Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28207 del 10/12/2020

Cassazione civile sez. II, 10/12/2020, (ud. 28/10/2020, dep. 10/12/2020), n.28207

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 13438-2016 proposto da:

G.D.A.L., e C.L., rappresentati e difesi

dall’Avvocato M. RINO ORIOLI, ed elettivamente domiciliati a Roma,

viale Mazzini 119, presso lo studio dell’Avvocato ORESTE BISAZZA

TERRACINI, per procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

C.G., rappresentato e difeso dall’Avvocato DANIELA

SPINA, presso il cui studio ad Arona, corso Liberazione 35,

elettivamente domicilia, per procura speciale in calce al

controricorso;

– controricorrente –

nonchè

D.B.P.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 102/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 15/1/2016;

udita la relazione della causa svolta nell’udienza pubblica del

28/10/2020 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO;

sentito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale della Repubblica Dott. DE RENZIS Luisa, la quale ha

concluso per il rigetto del ricorso;

sentito, per i ricorrenti, l’Avvocato ORESTE BISAZZA TERRACINI;

sentita per il controricorrente l’avvocato GIAMMARIA CAMICI, per

delega dell’avv. DANIELA SPINA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

C.G., con atto notificato a G.D.A.L. e C.L. e, quale mera litis denuntiatio, a D.B.P., ha proposto appello avverso la sentenza con la quale, in data 5/6/2013, il tribunale di Busto Arsizio, in accoglimento della domanda proposta da quest’ultima con atto di citazione del 25/3/2010, ha, innanzitutto, dichiarato la risoluzione del contratto di compravendita immobiliare che la stessa aveva stipulato, come acquirente, in data 31/3/2008, ed ha, in secondo luogo, condannato il Ca., e cioè il venditore, alla restituzione, in favore dell’attrice, dell’importo di Euro 150.800,00, versato quale prezzo, ed al pagamento, a titolo di risarcimento dei danni dalla stessa subiti, della somma di Euro 11.423,37, in corrispondenza alle spese sostenute per l’acquisto dell’immobile, oltre al rimborso delle spese per accertamento tecnico preventivo, pari ad Euro 3.260,76, respingendo, tuttavia, la domanda di garanzia che il Ca. aveva, a sua volta, proposto nei confronti del geom. G., direttore dei lavori, e dell’arch. C., progettista, nominati entrambi dallo stesso appellante.

Secondo il tribunale, infatti, nè il direttore dei lavori nè il progettista potevano essere considerati responsabili dell’inadempimento dell’impresa venditrice nei confronti della D.B. per aver trasferito un immobile ad uso abitativo e, secondo il contratto, oggetto di intervento di ristrutturazione, senza averlo ristrutturato e privo delle condizioni di abitabilità. Il venditore, peraltro, ha aggiunto il tribunale, in qualità di impresa appaltatrice, non poteva che essere a conoscenza della situazione dell’immobile e degli interventi realmente effettuati. Infine, ha concluso il tribunale, il C., con dichiarazione di conformità, aveva attestato la realizzazione delle opere volte ad assicurare la salubrità dell’unità immobiliare che, invece, era insussistente.

La corte d’appello, con la sentenza in epigrafe, ha parzialmente accolto l’appello ed, in riforma della sentenza impugnata, ha dichiarato di accogliere “la domanda di garanzia” che Ca.Gi. aveva proposto nei confronti del geom. G.D.A.L., con comparsa di risposta del 28/6/2010, e dell’arch. C.L., con atto di citazione per chiamata in causa notificato il 22/7/2010, e, ritenuta l’applicabilità dell’art. 1227, comma 1, ha condannato gli appellati al risarcimento dei danni arrecati all’appellante (pari ad Euro 46.365,00 quale somma necessaria per la eliminazione dei difetti e di ripristino dell’immobile, ad Euro 11.423,37 per il danno subito dalla D.B. per le spese sostenute per l’acquisto, e ad Euro 3.260,76 per spese di consulenza tecnica di parte e di consulenza tecnica d’ufficio poste a suo carico), nella misura della metà, liquidandoli, rispettivamente, nella somma di Euro 9.157,37 (pari al 30%) e nella somma di Euro 21.367,20 (pari al 70%), oltre interessi.

La corte, in particolare, per quanto ancora interessa, dopo aver premesso che, pur trattandosi di manutenzione ordinaria, il venditore aveva l’obbligo di garantire la salubrità degli ambienti, così come il direttore dei lavori ed il progettista avevano l’obbligo di verificare tale salubrità non potendo, altrimenti, l’immobile considerarsi come abitabile, ha rilevato che, nel caso di specie, come risulta dalla relazione del consulente tecnico d’ufficio, i vizi lamentati dall’acquirente D.B. erano da riferire alla “mancanza di vespaio aerato sotto il pavimento”, alla mancanza o insufficienza di “idonea impermeabilizzazione del solaio al piano terra e delle porzioni di muri contro terra”, ed alla “mancanza di isolamento dei muri perimetrali”.

La corte, quindi, ha evidenziato che, durante la ristrutturazione ed il risanamento del vetusto edificio, il progettista avrebbe dovuto prevedere ed il direttore dei lavori avrebbe dovuto far mettere in atto dall’impresa idonei sistemi impermeabilizzanti (barriere) per impedire la risalita capillare dell’acqua, “cosa che qui non è stata fatta”: una casa al piano terra, infatti, per essere abitabile, ha osservato la corte con espresso riferimento alla consulenza tecnica d’ufficio, “deve avere un vespaio aerato, ed un sistema di circolazione dell’aria sotto il solaio, muri contro terra ben impermeabilizzati, e pareti perimetrali isolate, tutte opere qui mancanti”.

D’altra parte, ha aggiunto la corte, si tratta di vizi di progettazione poichè il progettista ha l’obbligo non solo di rispettare le norme di legge ma anche di rappresentare sugli elaborati grafici esecutivi in maniera chiara e fedele le caratteristiche della costruzione esistente, laddove, al contrario, non vi è, nel caso di specie, alcuna corrispondenza tra l’unità immobiliare in questione e le caratteristiche tecniche di quest’ultima e quelle indicate nella DIA e nella correlata relazione ai sensi della L. n. 10 del 1991, art. 28.

La corte, quindi, ha ritenuto che il progettista, al pari del direttore dei lavori, “in relazione al dovere d’alta sorveglianza, certamente riferibile ad un profilo rilevante al punto da valere come concausa per la risoluzione della vendita”, avrebbero dovuto, per quanto di spettanza, verificare la correttezza del progetto ed informare il Ca. delle gravi carenze costruttive originarie, così come riscontrate dal consulente tecnico d’ufficio, proponendo al medesimo un intervento manutentivo ben più incisivo: “la liberazione dall’obbligo in parola sarebbe potuto derivare soltanto da un esplicito e specifico rifiuti opposto dal Ca. a siffatta proposta, ciò di cui, tuttavia, non v’è qui prova idonea”.

La corte, quindi, evidenziata la mancanza di una prova idonea a dimostrare che il C. avesse l’effettiva consapevolezza della mancanza del vespaio aerato e delle altre carenze costruttive, ha ritenuto, d’altra parte, che lo stesso, in quanto imprenditore edile (e, perciò tenuto, nell’adempimento della propria obbligazione verso l’acquirente, alla diligenza prevista dall’art. 1176 c.c., comma 2), avrebbe potuto agevolmente verificare, “con modesti saggi”, la sussistenza dei gravi difetti accertati dal consulente tecnico d’ufficio: ciò significa, ha aggiunto la corte, che l’appellante, pur se danneggiato dal colposo inadempimento dei due professionisti incaricati, vi ha concorso ai sensi dell’art. 1227 c.c., comma 1.

Ne consegue, ha concluso la corte, che tanto il geom. G., quanto l’arch. C. sono tenuti al ristoro del danno subito dal C., per “colpa professionale”, “qui espressamente invocata dall’appellante (appello, pag. 18), e reiterata rispetto alla comparsa di costituzione e risposta, depositata in primo grado in data 28.6.2010 ed all’atto di chiamata in garanzia in primo grado (cui è allegata la comparsa di costituzione e risposta, in particolare sub lettera f), pag. 13, 14), notificato all’arch. C. in data 22.2.2010”.

Secondo la corte, quindi, gli appellati sono tenuti al risarcimento dei danni arrecati all’appellante (pari ad Euro 46.365,00, “pari al costo di eliminazione dei difetti e ripristino dell’immobile”, ad Euro 11.423,37, per il danno subito dalla D.B. “per spese correlate all’acquisto dell’immobile”, e ad Euro 3.260,76, per spese di consulenza tecnica di parte e di consulenza tecnica d’ufficio poste a carico del C.), nella misura pari alla metà, ponendoli, in ragione dell’evidente differenza di contenuto tra la prestazione dagli stessi dovuta, a carico del direttore dei lavori per il 30% (pari ad Euro 9.157,37) e del progettista per il restante 70% (pari ad Euro 21.367,20), oltre interessi.

La corte, invece, ha ritenuto che il danno da deprezzamento dell’immobile, e cioè il pregiudizio conseguito alla nota crisi del mercato immobiliare apertasi nel 2008 e non al fatto che i difetti riscontrati dal consulente tecnico d’ufficio fossero ineliminabili, non era stato ben dimostrato; in ogni caso, ha aggiunto la corte, nel marzo del 2006, quando cioè furono conferiti gli incarichi professionali in questione, tale danno appariva ancora del tutto imprevedibile e, perciò, escluso dal ristoro per manleva.

G.D.A.L. e C.L., con ricorso notificato in data 19/5/2016, hanno chiesto, per tre motivi, la cassazione della sentenza della corte d’appello, dichiaratamente notificata il 23/3/2016.

C.G. ha resistito con controricorso notificato il 29/6/2016.

D.B.P. è rimasta intimata.

I ricorrenti hanno depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo, i ricorrenti, lamentando la “violazione degli artt. 112 e 345 c.p.c. e art. 132 c.p.c. per omessa, contraddittoria e insufficiente motivazione su di un punto decisivo della controversia costituito dalla denunciata violazione dei limiti della domanda originaria e dall’accoglimento sostanziale di una domanda introdotta solo in sede di appello”, hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, in accoglimento della domanda di garanzia fondata sui contratti di prestazione d’opera professionale che il C. aveva stipulato con il geom. G. e con l’arch. C., ha condannato gli stessi al risarcimento dei danni nei confronti dell’appellante, sia pure per la metà in ragione della concorrente colpa di quest’ultimo, che ha determinato con riguardo tanto al costo degli interventi di ripristino, pari ad Euro 46.365,00 oltre IVA, quanto ai danni liquidati in favore dell’attrice, pari ad Euro 11.423,37.

1.2. Così facendo, infatti, hanno osservato i ricorrenti, la corte non ha considerato che l’oggetto della domanda in accoglimento della quale ha disposto la condanna, risultava circoscritta nei limiti di una mera manleva dalle conseguenze patrimoniali della pretesa attorea, finendo, così, per riconoscere all’appellante il più ampio contenuto dell’ulteriore domanda formulata da quest’ultimo, in via subordinata, per la prima volta con l’atto d’appello.

1.3. La corte d’appello, quindi, in violazione tanto dell’art. 112 c.p.c., quanto dell’art. 345 c.p.c., da un lato, è andata oltre i limiti della domanda sulla quale in apparenza si è pronunciata, e, dall’altro lato, ha finito per accogliere la distinta domanda tardivamente introdotta solo con l’atto d’appello, peraltro senza minimamente motivare le ragioni di una simile soluzione.

1.4. L’oggetto della domanda proposta in primo grado, hanno proseguito i ricorrenti, era stato espressamente determinato con esclusivo riguardo all’ammontare delle somme cui il C. sarebbe stato tenuto verso l’attrice per effetto dell’accoglimento della relativa pretesa, per cui la garanzia impropria dallo stesso invocata si esauriva in una mera manleva dal preteso esborso, senza che dalla stessa potessero farsi derivare altre conseguenze in termini risarcitori.

1.5. Per contro, hanno aggiunto i ricorrenti, l’ulteriore addebito, e cioè il risarcimento dei costi di ripristino, ha costituito l’oggetto di una nuova e distinta domanda che il C. ha proposto solo in appello, lì dove, in via subordinata, formulando una “richiesta mai prima autonomamente avanzata in termini che la svincolassero dai limiti rivenienti dall’accoglimento della domanda attorea in origine posti all’oggetto della domanda”, ha chiesto di dichiarare che l’arch. C. ed il geom. G. erano tenuti a tenerlo indenne dalle domande proposte nei suoi confronti dalla D.B. e, quindi, di condannare gli stessi a rifonderlo, tra l’altro, della somma di Euro 46.365,00, pari alla somma necessaria per eliminare i vizi dell’immobile.

1.6. La sentenza impugnata, quindi, hanno concluso i ricorrenti, ha pronunciato oltre i limiti della domanda proposta ovvero su una domanda tardivamente introdotta e come tale inammissibile.

2.1. Il motivo è fondato. Gli atti processuali, direttamente esaminati dalla Corte in ragione della natura processuale del vizio denunciato, dimostrano, in effetti, come del resto confermato dalla sua testuale riproduzione nella sentenza di primo grado, che la domanda originariamente proposta dal C. era stata quella di “ritenere e dichiarare” che l’arch. C. ed il geom. G., nelle rispettive qualità di progettista e di direttore dei lavori, fossero, per l’ipotesi di accoglimento anche parziale della domanda dell’attrice, “tenuti a garantire, tenere indenne, manlevare…l’Impresa edile con ditta C.G.,…, da ogni domanda proposta nei suoi confronti da parte dell’attrice, e quindi di quanto dovesse essere eventualmente tenuta a corrispondere, a qualunque titolo, a quest’ultima, e pertanto condannare gli stessi,…, a corrispondere direttamente tutte le somme che, a qualunque titolo, risulteranno dovute all’attrice, o comunque a rifondere all’Impresa edile con ditta C.G.,…, tutte le somme che eventualmente la stessa sarà tenuta a corrispondere, a qualunque titolo, all’attrice, per capitale, interessi e spese legali, comunque ed in ogni caso con condanna dei soggetti ut sopra a tenere indenne, per garanzia e manleva, la convenuta da tutte le domande proposte dall’attrice nei confronti di quest’ultima, in ogni loro contenuto” (v. la comparsa di risposta depositata in data 28/6/2010, p. 18 e 19, e l’atto di chiamata in causa dell’arch. C., p. 18 e 19 ed in fine), “quindi” – come precisa la sentenza di primo grado (p. 3, con espresso riferimento alla memoria di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6, n. 2) – “incluso l’obbligo di garanzia e manleva degli stessi in relazione all’avvenuta svalutazione dell’immobile, quale indiretto elemento di quantificazione di quel surplus che l’impresa convenuta sarà in ipotesi tenuta a restituire all’attrice, ricavandone pregiudizio”.

2.2. Nell’atto d’appello, invece, il C., per un verso, ha ribadito, in sostanza, l’iniziale domanda di “ritenere e dichiarare” l’arch. C. ed il geom. G., nelle rispettive qualità di progettista e di direttore dei lavori, “tenuti a garantire, tenere indenne, manlevare… la ditta individuale C.G…. da ogni domanda proposta nei suoi confronti da parte dell’attrice, e quindi di quanto dovesse essere eventualmente tenuta a corrispondere, a qualunque titolo, a quest’ultima, e pertanto condannare gli stessi… a rifondere alla ditta individuale C.G…. tutte le somme che eventualmente la stessa sarà tenuta a corrispondere, a qualunque titolo, all’attrice, per capitale, interessi e spese legali, comunque ed in ogni caso con condanna dei soggetti ut sopra a tenere indenne, per garanzia e manleva, la convenuta da tutte le domande proposte dall’attrice nei confronti di quest’ultima, in ogni loro contenuto, quindi incluso l’obbligo di garanzia e manleva degli stessi in relazione all’avvenuta svalutazione dell’immobile, quale indiretto elemento di quantificazione di quel surplus che l’impresa convenuta sarà in ipotesi tenuta a restituire all’attrice, ricavandone pregiudizio”; e, per altro verso, ha chiesto di “ritenere e dichiarare” l’arch. C. ed il geom. G. “tenuti a garantire e/o tenere indenne la ditta individuale C.G…. parzialmente dalle domande proposte nei suoi confronti da parte” dell’attrice “e quindi di quanto è tenuta a corrispondere, a qualunque titolo, a quest’ultima, e pertanto condannare gli stessi… a rifondere alla ditta individuale C.G…. la somma di Euro 61.049,13 (di cui Euro 46.365,00 corrispondente alla somma necessaria per eliminare i vizi dell’immobile, Euro 3.260,76 per spese di CTU liquidate e poste a carico dell’appellante ed Euro 11.423,37 per i danni cui l’odierna appellante è stata condannata dal Giudice di prime cure) o nella somma minore ritenuta di giustizia,…, oltre alla somma di Euro 21.750,00 corrispondente all’avvenuta svalutazione dell’immobile, quale indiretto elemento di quantificazione di quel surplus che l’impresa convenuta è tenuta a restituire” all’attrice, “ricavandone pregiudizio…” (v. l’atto d’appello, p. 36 e 37, e la sentenza impugnata, p. 2 e 3).

2.3. Risulta, dunque, evidente come, nel giudizio innanzi al tribunale, il C. avesse domandato la condanna dell’arch. C. e del geom. G. al pagamento, in suo favore, delle somme (e solo di queste) che lo stesso sarebbe stato eventualmente tenuto a corrispondere, a qualunque titolo, all’attrice, per capitale, interessi e spese legali: viceversa, nel giudizio innanzi alla corte d’appello, l’appellante, pur essendo stato condannato dal tribunale (tra l’altro) al risarcimento dei danni subiti dall’originaria attrice nei limiti della somma di Euro 11.423,37 (in corrispondenza alle spese sostenute per l’acquisto dell’immobile, e della somma di Euro 3.260,76, quale rimborso delle spese per l’accertamento tecnico preventivo) ha domandato la condanna dell’arch. C. e del geom. G. al pagamento, in suo favore, della somma complessiva di Euro 61.049,13, “di cui Euro 46.365,00 corrispondente alla somma necessaria per eliminare i vizi dell’immobile, Euro 3.260,76 per spese di CTU liquidate e poste a carico dell’appellante ed Euro 11.423,37 per i danni cui l’odierna appellante è stata condannata dal Giudice di prime cure”: vale a dire, evidentemente, non solo di quanto era stato condannato a corrispondere all’attrice (pari, come detto, ad Euro 3.260,76, “per spese di CTU liquidate e poste a carico dell’appellante” e ad Euro 11.423,37, “per i danni cui l’odierna appellante è stata condannata dal Giudice di prime cure”) ma anche della somma, pari ad Euro 46.365,00, “necessaria per eliminare i vizi dell’immobile”: un importo, quindi, che, pur se fondato sulla medesima causa petendi, e cioè l’inadempimento agli obblighi conseguenti al contratto di prestazione d’opera professionale stipulato con l’arch. C. ed il geom. G. (v. la comparsa di risposta, p. 13 e 14, e l’atto di chiamata in causa, p. 13 e 14), risulta del tutto esorbitante rispetto al petitum azionato in primo grado, limitato solo alle somme (poi determinate in Euro 3.260,76, “per spese di CTU liquidate e poste a carico dell’appellante” e in Euro 11.423,37, “per i danni cui l’odierna appellante è stata condannata dal Giudice di prime cure”) cui lo stesso, quale venditore convenuto, sarebbe stato eventualmente tenuto a corrispondere, a qualunque titolo, all’acquirente attrice per capitale, interessi e spese legali.

2.4. La corte d’appello, pertanto, lì dove ha condannato gli appellati al risarcimento dei danni arrecati all’appellante, determinandoli nella somma di Euro 46.365,00 (“pari al costo di eliminazione dei difetti e ripristino dell’immobile”), di Euro 11.423,37 (per il danno subito dalla D.B. “per spese correlate all’acquisto dell’immobile”) e di Euro 3.260,76 (per spese di consulenza tecnica di parte e di consulenza tecnica d’ufficio poste a carico del C.) e liquidandoli (nella misura della metà in ragione della ritenuta applicazione dell’art. 1227 c.c., comma 1) in Euro 9.157,37 (pari al 30%, a carico del G.) ed in Euro 21.367,20 (pari al 70%, a carico del C.), oltre interessi, non ha, evidentemente, rispettato i limiti imposti dalla domanda così come originariamente proposta in giudizio dall’appellante: finendo, così, per accogliere, relativamente alla somma necessaria per l’eliminazione dei difetti e di ripristino dell’immobile, una domanda formulata, in ordine a tale parte, per la prima volta solo con l’atto d’appello ed, in quanto tale, a norma dell’art. 345 c.p.c., comma 1, inammissibile (cfr. Cass. SU n. 157 del 2020, secondo la quale il divieto di proporre domande nuove in appello, previsto dall’art. 345 c.p.c., comma 1, è posto a tutela di un interesse di natura pubblicistica, sicchè la relativa violazione è rilevabile in sede di legittimità anche d’ufficio, senza che possa spiegare alcuna influenza l’accettazione del contraddittorio; conf. Cass. n. 20557 del 2014).

3.1. Con il secondo motivo, i ricorrenti, lamentando l’omesso esame di un fatto decisivo e la violazione dell’art. 132 c.p.c. per insufficiente, inadeguata e contraddittoria motivazione su aspetto fondamentale della controversia, hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, senza chiarire le ragioni di tale suo apparente convincimento, ha ritenuto che non vi fosse la prova che il C. avesse l’effettiva consapevolezza della mancanza del vespaio areato e delle altre carenze costruttive.

3.2. Così facendo, infatti, hanno osservato i ricorrenti, la corte d’appello, innanzitutto, ha reso una pronuncia contraddittoria, avendo, in seguito, ritenuto che i gravi difetti sarebbero stati agevolmente verificabili dall’appellante, imprenditore del settore edile, tanto da ravvisare nella sua condotta gli estremi della colpa.

3.3. In realtà, hanno aggiunto i ricorrenti, il C. era perfettamente a conoscenza del fatto che il fabbricato, risalente agli anni ‘60, non disponeva di particolari dispositivi di impermeabilizzazione delle fondazioni e delle murature perimetrali, così come di presidi atti a garantire forme di isolamento termico, deponendo in tal senso due fatti che la corte d’appello ha omesso di esaminare, e cioè, innanzitutto, il riconoscimento operato dal C. in corso di causa, nella memoria istruttoria, della presenza, al di sotto dell’edificio, di un semplice vespaio tradizionale; ed, in secondo luogo, la decisione del Cammisuli, presa dopo aver eseguito semplici opere di manutenzione, di vendere l’unità immobiliare come ristrutturata. La decisione di vendere come ristrutturato ciò che non lo era affatto e la sua attuazione dopo l’esecuzione di mere opere di manutenzione, entrambe riconducibili ad un unico soggetto, e cioè il costruttore-venditore, hanno rappresentato, secondo il noto criterio della causalità giuridica, una causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l’evento, idonea, quindi, a rendere irrilevante ogni altra causa potenzialmente idonea a determinarlo.

3.4. Gli appellati, quindi, hanno aggiunto i ricorrenti, non potevano essere ritenuti responsabili della risoluzione della compravendita e, quindi, dei relativi danni, derivando l’una e gli altri solo dalla mancanza, nell’immobile, di una qualità, e cioè la ristrutturazione, che il costruttore-venditore aveva promesso pur sapendo perfettamente della sua inesistenza, e dalla scelta del costruttore di conservare l’edificio nelle condizioni originarie, escludendo ogni differente forma di intervento.

4.1. Il motivo è infondato.

4.2. Intanto, la questione concernente la configurazione della decisione dell’appellante di vendere l’immobile come ristrutturato in termine di causa sopravvenuta non risulta trattata dalla sentenza impugnata. Ed è, invece, noto come, secondo il costante insegnamento di questa Corte (cfr. Cass. n. 20518 del 2008; Cass. n. 6542 del 2004; più di recente, Cass. n. 20694 del 2018), qualora una determinata questione giuridica che implichi un accertamento di fatto non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di specificità dei motivi del ricorso in cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa: ciò che, nella specie, non risulta essere accaduto.

4.3. Quanto al resto, esclusa l’insanabile contraddizione logica e giuridica tra la statuizione con la quale la corte d’appello ha escluso che il committente non aveva avuto effettiva consapevolezza delle carenze costruttive e quella con la quale la stessa corte ne ha, tuttavia, ritenuto, in ragione dell’attività svolta, la diligente conoscibilità da parte dello stesso pur avendola, in fatto, ignorata, il collegio ritiene che le censure svolte dai ricorrenti si risolvano in un’inammissibile richiesta di rivalutazione, in sede di legittimità, dei fatti accertati dal giudice di merito, come la mancanza di consapevolezza in capo al committente della mancanza del vespaio areato e delle altre carenze costruttive. In realtà, secondo le Sezioni Unite di questa Corte (n. 8053 del 2014), l’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo in vigore ratione temporis, consente di consente di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia, nella specie neppure invocata, si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (così, più di recente, Cass. n. 27415 del 2018, in motiv.; Cass. n. 14014 del 2017, in motiv.; Cass. n. 9253 del 2017, in motiv.). Al di fuori di tale omissione, il controllo del vizio rimane, pertanto, circoscritto alla sola verifica dell’esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost. ed individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte formatasi in materia di ricorso straordinario – in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità. Pertanto, laddove non si contesti – come nel caso di specie – l’inesistenza, nei termini predetti, del requisito motivazionale del provvedimento giurisdizionale, il vizio di motivazione può essere dedotto soltanto in caso di omesso esame di un “fatto storico” controverso, che sia stato oggetto di discussione ed appaia “decisivo” ai fini di una diversa decisione, non essendo più consentito impugnare la sentenza per criticare la sufficienza del discorso argomentativo giustificativo della decisione adottata sulla base di elementi fattuali ritenuti dal giudice di merito determinanti ovvero scartati in quanto non pertinenti o recessivi (Cass. n. 23940 del 2017, in motiv.). Ne consegue che il ricorrente, che denuncia il vizio previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5, ha l’onere, previsto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, di indicare non una mera “questione” o un semplice “punto” della sentenza ma il “fatto storico”, principale (e cioè il fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) ovvero secondario (cioè dedotto in funzione di prova di un fatto principale) – vale a dire un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza naturalistica, un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante (Cass. n. 27415 del 2018, in motiv.; Cass. n. 17761 del 2016; Cass. n. 29883 del 2017; Cass. n. 21152 del 2014; Cass. SU. n. 5745 del 2015) – il cui esame sia stato del tutto omesso, nonchè il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti ed, infine, la sua “decisività” (Cass. n. 14014 del 2017, in motiv.; Cass. n. 9253 del 2017, in motiv.; Cass. n. 20188 del 2017, in motiv.). L’omesso esame di elementi istruttori non dà luogo, pertanto, al vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie (Cass. n. 9253 del 2017, in motiv.). E’, quindi, inammissibile la deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 per sostenere semplicemente il mancato esame di deduzioni istruttorie ovvero di documenti da parte del giudice del merito (Cass. n. 27415 del 2018, in motiv.). Nel caso di specie, i ricorrenti non hanno specificamente dedotto quali sono stati i fatti storici, nei termini prima esposti, che, seppur allegati nel corso del giudizio di merito e decisivi ai fini di una diversa pronuncia ad essi (in ipotesi) favorevole, la corte d’appello avrebbe omesso di esaminare, limitandosi, piuttosto, a sollecitare un’inammissibile rivalutazione del materiale istruttorio acquisito nel corso del giudizio. La valutazione delle prove raccolte, infatti, anche se si tratta di presunzioni (Cass. n. 2431 del 2004; Cass. n. 12002 del 2017; Cass. n. 1234 del 2019), costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione (Cass. n. 11176 del 2017, in motiv.). Rimane, pertanto, estranea al vizio previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5 qualsiasi censura volta a criticare il “convincimento” che il giudice si è formato, a norma dell’art. 116 c.p.c., commi 1 e 2, in esito all’esame del materiale probatorio mediante la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova. La deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 non consente, quindi, di censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendo alla stessa una diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito. Com’è noto, il compito di questa Corte non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dai giudici di merito (Cass. n. 3267 del 2008), dovendo, invece, solo controllare se costoro abbiano dato conto delle ragioni della loro decisione e se il loro ragionamento probatorio, qual è reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto nei limiti del ragionevole e del plausibile (Cass. n. 11176 del 2017, in motiv.): come, in effetti, è accaduto nel caso in esame. La corte d’appello, invero, dopo aver valutato le prove raccolte in giudizio, ha, in modo logico e coerente, indicato le ragioni per le quali (non importa se a ragione o a torto) ha escluso, in fatto, che il committente fosse consapevole delle carenze costruttive.

5.1. Con il terzo motivo, i ricorrenti, lamentando la violazione dell’art. 1223 c.c. dell’art. 132 c.p.c., hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, condannandoli al parziale risarcimento del danno subito dal C., ha ritenuto la coincidenza di tale pregiudizio non solo con gli oneri sostenuti dall’attrice in funzione dell’acquisto della casa ma anche con i costi di ripristino come stimati dal consulente tecnico d’ufficio.

5.2. Così facendo, infatti, hanno osservato i ricorrenti, la corte ha finito, in modo del tutto illogico, per addossare agli appellati l’intero peso della ristrutturazione, comprendendovi costi ed oneri che sotto nessun profilo possono considerarsi come una perdita in cui il committente venditore è incorso a causa dell’affermato errore professionale.

5.3. Il motivo è assorbito dall’accoglimento del primo.

6. La sentenza impugnata dev’essere, quindi, cassata con rinvio, per un nuovo esame, alla corte d’appello di Milano che, in diversa composizione, provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte così provvede: accoglie il primo motivo di ricorso, rigetta il secondo, assorbito il terzo; cassa, in relazione al motivo accolto, la sentenza impugnata, con rinvio, per un nuovo esame, alla corte d’appello di Milano che, in diversa composizione, provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 28 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 dicembre 2020

 

 

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