Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28240 del 14/10/2021

Cassazione civile sez. II, 14/10/2021, (ud. 03/12/2020, dep. 14/10/2021), n.28240

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25934/2019 proposto da:

M.L., rappresentato e difeso dall’avvocato Maria Lucia

Frisenda, del foro di Milano ed elettivamente domiciliato agli

indirizzi PEC dei difensori iscritti nel REGINDE;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato

e domiciliato sempre ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso il decreto n. 5988/2019 del Tribunale di Milano, depositato

il 09/07/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

03/12/2020 dal Consigliere Dott.ssa Milena FALASCHI.

 

Fatto

OSSERVA IN FATTO E IN DIRITTO

Ritenuto che:

– la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Milano con provvedimento notificato il 26 settembre 2018 rigettava la domanda del ricorrente volta all’ottenimento dello status di rifugiato, della protezione c.d. sussidiaria o in subordine di quella umanitaria;

– avverso tale provvedimento interponeva opposizione M.L., che veniva respinta dal Tribunale di Milano con decreto del 09.07.2019;

– la decisione impugnata evidenziava l’insussistenza dei requisiti previsti dalla normativa, tanto per il riconoscimento dello status di rifugiato quanto per la protezione sussidiaria e umanitaria, evidenziando, in primo luogo, che la vicenda narrata, di avere abbandonato il proprio Paese, il Gambia, a seguito del furto di mucche, alcune di proprietà del padre ed altre di terzi, che aveva subito mentre erano al pascolo sotto la sua custodia, temendo l’ira del padre che aveva minacciato di ucciderlo per l’accaduto e degli altri proprietari, oltre a non essere particolarmente attendibile in quanto racconto del tutto generico e poco verosimile per essere il padre con lui ritornato immediatamente sul luogo dell’aggressione senza trovare più alcuna traccia di ben 17 capi di bestiame, non credibile appariva la riferita “reazione paterna” di voler uccidere il figlio senza che questi avesse alcuna responsabilità. Inoltre era difficile da credere che il richiedente non si fosse attivato per denunciare il furto alla polizia e così scagionare ogni sua colpa. Generico e privo di elementi era poi il racconto del tentativo di cattura che avrebbe subito il giorno che stava partendo. In ogni caso né le minacce del padre né quelle degli altri soggetti integravano la fattispecie di agente persecutore statale, bensì di vicende di violenza privata e personale-familiare, come tale non riconducibile al concetto di persecuzione. Inoltre rilevava che provenendo il ricorrente dal Gambia (nato in Serekunda, la sua famiglia viveva a Yundum), dal rapporto EASO del dicembre 2017, dal rapporto annuale Freedom in the World 2017 e dal rapporto 21 aprile 2017 redatto da Human Rights Watch, Gambia: Justice for Jammel-Era Abuses Cruscial non venivano riferiti conflitti in atto nel Paese, nel quale anzi dopo le elezioni del 2016 il processo di democratizzazione aveva portato a significativi cambiamenti positivi nel contesto dei diritti umani. L’insediamento del presidente legittimamente eletto, B., e la fuga del despota J., si muoveva lungo la strada delle riforme democratiche e sociali. Ne’ sussistevano i presupposti per potersi dire avvenuta l’integrazione del ricorrente in Italia, essendosi limitata la difesa del richiedente a documentare la partecipazione a corsi per l’apprendimento della lingua italiana e ad attività di formazione. Non era idoneo a fondare un giudizio di vulnerabilità neanche il documento prodotto in data 08.04.2019 rubricato “relazione psicologica” che non conteneva conclusioni “in diritto”, che esulavano dalle competenze del redattore, trattandosi nella sostanza di una mera presa d’atto di quanto riferito dal paziente in assenza della esplicitazione di una diagnosi; né era prescritta una terapia o una presa in carico, limitandosi ad una registrazione del malessere riferito dal ricorrente, senza alcun reale approfondimento psicologico-clinico;

– propone ricorso per la cassazione avverso tale decisione il M. affidato ad un unico motivo, cui resiste il Ministero intimato con controricorso.

Atteso che:

– con l’unico motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 10 Cost. e l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio perché in violazione dei parametri normativi e giurisprudenziali il giudice di merito ha ritenuto assenti gravi motivi umanitari nonostante il M. fosse giunto in Italia ancora minorenne e la mancanza di validi riferimenti familiari nel Paese di origine, oltre alle gravi vicissitudini che avevano contraddistinto la sua vita, creando in lui senza dubbio una condizione di forte fragilità.

La censura è priva di pregio.

Il diritto alla protezione umanitaria è collegato alla sussistenza di “seri motivi”, non tipizzati o predeterminati, neppure in via esemplificativa, dal legislatore (prima della Novella di cui al D.L. n. 113 del 2018, convertito in L. n. 132 del 2018), cosicché essi costituiscono un catalogo aperto, tutti accomunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità individuale attuali o pronosticate in dipendenza del rimpatrio: non può essere in nessun caso elusa la verifica della sussistenza di una condizione personale di vulnerabilità, occorrendo dunque una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza e alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio. I seri motivi di carattere umanitario possono allora positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all’esito di tale giudizio comparativo, risulti non soltanto un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa, ma siano individuabili specifiche correlazioni tra tale sproporzione e la vicenda personale del richiedente, “perché altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti in contrasto col parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 cit., art. 5, comma 6” (Cass. 23 febbraio 2018 n. 4455).

Al rilievo si accompagna, altresì, la considerazione che la natura residuale ed atipica della protezione umanitaria, se da un lato implica che il suo riconoscimento debba essere frutto di valutazione autonoma, caso per caso, e che il suo rigetto non possa conseguire automaticamente al rigetto delle altre forme tipiche di protezione, dall’altro comporta che chi invochi tale forma di tutela debba allegare in giudizio fatti ulteriori e diversi da quelli posti a fondamento delle altre due domande di protezione c.d. “maggiore” (Cass. n. 21123 del 2019).

Orbene nessun dirimente rilievo dispiegano, ai fini della prova del profilo dell’avvenuta integrazione sociale del richiedente in funzione del riconoscimento del presidio tutorio di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, i motivi di vulnerabilità della propria condizione, che resta genericamente dedotta a fronte di un sistema a tutele tipizzate, una volta valutata dal giudice l’assenza di una qualche forma di integrazione, lavorativa e sociale (v. pagine 9 e 10 del provvedimento impugnato). Invero, quand’anche effettivamente conseguita, l’integrazione non risulta nella specie neanche allegata ed è ben lungi dall’esaurire la piattaforma dei presupposti richiesti per il riconoscimento della protezione minore, ai cui fini è necessaria, secondo la più autorevole interpretazione di questa Corte regolatrice: “la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza, senza che abbia rilievo l’esame del livello di integrazione raggiunto in Italia, isolatamente ed astrattamente considerato” (Cass., Sez. Un., n. 29459 del 2019).

Ne’ è possibile valutare la sussistenza dei presupposti per la protezione umanitaria dalle migliori condizioni di vita che sarebbero assicurate a lui dalla permanenza in Italia piuttosto che nel Paese di origine, non costituendo siffatta sproporzione ragione per l’acquisizione di un diritto in tal senso (Cass. n. 32213 del 2018).

Quanto alla dedotta minore età del richiedente al momento di ingresso nel nostro Paese, osserva il Collegio che non può trovare applicazione nella specie l’orientamento espresso con Cass. n. 11743 del 2020, non ricorrendone i presupposti. Invero dallo stesso provvedimento impugnato emerge che il difensore del M. avanti al Tribunale ha dichiarato che il richiedente aveva lasciato il Gambia oltre due anni prima, ancora minorenne, ed era entrato in Italia appena maggiorenne (v. pag. 9 del decreto), per cui trattasi di questione introdotta per la prima volta con il ricorso e come tale non esaminabile in sede di legittimità per novità; a tacere della circostanza che la stessa età del ricorrente è stato oggetto di diverse versioni da parte dello stesso, che in sede di audizione avanti alla Commissione territoriale ha dichiarato di essere nato in data 01.06.1998, mentre in sede di audizione dinanzi al Tribunale la data è stata corretta al 01.06.1999. Dunque la generica contestazione di non avere adeguatamente dato spazio alle vicende personali e familiari del richiedente, nonché alla dello minore dello stesso, si risolve in una diversa valutazione dei riscontri probatori.

In conclusione il ricorso va respinto.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso;

condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite in favore dell’Amministrazione che liquida in complessivi Euro 2.100,00 oltre a spese prenotate e prenotande a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 3 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2021

 

 

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