe Caforio, per parti

resistenti.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato l’11 ottobre 2011 B.A. evocava, dinanzi al Tribunale di Pordenone, F.M.A., B.G., B.E., B.T., B.M.A. e la s.r.l. Albergo Dall’Ongaro, deducendo che il genitore, B.P., ancora in vita, aveva disposto dei proprie beni a titolo gratuito ed in data 13.10.2005 aveva compiuto una donazione in favore della moglie in situazione di totale incapacità di intendere e volere, atto che aveva leso la sua quota di riserva, per cui svolgeva domanda di accertamento della quota di legittima a lei riservata di 1/5 dei 2/3 del patrimonio ereditario, oltre a verificare che i denari utilizzati da B.G. per l’acquisto dell’immobile a lui intestato erano stati donati dallo stesso B.P., atto costituente una donazione indiretta, al pari di quelli utilizzati da B.E., T., M.A. per l’acquisto di immobili loro intestati; infine, chiedeva che venisse accertato che la compravendita stipulata in data 8 gennaio 2001 dell’Albergo Dall’Ongaro s.r.l. costituiva atto simulato in favore di B.E. e G., del quale chiedeva accertarsi la simulazione dissimulante una donazione, nulla per difetto di forma, al pari deal pari finanziamento soci alla società predetta per Euro 2.764.248,00, effettuato fra il 2001 ed il 2004; concludeva per la riduzione di ogni altra liberalità effettuata dal padre, con attribuzione della quota di 1/5 di 2/3 del patrimonio ereditario all’attrice.

Instaurato il contraddittorio, nella resistenza dei convenuti F.M.A., B.G. ed E., i quali deducevano che la domanda di reintegrazione della legittima era fondata nell’an limitatamente alla pretesa volta ad ottenere 1/10 dei valore dei beni oggetto della donazione del 13.10.2005, acquistati gli immobili che si sostenevano donati con i proventi dell’attività dell’impresa familiare, provvista assegnata a titolo di ripartizione di utili e incrementi dell’impresa medesima cui avevano contribuito con il loro apporto lavorativo, respinte le ulteriori deduzioni circa le donazioni, nonchè della società convenuta che si protestava estranea alle vicende ereditarie, svolte difese da B.M.A. nel senso che le donazioni indirette avevano nociuto anche lei, per cui svolgeva anche domande riconvenzionali, difesa assunta in tal senso anche da B.T., il Tribunale adito, espletata istruttoria, anche con c.t.u., con sentenza non definitiva n. 788 del 05.12.2016, accertava la qualità di erede in capo alle parti in causa con diritto alla quota di legittima pari ad 1/5 e a 2/3 del patrimonio del padre e marito; accertava che le compravendite del 07.02.1980, del 17.05.1982, del 13.10.1997 e del 27.03.2000 andavano qualificate come donazioni, oltre a riscontrare l’incapacità di intendere e di volere del de cuius a far data dal 28.09.2005 e per l’effetto annullava la donazione del 13.10.2005 da lui effettuata; accertava, altresì, la natura di donazione indiretta della vendita del 08.01.2001 e del relativo versamento di denaro, effettuato come finanziamento soci a favore dell’Albergo Dall’Ongaro nella misura del 51% dell’importo esborsato, rimettendo la causa sul ruolo per la ulteriore istruttoria.

In virtù di rituale appello interposto da F.M.A., B.G. ed E., la Corte di appello di Trieste, nella resistenza di B.A., la quale proponeva anche appello incidentale, nonchè dell’Albergo Dall’Ongaro, di B.M.A. e di B.T., respingeva il gravame principale ed accolto quello incidentale, per effetto del quale, in parziale riforma della decisione di prime cure, dichiarava essere donazione indiretta la compravendita del 08.01.2001, al pari del finanziamento soci e delle ulteriori spese indicate in motivazione per complessivi Euro 3.515.127,98.

A sostegno della adottata sentenza la Corte distrettuale evidenziava che dalla c.t.u. medica espletata in primo grado emergevano, su basi

scientifiche, le debolezze cognitive del de cuius all’epoca dei fatti, risultanze che non erano contrastate ovvero superate dalle conclusioni del CTP che si fondavano su dichiarazioni testimoniali.

Quanto alle restati censure, veniva ribadito che l’esame delle posizioni dei partecipanti alla impresa familiare e la definizione dei lori diritti, anche di credito, doveva transitare attraverso un’idonea domanda, non recuperabile nel giudizio de quo attraverso una valutazione volta a stabilire quanto e in che modo gli appellanti avessero operato nell’impresa familiare, senza alcuna puntuale domanda al riguardo.

Relativamente all’appello incidentale rilevava che, mancando l’accertamento dell’esistenza di un’impresa familiare, non era giustificata l’affermazione secondo cui si trattava di donazioni indirette quanto alle compravendite del 1990, 1982, 1997 e 2000; aggiungeva che la vendita del 2001 costituiva l’effetto del denaro versato dal de cuius per la misura del 51%, giacchè egli era unico e solo dominus delle sostanze familiari. Stesso ragionamento valeva quanto al finanziamento soci fatto in favore della società, alla somma prelevata per il pagamento della polizza vita della F. e quella ulteriore per il pagamento di tasse familiari.

Avverso l’indicata sentenza della Corte di appello di Trieste hanno proposto ricorso per cassazione, con separati atti, l’Albergo Dall’Ongaro s.r.l., da una parte, affidato ad un unico motivo, e B.G., E. con F., dall’altra, sulla base di cinque motivi, ai quali hanno resistito, con separati controricorsi, B.T., B.A. e B.M.A..

In prossimità della pubblica udienza hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c., le parti ricorrenti, nonchè le controricorrenti B.M.A. ed A..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Occorre preliminarmente rilevare che avverso la sentenza impugnata l’Albergo Dall’Ongaro s.r.l. ha proposto ricorso per cassazione notificato a mezzo PEC in data 29.01.2018 alle ore 17.31; un ulteriore ricorso è stato presentato da B.G. ed E., nonchè dalla F., notificato con lo stesso mezzo ed in pari data alle ore 17.47.

Orbene, nella costante giurisprudenza di questa Corte (fra le altre Cass. n. 18696 del 2015) è stato affermato il principio dell’unicità del processo di impugnazione contro una stessa sentenza, il quale comporta che, una volta avvenuta la notificazione della prima impugnazione (principale), tutte le altre debbono essere proposte in via incidentale nello stesso processo e pertanto ogni ricorso successivo al primo si converte in ricorso incidentale, indipendentemente dalla forma assunta. Nel caso in esame, considerato che il ricorso proposto dall’Albergo Dall’Ongaro è stato notificato in un tempo antecedente rispetto a quello presentato dai B. e dalla F., seppure a distanza di soli 16 minuti, il primo deve essere qualificato quale ricorso principale e il secondo quale ricorso incidentale.

Ciò chiarito, passando al merito, il ricorrente principale con unico motivo lamenta la violazione e la falsa applicazione degli artt. 91,92,342,345,346,132,112 c.p.c., nonchè dell’art. 111 Cost., per avere il giudice distrettuale disposto la condanna alle spese anche della società nonostante l’accoglimento dell’appello incidentale determinava la sola soccombenza degli appellanti principali, non anche dell’Albergo, evocato quale appellato.

Il motivo è fondato.

Nel caso in esame, in seguito all’appello di F.M.A., B.G. ed E., la Corte di merito ha confermato la soccombenza degli appellanti, pronunciando l’accoglimento solo dell’appello incidentale di B.A., comportante l’ampliamento della massa ereditaria ai fini della divisione, sicchè non vi è stato un mutamento dell’esito complessivo della lite rispetto alla posizione dell’Albergo Dall’Ongaro, che evocato nel giudizio di appello in qualità di appellato, non ha svolto in siffatto giudizio alcuna domanda o richiesta. La posizione dell’appellato nei cui confronti non viene svolta alcuna domanda dalle altre parti, non facendo sorgere alcun obbligo di pronuncia, difetta del requisito della propria soccombenza che della condanna alle spese costituisce, secondo la menzionata disposizione dell’art. 91 c.p.c., presupposto ineludibile.

E’ vero, infatti, che in siffatta situazione la notificazione dell’appello ad una delle parti non coinvolte dalla pronuncia di primi grado, ha la funzione di instaurare nei suoi confronti un rapporto processuale, ma al solo fine di dargli notizia del procedimento, con la conseguenza che essa non comporta l’attribuzione della qualità di parte processuale, ponendosi tale appellato in posizione neutra per non essere titolare di alcun interesse particolare in materia.

E’ altrettanto vero che proprio detta premessa poneva la sentenza impugnata nella condizione di statuire sulle spese nel rapporto fra gli appellanti e detto appellato, essendosi comunque instaurato un rapporto processuale.

Nel provvedimento qui impugnato la Corte di appello di Trieste non si è attenuto ai principi dianzi illustrati e ciò impone la cassazione del provvedimento sul punto.

Venendo all’esame del ricorso incidentale, con il primo motivo ed il secondo motivo – da trattare unitariamente per la evidente connessione, assumendo a base delle censure i medesimi fatti – è denunciata la violazione o la falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 99,100 e 167 c.p.c., oltre a nullità della sentenza e del procedimento per violazione dell’art. 112 c.p.c., per omesso esame di un motivo di appello per avere la corte territoriale impostato la decisione sull’assunto della necessario proposizione di una autonoma domanda onde far accertare i diritti di credito derivanti ai ricorrenti dalla partecipazione all’impresa familiare, senza tenere in alcun conto che siffatti beni o denari rappresentano il compenso per una vita di lavoro dedicata all’impresa di famiglia. Dunque non necessitavano di alcuna domanda riconvenzionale per far valere i loro diritti, essendo sufficiente l’allegazione del diverso titolo delle singole attribuzioni patrimoniali. Del resto fin dalle prime difese i ricorrenti avevano contestato il titolo di acquisto dedotto dall’attrice quale donazione, tant’è che sulla questione erano state raccolte dal giudice di primo grado ampie prove orali.

Le censure sono fondate, come emerge dagli atti, al cui esame questa Corte può procedere in ragione della natura dei vizi denunciati.

Pur accentuando la prospettazione dell’intangibilità del principio dell’onere della prova gravante sull’attrice, B.A., quanto alla consistenza della massa ereditaria ai fini dell’esercizio dell’azione di riduzione, gli odierni ricorrenti già nell’atto introduttivo delle loro difese nel giudizio di primo grado, in particolare nella comparsa di costituzione, avevano posto in evidenza l’intima connessione tra il patrimonio del de cuius e l’esercizio dell’impresa familiare gestita sin dal 1955 dalla famiglia B. – F., riguardante l’attività di osteria con annesso negozio di generi alimentari, avviata dai coniugi in virtù delle risorse finanziarie messe a disposizione dalla stessa F.. Hanno, altresì, aggiunto che nell’azienda familiare avevano prestato la loro attività stabilmente e continuativamente oltre ai coniugi, anche i figli E. e G.; T. e M.A. vi avevano collaborato sino all’anno del loro matrimonio, per cui la prima sino al 1985 e la seconda sino al 1992, diversamente da A. che non vi aveva mai lavorato. E’ stato, inoltre, dedotto che i proventi dell’impresa familiare confluivano su un unico conto corrente intestato al solo B.P., il quale per ragioni di salute dal 1995 non prestava più alcuna collaborazione nell’azienda di famiglia, epoca dalla quale è stata integralmente gestita da E., da G. e dalla madre, “contribuendo così in modo considerevole ad incrementare il patrimonio familiare”.

Il tenore di tali enunciazioni ha consentito ai convenuti di argomentare l’assunto secondo cui le somme da loro percepite (al pari di quelle riconosciute a T. e M.A. prima del loro matrimonio) non costituivano il frutto di donazioni (“se non nei casi in cui le parti hanno manifestato espressamente la volontà di trasferire a titolo di liberalità dall’uno all’altro dei beni”), ma la distribuzione degli incrementi o utili aziendali (in danaro o in beni) per quote, corrispondenti all’apporto da ognuno di loro prestato nell’impresa.

Costituisce orientamento pacifico di questa Suprema Corte che il giudice del merito ha il potere-dovere di qualificare giuridicamente la domanda e le eccezioni sulla base dei fatti dedotti dalle parti, indipendentemente dall’esattezza del nomen iuris attribuito dalle medesime parti nell’atto introduttivo e nella comparsa di costituzione ovvero nelle successive difese, con il solo limite della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato e del divieto di sostituire di ufficio un’azione diversa da quella espressamente proposta.

E’ pertanto configurabile violazione dell’art. 112 c.p.c., quando si operi un’interferenza nel potere dispositivo delle parti tale da alterare uno degli elementi oggettivi di identificazione dell’azione (petitum e causa petendi) e non già quando il bene invocato sia riconosciuto in base ad argomenti giuridici diversi da quelli dedotti per imprecisione terminologica o per un inesatto inquadramento legale della fattispecie. Ciò vale, in altri termini, quando sia attribuito un bene della vita diverso da quello richiesto e neppure implicitamente compreso nella domanda, o si pronunci su eccezioni non proposte e non rilevabili di ufficio, ovvero, sotto il profilo della violazione della causa petendi, quando si pongano a fondamento della decisione fatti giuridici diversi da quelli dedotti, introducendo nel processo un titolo nuovo e difforme da quello indicato a fondamento della domanda (v. più di recente, tra le tante, Cass. 24 gennaio 2019 n. 2060; Cass. 10 maggio 2018 n. 11289). Fermo pertanto che la cognizione del giudice deve essere attivata dalla domanda e può vertere solo su quanto le parti abbiano dedotto nei rispettivi atti difensivi, il giudice non può considerarsi vincolato alla prospettazione giuridica di detti fatti effettuata dalle parti, dovendo anzi procedere alla loro qualificazione ed alla conseguente applicazione delle norme di diritto senza incontrare alcun limite diverso da quello che gli deriva dalla soggezione alla legge. In tale operazione egli è conseguentemente libero di porre a base della pronuncia affermazioni di diritto diverse da quelle enunciate dalle parti ed anche di rilevare la mancanza degli elementi che attribuiscono rilievo costitutivo alla pretesa della parte, attenendo detto accertamento all’obbligo di esatta applicazione della legge.

Tanto precisato, va altresì osservato che il potere di rilevare fatti impeditivi compete esclusivamente alla parte (e soggiace perciò alle preclusioni previste per le attività di parte) soltanto nei casi in cui la manifestazione della volontà della parte sia strutturalmente prevista quale elemento integrativo della fattispecie difensiva (come nel caso di eccezioni corrispondenti alla titolarità di un’azione costitutiva) ovvero quando singole disposizioni espressamente prevedano come indispensabile l’iniziativa di parte, dovendosi in ogni altro caso ritenere la rilevabilità d’ufficio dei fatti modificativi, impeditivi o estintivi risultanti dal materiale probatorio legittimamente acquisito (Cass. Sez. Un. 3 febbraio 1998 n. 1099).

Orbene ciò non può essere certo ritenuto nel caso di specie, nel quale è onere dell’attore che agisce in riduzione indicare le donazioni ricevute da imputare alla legittima e quello dei convenuti paralizzare la relativa pretesa indicando la diversa causa della dazione. Pertanto la Corte di appello, a seguito e per effetto di accertamento ad hoc svolto dal giudice di primo grado, che avrebbe provato l’impiego nella impresa familiare delle energie lavorative e la partecipazione agli utili sia del de cuius sia dei ricorrenti, sì da giustificare la configurazione di una comunione tacita familiare, come prevista dall’art. 230 bis c.c., avrebbe dovuto considerare – senza necessità della proposizione di una domanda riconvenzionale al riguardo – l’incidenza di siffatta partecipazione anche quanto ai beni (eventualmente) acquistati con gli utili ed agli incrementi dell’azienda, in proporzione alla qualità e quantità del lavoro da ciascuno di essi prestato, sì che l’azienda stessa e siffatti beni, una volta escluso che gli immobili ovvero la polizza indicati dall’attrice fossero stati acquistati con denaro o con gli introiti del de cuius, non avrebbero potuto essere dalla corte considerati senza alcuna riserva ai fini della formazione della massa da dividere e, conseguentemente, per stabilire se ed in quale misura fossero stati violati i diritti della legittimaria.

La sentenza della Corte di appello è, dunque, erronea, atteso che la stessa è giunta alla conclusione che i cespiti rientranti nell’asse del defunto B.P. fossero costituiti anche da quelli acquistati dai germani E. e G., nonchè dalla madre, con i proventi dell’attività comune, omettendo di esaminare i fatti decisivi prospettati, oltre che documentalmente e oralmente provati nel corso del processo, in assenza di una domanda riconvenzionale di accertamento dei diritti derivanti dalla partecipazione alla comunione tacita familiare, dal momento che le difese spiegate in la comparsa di costituzione con la deduzione della sussistenza di una impresa familiare, è stato introdotto un ulteriore tema di indagine e di decisione, che ha alterato gli originari termini della controversia, paralizzando il diritto fatto valere dall’attrice. Il terzo mezzo – con il quale i ricorrenti lamentano l’omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione fra le parti, nonchè nullità della sentenza o del procedimento per violazione dell’art. 112 c.p.c., per non avere la corte territoriale esaminato uno dei motivi di appello relativo ai fatti storici acquisiti dall’istruttoria svolta in primo grado – è evidentemente assorbito dall’accoglimento delle prime due censure, riferendosi a circostanze che dovranno comunque essere nuovamente esaminate a seguito della cassazione della sentenza.

Con il quarto ed il quinto motivo i ricorrenti denunciano la violazione e la falsa applicazione dell’art. 111 Cost., art. 132 c.p.c. e degli artt. 428 e 2697 c.c., per avere la corte di merito condiviso gli argomenti del primo giudice nel ritenere annullabile la donazione del 13.10.2005 fatta dal de cuius in favore della coniuge, limitandosi a manifestare completa adesione alla c.t.u. medico legale che aveva verificato la incapacità di intendere e volere di B.P.. Inoltre il giudice del gravame avrebbe omesso di considerare un fatto storico risultante dal certificato medico della Dott.ssa R. che alla data del 22.09.2005 aveva ritenuto essere il de cuius nel pieno possesso delle sue facoltà mentali di intendere e di volere.

Le censure – che meritano di essere trattate congiuntamente vertendo sulla medesima circostanza della capacità del de cuius a far tempo da una certa data – sono prive di pregio.

L’indagine circa l’esistenza dell’incapacità di intendere e di volere del de cuius all’epoca della stipula della donazione di cui è stato pronunciato l’annullamento costituisce un tipico apprezzamento di fatto sottratto al controllo in sede di legittimità se sorretto da motivazione logica e non meramente apparente (Cass. 13 agosto 2018 n. 20721; ma già, Cass. 25 novembre 2010 n. 23977).

Ciò premesso, non si rileva alcuna violazione di legge essendo i giudici d’appello pervenuti alla conclusione, con valutazione come si è detto insindacabile in questa sede, che ricorrevano le condizioni per l’annullamento dell’atto pubblico in questione. Peraltro, dallo stesso svolgimento del motivo risulta evidente che sotto la rubrica della violazione di legge si censura inammissibilmente il convincimento espresso dai giudici di merito circa l’insussistenza dell’incapacità d’intendere e di volere.

Non sussiste neppure il lamentato vizio di motivazione, sub specie di omesso esame di fatto decisivo. La sentenza impugnata ha proceduto all’esame della consulenza tecnica d’ufficio, pervenendo alla conclusione che da questa si evinceva con sufficiente certezza che B.P. fosse incapace d’intendere e di volere al momento della sottoscrizione della scrittura, non solo perchè il giudizio medico-legale era espresso con basi scientifiche che evidenziavano le debolezze cognitive del de cuius al tempo dell’atto, ma anche perchè si basava su una documentazione concernente indagini strumentali (TAC e visite mediche). Infatti era risultato affetto da demenza vascolare con grande compromissione della sfera cognitiva, che comportava una notevole riduzione della capacità critica e volitiva. Ha, inoltre, considerato la relazione tecnica del CTP, pervenendo ad un giudizio di non incompatibilità con le risultante del CTU, in quanto gli assunti del consulente di parte non conducevano necessariamente a conseguenze diverse, oltre a non spiegare i convincimenti dell’ausiliario del giudice. Dunque gli appellanti non avevano confutato le considerazioni e conclusioni del consulente con argomentazioni tecniche che potessero inficiarle.

Per dette ragioni la Corte è pervenuta alla conclusione di una menomazione delle facoltà intellettive e volitive di B.P. al momento di sottoscrizione della scrittura.

Da quanto esposto e considerato il contenuto dei motivi di ricorso, emerge chiaro che i ricorrenti non portano all’attenzione di questa Corte una carenza di effettiva logica ovvero di motivazione apparente della sentenza impugnata, ma contestano direttamente le valutazioni espresse dalla Corte di merito in ordine alla ritenuta sussistenza dell’incapacità d’intendere e di volere. La sentenza impugnata appare comunque adeguatamente e logicamente motivata e non si rileva la pretermissione di elementi decisivi, tali non potendo essere considerati gli stralci di deposizione riportati nel ricorso dei testi escussi in sede istruttoria.

In conclusione, va accolto il ricorso principale ed i primi due motivi del ricorso incidentale, assorbito il terzo, respinti il quarto ed il quinto. La sentenza impugnata va cassata in relazione alle censure accolte, con rinvio ad altra Sezione della Corte di appello di Trieste che, anche ai fini della formazione della massa e della determinazione della quota eventualmente spettante alla legittimaria, procederà all’esame delle risultanze istruttorie omesse alla luce dei principi sopra illustrati.

Il giudice del rinvio provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità, a norma dell’art. 385 c.p.c., u.p..

P.Q.M.

La Corte, accoglie il ricorso principale ed i primi due motivi del ricorso incidentale, assorbito il terzo, respinti il quarto ed il quinto;

cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità, ad altra Sezione della Corte di appello di Trieste.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte di Cassazione, il 2 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 novembre 2019

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