Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28262 del 18/12/2013


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Civile Sent. Sez. 5 Num. 28262 Anno 2013
Presidente: MERONE ANTONIO
Relatore: TERRUSI FRANCESCO

SENTENZA

sul ricorso 3159-2009 proposto da:
BANCA POPOLARE SOC. COOP. in persona del Presidente e
legale rappresentante pro tempore, BIPIELLE REAL
ESTATE SPA in persona del Presidente del Consiglio di
Amministrazione e legale rappresentante pro tempore,
elettivamente domiciliati in ROMA VIA DELLA SCROFA 57,
2013
2971

presso lo studio dell’avvocato PIZZONIA GIUSEPPE, che
li rappresenta e difende unitamente agli avvocati
RUSSO CORVACE GIUSEPPE, ZOPPINI GIANCARLO, n.2 procure
a margine;
– ricorrenti contro

Data pubblicazione: 18/12/2013

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro
tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI
PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO
STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente

avverso la sentenza n. 139/2007 della COMM.TRIB.REG.
di MILANO, depositata 1’11/12/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 24/10/2013 dal Consigliere Dott. FRANCESCO
TERRUSI;
udito per il ricorrente l’Avvocato RUSSO CORVACE che
ha chiesto l’accoglimento;
udito per il controricorrente l’Avvocato FIORENTINO
che ha chiesto il rigetto;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. FEDERICO SORRENTINO che ha concluso per
il rigetto del ricorso.

,

3159-09

Svolgimento del processo
La commissione tributaria regionale della Lombardia, con
sentenza in data 11 dicembre 2007, confermava la decisione
della commissione tributaria provinciale di Milano che
aveva respinto un ricorso di Bipielle investimenti s.p.a.

(in qualità di incorporante la Banca popolare di Crema
s.p.a.) e di Bipielle RE s.p.a. contro due avvisi di
liquidazione di imposte di registro,

ipotecarie e

catastali, e conseguenti sanzioni, in relazione a un
rogito

notarile

di

aumento

di

capitale

sociale,

sottoscritto da distinte società del gruppo Bipielle
mediante conferimenti di rami immobiliari d’azienda.
L’operazione era avvenuta nell’ambito del riassetto
societario del gruppo Bipielle, con accentramento in un
unico soggetto (Bipielle immobili s.p.a., poi divenuta
Bipielle RE s.p.a.) delle proprietà immobiliari delle
società del gruppo (tra le quali la Banca popolare di
Crema).
In particolare,

la Bipielle immobili s.p.a.

aveva

deliberato l’aumento di capitale mediante conferimenti di
rami d’azienda, e le società conferenti avevano ceduto,
con atto di poco successivo, alla capogruppo Banca
popolare di Lodi, per un corrispettivo di pari valore, le
partecipazioni ricevute a fronte dei conferimenti. In
ultimo la capogruppo aveva ceduto a una società estera,
non appartenente al gruppo, una quota (49 %) del capitale
sociale della conferitaria.

1

La commissione tributaria regionale riteneva che il
perfezionamento dei primi due atti a distanza di pochi
mesi, con il coinvolgimento praticamente simultaneo di
tutte le società del gruppo, fosse da considerare avvinto
dall’unitario intento di attuare una cessione d’azienda;
sicché, atteso il collegamento tra le operazioni, riteneva

giustificata la tassazione nei termini indicati negli
avvisi impugnati, ai sensi degli artt. 20 e 21 del d.p.r.
n. 131 del 1986, conformemente alla pretesa fiscale
complessiva di euro 1.642.896,00.
Per la cassazione della sentenza di secondo grado hanno
proposto ricorso, sorretto da quattro motivi, il Banco
popolare società cooperativa (in qualità di società
derivante dalla fusione di Banca popolare di Lodi,
incorporante la Bipielle investimenti, con Banca popolare
di Verona e Novara) e la Bipielle RE s.p.a.
L’agenzia delle entrate ha replicato con controricorso.
Le ricorrenti hanno depositato una memoria.
Motivi della decisione
I. – I motivi ai quali è affidato il ricorso per
cassazione sono i seguenti.
Col primo mezzo si deduce l’insufficiente motivazione
della sentenza (art. 360, n. 5, c.p.c.) sul fatto
controverso inerente alla affermata esistenza di un
intento unitario e originario delle società del gruppo
Bipielle di liberarsi del ramo di azienda immobiliare
incassandone immediatamente l’equivalente pari al valore
di mercato.

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Col

secondo

mezzo,

deducendo

violazione

e

falsa

applicazione dell’art. 20 del d.p.r. n. 131 del 1986, in
relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., le ricorrenti
sostengono – a ciò correlando l’errore giuridico
dell’impugnata sentenza – che l’art. 20 cit. non
consentirebbe di valorizzare, nell’interpretazione

dell’atto presentato per la registrazione, altro che
l’intrinseca natura e gli effetti dell’atto stesso, senza
possibilità di ricorrere a elementi estrinseci, e quindi
senza possibilità di apprezzare il collegamento tra questo
e altri eventuali atti posti in essere dal contribuente.
Col terzo motivo si deducono la violazione e la falsa
applicazione dell’art. 21, 2 ° co., del d.p.r. n. 131 del
1986, in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c. Le
ricorrenti lamentano che la commissione tributaria
regionale non abbia considerato che, ai sensi della
disposizione citata, è consentita l’applicazione del
regime fiscale più oneroso solo con riferimento ai casi in
cui un unico atto contenga più disposizioni tra loro
necessariamente connesse, e non anche nel caso di più
atti, solo funzionalmente collegati, recanti, ciascuno, un
autonomo regolamento di interessi.
Col quarto motivo, infine, di nuovo si deducono la
violazione e la falsa applicazione degli artt. 20 e 21, 2 °
co., del d.p.r. n. 131 del 1986, in relazione all’art.
360, n. 3, c.p.c., sul rilievo che, in ogni caso,
contrariamente a quanto sostenuto dalla commissione
tributaria regionale, un’operazione di conferimento di

3

ramo d’azienda, seguita, come nella specie, dalla cessione
della partecipazione – ricevuta a fronte del conferimento
– a un soggetto diverso dalla conferitaria, non potrebbe
considerarsi produttiva del medesimo effetto giuridico
finale di una cessione di ramo d’azienda.
II. – I motivi si palesano tra loro connessi, così da

consigliare una trattazione unitaria.
A questa è necessario premettere che, diversamente da
quanto dalle ricorrenti sostenuto nel secondo (e anche nel
terzo) motivo, in tema d’ interpretazione degli atti ai
fini dell’applicazione dell’imposta di registro, il
criterio fissato dal d.p.r. 26 aprile 1986, n. 131, art.
20 – per cui rilevano l’intrinseca natura e gli effetti
giuridici degli atti stessi, al di là del titolo e della
forma apparente -, da un lato comporta che, nella
qualificazione di un negozio, deve attribuirsi rilievo
preminente alla sua causa reale e alla regolamentazione
degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti;
e dall’altro consente al giudice di merito di accertare
l’intenzione effettiva dei contraenti (di effettuare, per
es., trasferimenti aziendali) come risultato finale della
operazione nel suo complesso (negoziale e, nella specie,
societaria), attraverso l’esame congiunto dei singoli
atti, stipulati contestualmente o non contestualmente.
Questo criterio e questi effetti prescindono dalla
sussistenza o insussistenza di un intento elusivo dei
contraenti (v. ex multis Cass n. 9162-10; n. 11769-08; n.

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13580-07; n. 273-07; n. 10660-03; n. 2713-02; n. 1490001)
Pertanto è errato sostenere, come invece ancora fatto
dalla difesa delle ricorrenti nell’udienza di discussione,
che l’elemento dirimente della controversia fosse
costituito dalla possibilità, o meno, di apprezzare un

simile intento. Ed è errato sostenere che l’indagine
rilevante ai fini dell’art. 20 del d.p.r. n. 131 del 1986
dovesse essere limitata da una verifica di tipo
atomistico, incentrata sul contenuto del singolo atto
presentato alla registrazione, senza possibilità di far
ricorso, nell’ indagine sulla reale intenzione delle
parti, a elementi estrinseci allo stesso o a negoziazioni
ulteriori e funzionalmente collegate.
La contraria tesi delle ricorrenti, nella giurisprudenza
della corte sostenuta da un orientamento del tutto
minoritario (di cui, nel periodo più recente, può
ritenersi espressione solo Cass. n. 3571-10), è stata
invero in prevalenza disattesa in virtù della
condivisibile considerazione che l’interpretazione di un
atto negoziale, ai fini fiscali, deve avvenire con criteri
diversi da quelli utilizzabili ai comuni fini civilistici,
dovendosi comunque attribuire preminente rilievo agli
effetti della negoziazione in vista della necessità di
prevenire possibili abusi (v. da ultimo, sebbene con
specifico riferimento all’analisi intesa a stabilire la
soggezione di un negozio a imposta di registro piuttosto
che a Iva, Cass. n. 1405-13; n. 23485-12; e v. anche, per

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ulteriori riferimenti, la recentissima Cass. n. 14150-13,
cui adde Cass. n. 6835-13).
A una a tal punto dilatata necessità di garantire la
coerenza del sistema impositivo sul piano effettuale (cui
è da ascrivere la funzione antielusiva della norma nel suo
esatto significato) consegue che il risultato finale di

un’operazione complessa non può essere disgiunto dal
contesto di una disamina globale, e presuppone come
doverosa la considerazione degli elementi ritraibili da
tutti gli atti che in essa si inseriscono.
III. – Ora, la commissione tributaria regionale della
Lombardia ha fatto corretta applicazione di un simile
criterio esegetico. E ha in tal guisa accertato che
l’effetto giuridico finale delle operazioni poste in
essere all’interWoael gruppo Banco popolare [l’aumento di
capitale mediante conferimento di rami d’azienda in
Bipielle immobili s.p.a. e la successiva cessione di tutte
le partecipazioni in detta società divenuta,
contestualmente all’aumento, Bipielle RE alla
capogruppo Banca popolare di Lodi] era stato quello di
attuare un trasferimento di rami d’azienda.
Al riguardo ha offerto congrua motivazione, valorizzando
la concatenazione emergente dal dato temporale e dalla
sostanziale contestualità di una medesima operazione da
parte di tutte le società del gruppo, nel quadro, dunque,
di una congiunta valutazione degli elementi
caratterizzanti la scelta operata.

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Il ripetuto accertamento di fatto resta intangibile in
questa sede, non essendo inciso dalle critiche sollevate
dalle ricorrenti nel primo motivo, perché questo infine
omette di specificare su quale fatto controverso,
decisivo, l’impugnata sentenza avrebbe insufficientemente
motivato.

Certo non può ritenersi tale quello che compare nella
sintesi finale all’uopo redatta in calce all’illustrazione
del mezzo, posto che la “sussistenza di un intento
unitario e originario delle società di liberarsi del ramo
di azienda delle attività immobiliari, incassandone
immediatamente il valore di mercato” (così la sintesi) non
è il fatto, ma la questione sottostante, vista peraltro
nell’ottica unilaterale di un’interpretazione della parte.
Donde, limitandosi a rimarcare tale elemento, il primo
motivo nella sostanza si risolve in un sindacato di
merito, inteso a sollecitare alla corte la revisione del
giudizio di fatto.
IV. – Il terzo e il quarto motivo sono a loro volta
infondati.
Non si trattava di applicare, nella specie, il regime
fiscale più oneroso (e in questi termini va corretto ai
sensi dell’art. 384, 4 0 co., c.p.c. – l’inciso che in
proposito compare nell’impugnata sentenza), ma di dar
luogo alla forma impositiva coerente con l’effetto finale
dell’operazione eseguita (il risultato giuridico reale),
una volta appurato che tale effetto era quello di

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assicurare una cessione di ramo immobiliare d’azienda alla
capogruppo.
Né in questa prospettiva giova insistere (in base alla
tesi illustrata nel quarto motivo) sulla circostanza di
essere state poi le partecipazioni cedute, dalla
capogruppo, a una società estranea.

Difatti la commissione tributaria regionale non ha omesso
di considerare tale fatto, ma, nel contesto di una
valutazione di pieno merito, l’ha semplicemente reputato
ininfluente.
La riferita valutazione non è d’altronde censurata sul
piano della congruenza motivazionale, per cui si sottrae essa pure – alla potestà di sindacato (solo indiretto)
della corte.
E val bene aggiungere che la stessa non appare illogica,
posto che il collegamento affermato come rilevante, in
base alla ricostruzione operata dal giudice di merito,
atteneva agli atti posti in essere tra le società del
gruppo, intesi ad attuare la cessione dei rami d’azienda
alla società che ne era a capo; sicché a questi atti – e a
questi soltanto – doveva conseguire il pagamento d’imposta
correttamente preteso, senza incidenza di ulteriori
successive negoziazioni sul capitale della cessionaria.
In ogni caso, e conclusivamente, non si apprezza alcuna
violazione, né tanto meno una falsa applicazione, di norme
di diritto a petto della surriferita conclusione del
giudice d’appello, volta a considerare nei termini detti
il

collegamento rilevante ai

fini dell’imposizione

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indiretta, giacché
giacché – secondo la ricostruzione al riguardo
operata da quel giudice, insindacabile in questa sede l’effetto giuridico reale riguardava l’operazione a monte
rispetto alla cessione della partecipazione rimarcata nel
quarto motivo.

Spese alla soccombenza.
p.q.m.
La Corte rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti, in
solido, alle spese processuali, che liquida in euro
30.000,00 per compensi, oltre le spese prenotate a debito.
Deciso in Roma, nella camera di consiglio della quinta

V. – Il ricorso è rigettato.

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