Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28218 del 10/12/2020

Cassazione civile sez. lav., 10/12/2020, (ud. 16/09/2020, dep. 10/12/2020), n.28218

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – rel. Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 15931-2016 proposto da:

P.L., C.G., S.G., domiciliati in

ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI

CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato FRANCESCO ACERBONI;

– ricorrenti principali –

CASINO’ MUNICIPALE DI VENEZIA GIOCO S.P.A., già CASINO’ MUNICIPALE

DI VENEZIA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso lo

studio dell’avvocato LUIGI FIORILLO, rappresentata e difesa

dall’avvocato ADALBERTO PERULLI;

– controricorrente – ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 552/2015 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 10/12/2015 r.g.n. 1309/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/09/2020 dal Consigliere Dott. ANTONELLA PAGETTA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE ALBERTO, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso per

quanto di ragione, rigetto ricorso incidentale condizionato;

udito l’Avvocato ANDREA RECCHIA per delega avvocato FRANCESCO

ACERBONBI;

udito l’Avvocato ADALBERTO PERULLI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte d’appello di Venezia, accogliendo l’impugnazione proposta dal Casinò Municipale di Venezia s.p.a. ed in riforma della sentenza di primo grado, dichiarata cessata la materia del contendere in relazione all’appello della società nei confronti del dipendente di G.A., ha rigettato la domanda proposta da P.L., C.G. e S.G. – tutti dipendenti da Casinò Municipale di Venezia s.p.a. con mansioni di croupier addetti ai tavoli da gioco al reparto roulette – volta ad ottenere l’accertamento del loro diritto a percepire il trattamento economico minimo garantito da una clausola (art. 48) del contratto collettivo aziendale vigente a partire dal 1990, reiterata nei vari contratti succedutisi nel tempo, con riflessi anche sulla determinazione del tfr.

2. La Corte territoriale ha ritenuto corretto, sulla base dell’interpretazione logico letterale della clausola contrattuale, il criterio adottato dal Casinò, secondo il quale il calcolo del minimo garantito sulle mance pro capite doveva avvenire con riferimento alla sola quota di incassi destinata ai dipendenti, ossia sul 50% anzichè sul 100% del totale delle mance.

3. Avverso la sentenza, P.L., C.G. e S.G. hanno proposto ricorso per cassazione articolando otto motivi; Casinò di Venezia Gioco s.p.a. (già Casinò Municipale di Venezia Gioco s.p.a.) ha resistito con tempestivo controricorso e ricorso incidentale condizionato affidato a due motivi.

4. Casinò di Venezia Gioco s.p.a. ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione delle norme di ermeneutica del contratto di cui agli artt. 1362 c.c. e ss.. Premesso che il giudice di appello aveva dichiarato di fondare la propria interpretazione prevalentemente sul dato letterale della clausola contrattuale pur dando atto che questa non aveva un contenuto chiaro ed inequivoco, censurano la sentenza impugnata in base alla considerazione che il ricorso al criterio letterale quale strumento di interpretazione primaria è possibile solo ove le espressioni usate dalle parti siano di chiaro ed inequivoco significato, circostanza questa positivamente esclusa dalla stessa valutazione della Corte di merito.

2. Con il secondo motivo di ricorso i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione delle norme di ermeneutica del contratto di cui agli artt. 1362 c.c. e ss.. Sostengono che ove dovesse reputarsi sufficiente alla corretta interpretazione della clausola il solo criterio letterale questo porterebbe ad una soluzione diversa da quella della Corte di appello in quanto l’espressione utilizzata dalle parti stipulanti, laddove avevano fatto riferimento al “milione indiviso di mance”, si prestava ad essere interpretata nel senso che il minimo garantito in favore dei dipendenti dovesse essere calcolato sul totale degli incassi, comprensivo quindi anche sulla quota, pari al 50%, di spettanza del Casinò.

3. Con il terzo motivo di ricorso i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione delle norme di ermeneutica del contratto di cui agli artt. 1362 c.c. e ss. censurando la sentenza impugnata per avere omesso di indicare i comportamenti delle parti, successivi alla stipula, dai quali ricostruire la comune volontà delle stesse; deducono la inidoneità a tal fine delle condotte considerate dal giudice di appello che configuravano comportamenti individuali di singoli soggetti, da considerarsi terzi rispetto alla conclusione del contratto;

nel merito contestano che, come invece ritenuto dal giudice di appello, le deposizioni in atti attestassero la esistenza di una prassi applicativa uniforme della clausola in oggetto, coerente con il criterio di determinazione del minimo garantito propugnato dalla società datrice.

4. Con il quarto motivo di ricorso i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione delle norme di ermeneutica del contratto di cui agli artt. 1362 c.c. e ss. censurando la sentenza impugnata sotto il profilo della mancata valorizzazione dei comportamenti rilevanti delle parti tenuti successivamente alla stipula della clausola, secondo quanto emergente dalla prova orale e dall’accordo con il quale il Casinò aveva negoziato una diversa ed a sè più sfavorevole ripartizione della percentuale delle mance; tale accordo – assumono – era rivelatore della consapevolezza della società circa la particolare onerosità della clausola contrattuale sul minimo garantito alla luce della interpretazione sostenuta dai lavoratori.

5. Con il quinto motivo di ricorso i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione delle norme di ermeneutica del contratto di cui agli artt. 1362 c.c. e ss., in particolare sotto il profilo della omessa valutazione complessiva delle clausole e del limite scaturente dalle espressioni utilizzate nell’individuare l’oggetto negoziato, che non investiva in alcun modo la quota di competenza dei croupier.

6. Con il sesto motivo di ricorso i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione delle norme di ermeneutica del contratto di cui agli artt. 1362 c.c. e ss., in particolare sotto il profilo della violazione del criterio ermeneutico secondo il quale le espressioni che possono avere più sensi vanno intese nel senso più conveniente alla natura ed all’oggetto del contratto; in questa prospettiva sostengono essere conforme alla materia negoziata che la espressione “milione indiviso” andasse intesa quale riferita al totale delle mance, comprensivo pertanto anche della quota percentuale di spettanza della società datrice.

7. Con il settimo motivo di ricorso i ricorrenti deducono violazione degli artt. 1362 c.c. e ss. censurando il mancato ricorso al criterio ermeneutico residuale rappresentato dall’interpretazione destinata a realizzare l’equo contemperamento degli interessi delle parti; considerato che la clausola in controversia era ispirata all’esigenza di evitare che nella distribuzione delle mance i lavoratori potessero in futuro essere penalizzati per effetto del previsto ampliamento dell’organico, sostengono che la interpretazione conforme alla maggior tutela dei lavoratori era quella che implicava, al fine della determinazione del minimo garantito, il computo dello stesso anche in relazione alla quota di pertinenza del Casinò.

8. Con l’ottavo motivo i ricorrenti deducono, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di un punto decisivo censurando la sentenza impugnata per l’assenza di motivazione in ordine alla domanda relativa al tfr.

Ricorso incidentale.

9. Con il primo motivo di ricorso incidentale condizionato all’accoglimento del ricorso principale, Casinò di Venezia Gioco s.p.a. (già Casinò Municipale di Venezia Gioco s.p.a.) deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 414 c.p.c., comma 1, n. 4 censurando la statuizione di rigetto del motivo di appello inteso a denunziare la nullità del ricorso introduttivo della causa iscritta al n. Rg. n. 1933/2009 del Tribunale di Venezia, nullità fondata sulla carente esposizione delle circostanze di fatto e degli elementi di diritto alla base della pretesa azionata.

10. Con il secondo motivo di ricorso i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione dell’art. 81 c.p.c. censurando la sentenza impugnata per avere respinto la eccezione di difetto di legittimazione passiva formulata da essa società, la quale aveva indicato come legittimo contraddittore in relazione alla domanda proposta la Comunione Proventi Aleatori, associazione non riconosciuta dei lavoratori deputata alla ripartizione fra gli stessi delle mance.

11. Preliminarmente occorre dare atto che la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, come modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 2 – che attribuisce a questa Corte, limitatamente ai contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro, un sindacato in funzione “paranomofilattica” (Cass. 18/12/2014 n. 26738; Cass. 19.3.2014; Cass. 19./03/2014 n. 6335; Cass. Sez. Un. 23/09/2010, n. 20075) -, non esclude per i contratti collettivi di carattere aziendale, quale quello in oggetto, il sindacato di legittimità, che può estendersi all’interpretazione di ogni atto negoziale riguardo ai vizi di motivazione della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 oppure alla violazione delle norme di ermeneutica dettate dagli artt. 1362 c.c. e ss. ai sensi del n. 3 disposizione citata.

12. I primi sette motivi del ricorso principale, esaminati congiuntamente per connessione, in quanto tutti intesi a contrastare il risultato interpretativo al quale è pervenuta la decisione impugnata, sono infondati.

12.1. La clausola del contratto collettivo aziendale, vigente a partire dal 1990 e, per come pacifico, reiterata nei vari contratti succedutisi nel tempo, con mera variazione lessicale, nel suo tenore testuale riportato nella sentenza qui impugnata è il seguente: “Per tutta la durata del presente contratto le mance ai tavoli da gioco sono ripartite tra l’Azienda e il personale nella misura percentuale in atto e cioè: roulette, 30/40, craps e black jack: 50% all’Azienda e 50% al personale; comunque agli aventi diritto del reparto roulette sarà assicurato, da parte dell’Azienda, un minimo garantito di lire 2.790=pro-quota per ogni milione indiviso di mancia, secondo la ripartizione vigente al 31/12/1990, garantendo il rispetto dell’istituto previsto dall’Art. 3 del presente contratto; b) chemin de fer: 54% all’Azienda e 46% al personale.

12.2. Il risultato interpretativo cui è approdata la Corte di merito nell’affermare che il calcolo del minimo garantito sulle mance pro capite doveva avvenire con riferimento alla sola quota di incassi delle mance destinata ai dipendenti, ossia sul 50% anzichè sul 100% degli incassi totali, è stato fondato sulle seguenti considerazioni: a) era da escludere che la modifica intervenuta tra la dizione originaria dell’art. 48 contratto collettivo aziendale che faceva espresso riferimento alla somma di Lire 2.790 quale minimo garantito pro quota per ogni milione indiviso di mancia e quella delle versioni successive che avevano utilizzato la espressione ” minimo garantito individuato pro quota per milione indiviso di mancia” avesse portata sostanziale in quanto l’importo minimo garantito era sempre rimasto quello di Lire 2.790 pro quota per ogni milione indiviso di mancia; b) la disposizione relativa al minimo garantito era stata introdotta per assicurare i dipendenti addetti al settore roulette dal rischio di una riduzione di mance pro capite quale conseguenza dell’aumento dell’organico determinata dall’apertura di una nuova casa da gioco e dalla diffusione dei giochi che non comportavano la riscossione di mance a discapito dei giochi tradizionali; c) il valore di Lire 2.790, per come non contestato e comunque confermato dalla prova orale, era stato ottenuto dividendo Lire 500.000 (pari alla metà di un milione, e corrispondente alla percentuale di mance incassate destinate al personale) per 179, corrispondente al numero totale dei punti mancia del personale in organico al dicembre 1990 calcolato in applicazione del regolamento; il risultato di tale operazione, pari a Lire 2.793 era stato arrotondato a Lire 2.790; d) a fronte di una clausola di significato letterale non chiaro ed inequivoco, astrattamente idonea a sorreggere le contrapposte tesi delle parti, lo sforzo interpretativo doveva muovere dal rilievo che le parti avevano voluto letteralmente tenere fermo il principio della ripartizione delle mance, fra i lavoratori ed il Casinò nella misura in atto, vale a dire pari al 50% ciascuno delle mance incassate; alla luce di tale puntualizzazione andava letta la frase successiva la quale nel precisare comunque agli aventi diritto del reparto roulette sarà assicurato, da parte dell’Azienda, un minimo garantito di lire 2.790= pro-quota per ogni milione indiviso di mancia, aveva solo inteso evocare il punto di partenza del meccanismo di determinazione del minimo garantito e cioè il milione indiviso di mance ma non anche riconoscere che l’integrazione del minimo garantito dovesse essere effettuata sull’intero monte mance; non decisivo al fine della opposta lettura l’avverbio “comunque”, che introduce la proposizione, il quale si limitava a prevedere una deroga del tutto contenuta al principio della divisione a metà; e) le parti stipulanti avevano preso quale base aritmetica per determinare il minimo garantito sul totale del milione di mance la metà, pari a Lire 500.000, e quindi, logicamente, per la necessità di omogeneità dei riferimento, anche la base di calcolo della integrazione deve corrispondere alla metà di pertinenza dei lavoratori; era da respingere a riguardo l’argomento secondo il quale in tal modo si sarebbe verificata una duplice riduzione (la prima nel calcolo del dividendo e la seconda nella determinazione del monte mance) posto che secondo quanto emergeva dalla lettera della clausola le parti non avevano introdotto una regola di ripartizione delle mance in sè ma avevano, fermo il criterio di ripartizione, inteso porre a carico della parte datoriale solo un obbligo di integrazione in via eventuale, al quale il datore di lavoro avrebbe fatto fronte attingendo alla propria metà; l’espressione milione indiviso di mancia preceduta dal riferimento al pro quota era idonea a sorreggere l’affermazione che il minimo garantito dovesse essere verificato con riferimento alla sola quota di spettanza dei dipendenti e non anche sull’intero; f) il comportamento complessivo delle parti, anche posteriore, rilevante ex art. 1362 c.c., confermava l’interpretazione adottata, nè vi erano elementi, non allegati dalle parti, per ritenere, sotto il profilo della comune intenzione degli stipulanti, che il Casinò avrebbe accettato la introduzione di un meccanismo che non si limitava a prevedere un obbligo di integrazione su un importo minimo ma finiva con l’addossare alla sola parte datoriale le conseguenze negative per i dipendenti connesse all’aumento di organico; g) la esistenza di un’ ipotesi accordo nel luglio 2007, con il quale il Casinò si dichiarava disponibile a variare la percentuale delle mance in senso più favorevole ai lavoratori, a differenza di quanto sostenuto dagli originari ricorrenti, costituiva argomento a sostegno della interpretazione adottata in quanto proprio il fatto che un accordo successivo aveva avuto a esplicito e specifico oggetto la percentuale di ripartizione delle mance confermava che con la clausola in controversia le parti avevano inteso apportare un correttivo minimo, sostanzialmente non sensibile a modesti aumenti di organico, all’impianto della divisione a metà del monte mance; h) infine, a conferma della ricostruzione della comune volontà delle parti nei termini sopraindicati era la prova orale e documentale che dimostrava come, senza contestazione alcuna da parte dei dipendenti, le modalità di determinazione concreta del minimo garantito fossero state computate dall’Azienda sulla base della sola percentuale di mance spettante ai lavoratori.

13. Le censure formulate con i motivi in esame non sono articolate con modalità idonee ad inficiare le argomentazioni del giudice di appello che sorreggono la interpretazione della clausola in oggetto.

13.1. La condivisibile giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che l’interpretazione del contratto e degli atti di autonomia privata costituisce un’attività riservata al giudice di merito ed è censurabile in sede di legittimità soltanto per violazione dei criteri legali di ermeneutica contrattuale ovvero per vizi di motivazione, qualora la stessa risulti contraria a logica o incongrua, cioè tale da non consentire il controllo del procedimento logico seguito per giungere alla decisione; ai fini della censura di violazione dei canoni ermeneutici, non è sufficiente l’astratto riferimento alle regole legali di interpretazione, ma è necessaria la specificazione dei canoni in concreto violati, con la precisazione del modo e delle considerazioni attraverso i quali il giudice di merito se ne è discostato mentre la denuncia del vizio di motivazione dev’essere, invece, effettuata mediante la precisa indicazione delle lacune argomentative, ovvero delle illogicità consistenti nell’attribuzione agli elementi di giudizio di un significato estraneo al senso comune, oppure con l’indicazione dei punti inficiati da mancanza di coerenza logica, e cioè connotati da un’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti, sempre che questi vizi emergano appunto dal ragionamento logico svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza. In ogni caso, per sottrarsi al sindacato di legittimità, non è necessario che quella data dal giudice sia l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, sicchè, quando di una clausola siano possibili due o più interpretazioni, non è consentito alla parte, che aveva proposto l’interpretazione disattesa dal giudice, dolersi in sede di legittimità del fatto che ne sia stata privilegiata un’altra (Cass. 03/09/2010 n. 19044; Cass. 12/07/2007 n. 15604, in motivazione; Cass. 22/02/2007 n. 4178), dovendosi escludere che la semplice contrapposizione dell’interpretazione proposta dal ricorrente a quella accolta nella sentenza impugnata rilevi ai fini dell’annullamento di quest’ultima (Cass. 06/06/2013 n. 14318; Cass. 22/11/2010, n. 23635).

13.2. Le censure articolate dagli odierni ricorrenti non sono conformi a tali prescrizioni posto che la denunzia, sotto vari profili, della violazione delle regole legali di interpretazioni, nelle quali si sostanziano i motivi in esame, si sviluppa secondo un’impostazione per così dire meramente contrappositiva, che si limita a prospettare una possibile, diversa interpretazione, alla luce dei criteri legali di interpretazione, senza evidenziare alcuno specifico errore della sentenza rifluente nelle violazione delle regole legali di interpretazione.

13.3. Venendo all’esame dei singoli motivi si rileva che il primo motivo del ricorso principale presenta uno specifico profilo di inammissibilità in quanto fondato sull’errato presupposto che la sentenza impugnata avrebbe motivato prevalentemente con riguardo al dato letterale laddove il giudice di appello, dato espressamente atto della natura ambigua ed equivoca della clausola in oggetto, ne ha ricostruito il significato sulla base di criteri ulteriori rispetto a quello testuale (v. sentenza, pag. 17).

13.4. Il secondo motivo è da respingere in quanto non individua uno specifico errore di diritto nella utilizzazione delle regole legali di interpretazioni ma si limita ad opporre all’interpretazione condivisa dalla Corte l’assunto che la espressione “milione indiviso di mance” implicasse necessariamente che il minimo garantito dovesse essere calcolato sulla intera quota degli incassi delle mance e non solo su quella di pertinenza dei lavoratori.

13.5. Il terzo motivo è anch’esso privo di pregio. Se in tesi è corretta l’affermazione dei ricorrenti, siccome conforme alla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale, in tema di interpretazione del contratto, per la identificazione della comune intenzione delle parti, ai sensi dell’art. 1362 c.c., comma 2 – il quale si riferisce al comportamento dei contraenti – non si può tener conto del comportamento dei soggetti che quel contratto non hanno posto in essere (Cass. 04/05/1991, n. 4914), in concreto la sentenza si sottrae alla doglianza articolata in quanto, nel ricostruire la comune intenzione delle parti alla stregua del comportamento successivo delle stesse, il giudice di appello ha fatto riferimento oltre che, come ovvio, alla condotta del Casinò, specificamente a quella della parte sindacale, sia laddove ha richiamato la deposizione resa in causa connessa dal teste Moscheni rappresentante sindacale sottoscrittore dell’accordo (v. sentenza pag. 20), sia laddove ha evidenziato che la parte sindacale era rimasta inerte anche dopo la segnalazione di errori di quantificazione da parte dei lavoratori (v. sentenza, pag. 25).

13.6. Il quarto motivo di ricorso risulta inammissibile alla stregua di quanto già rappresentato nell’esame del terzo motivo, restando da puntualizzare che la invocata valorizzazione dell’accordo dell’anno 2007 in senso contrario a quanto ritenuto dalla Corte di appello, vale a dire come espressione della consapevolezza da parte della società datrice della onerosità della clausola di cui si discute, attiene ad una valutazione tipicamente riservata al giudice di merito e sottratta pertanto al sindacato di legittimità.

13.7. Parimenti infondato il quinto motivo in quanto il risultato interpretativo cui è pervenuto il giudice di appello è frutto della considerazione complessiva delle clausole contrattuali mentre la valutazione del relativo significato negoziale attiene al merito, non inficiato dalle censure articolate che non evidenziano alcuna implausibilità ed illogicità del percorso interpretativo del giudice di secondo grado.

13.8. Il sesto motivo è inammissibile per la sua genericità in quanto a fronte della argomentata ricostruzione alla quale è pervenuta la Corte di appello in ordine al significato dell’espressione “milione indiviso”, si limita a riproporre in termini apodittici l’assunto alla base della pretesa azionata circa la riferibilità di tale espressione alla base sulla calcolare l’integrazione del trattamento minimo garantito.

13.9. Il settimo motivo è infondato poichè il criterio interpretativo dell’equo contemperamento dell’interesse delle parti, prescritto dall’art. 1371 c.c. costituisce criterio residuale cui – come espressamente dispone la norma – è consentito ricorrere solo quando nonostante l’applicazione delle precedenti regole interpretative il contratto rimanga oscuro (Cass. 28/07/2000, n. 9921) di talchè avendo la Corte di appello mostrato di essere riuscita a pervenire sulla base di diversi strumenti interpretativi alla chiarificazione del significato negoziale della clausola in esame non vi era ragione del ricorso al criterio sussidiario di cui all’art. 1371 c.c..

14. L’ottavo motivo di ricorso è infondato. Dal ricorso per cassazione si evince che la richiesta di condanna al tfr si poneva come consequenziale alla domanda di ricalcolo del minimo garantito alla luce della interpretazione dell’accordo aziendale propugnata dai ricorrenti. Da tanto deriva che alcun omesso esame (rectius: pronunzia) è configurabile in relazione a tale domanda il cui rigetto implicito costituisce la conseguenza del mancato accoglimento della domanda di ricalcolo delle differenze sul minimo garantito.

15. Al rigetto del ricorso principale consegue l’assorbimento del ricorso incidentale condizionato.

16. Le spese di lite sono regolate secondo soccombenza.

17. Sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti principali dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 bis (Cass. Sez. Un. 20/09/2019 n. 23535).

PQM

La Corte rigetta il ricorso principale assorbito il ricorso incidentale. Condanna i ricorrenti principali alla rifusione delle spese di lite che liquida in Euro 5.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti principali dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 16 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 dicembre 2020

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