Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28201 del 10/12/2020

Cassazione civile sez. II, 10/12/2020, (ud. 27/10/2020, dep. 10/12/2020), n.28201

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GORJAN Sergio – Presidente –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12911-2016 proposto da:

P.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEGLI

SCIPIONI 265, presso lo studio dell’avvocato TERESA GIGLIOTTI,

rappresentata e difesa dagli avvocati GIOVANNI MIASI, EMILIA

CERCHIARA, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

C.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA UGO OJETTI

350, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE MACCARRONE,

rappresentato e difeso dall’avvocato CARMELO LOMBARDO, in virtù di

procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 598/2015 della CORTE D’APPELLO di MESSINA,

depositata il 20/10/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

27/10/2020 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le memorie di parte ricorrente.

 

Fatto

RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

1. C.F. otteneva dal Tribunale di Messina decreto ingiuntivo per l’importo di Lire 10.404.000 nei confronti di P.R. a titolo di saldo dei compensi maturati per l’espletamento dell’attività professionale di commercialista nell’interesse dell’intimata e per il periodo dal 1996 al 2000.

A seguito di opposizione della P., il Tribunale con sentenza n. 1162 dell’11 agosto 2008 revocava il decreto opposto, assumendo che, a fronte di contestazioni da parte della debitrice, il creditore non aveva offerto la prova che la cliente avesse riconosciuto il debito, reputando quindi sufficienti le somme che l’opponente aveva dimostrato di avere versato.

Avverso tale sentenza proponeva appello il C., e la Corte d’Appello di Messina con la sentenza n. 598 del 20 ottobre 2015, in riforma della decisione gravata, rigettava l’opposizione, condannando la debitrice al rimborso delle spese del doppio grado.

Secondo i giudici di appello, in realtà la P. non aveva contestato di avere ricevuto le prestazioni oggetto della richiesta di pagamento e regolarmente fatturate, avendo però sostenuto che per la natura dell’attività svolta (redazione di contabilità semplificata) il compenso, concordato nella somma di Lire 200.000 mensili, era elevato, ma non già in relazione alle tariffe professionali, ma alle tariffe applicate da altri professionisti.

Emergeva quindi la prova che fino al 1999 tra le parti era stato concordato il detto importo e che a tale ultima data la P., dolendosi dell’eccessività della richiesta, aveva ottenuto una riduzione del compenso a Lire 100.000 mensili.

In presenza di tale quadro, doveva quindi escludersi che il creditore dovesse fornire altra prova, avuto riguardo al fatto che il conteggio del C. non era stato oggetto di concrete contestazioni.

In particolare, emergeva un credito residuo di Lire 8.849.180 alla data del 31/12/1998 e che per l’anno 1999 il compenso dovuto era stato quantificato nella somma concordata di Lire 100.000 mensili, così che, tenuto conto degli acconti versati, il credito residuo del C. si era ridotto ad Euro 8.349.000 che corrispondeva alla richiesta monitoria, tenuto conto di altre prestazioni rese, quali le dichiarazioni iva ed il modello unico 2000.

Risultavano quindi prive di rilevanza le quietanze prodotte dall’opponente, che si riferivano ad un periodo anteriore al 31/12/1998, posto che il saldo residuo a tale ultima data non era stato oggetto di contestazioni da parte della medesima, dovendo quindi ritenersi che le somme quietanzate fossero state regolarmente detratte dal dovuto.

Ne derivava altresì che a tale soluzione si perveniva agevolmente sulla base della sola documentazione versata in atti, il che rendeva irrilevante la disamina delle prove testimoniali raccolte, pur potendosi rivalutare favorevolmente l’attendibilità dei testi addotti dal C..

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso P.R. sulla base di due motivi, illustrati da memorie.

L’intimato resiste con apposito controricorso.

2. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1988,2720 e 2697 c.c. per avere la sentenza ritenuto come riconosciuto il debito, pur a fronte dell’ammissione della modifica degli accordi circa il compenso dovuto a far data dal 1997.

Sebbene il Tribunale avesse correttamente stabilito che fosse onere del creditore fornire la prova del proprio diritto, i giudici di appello hanno inopinatamente esonerato quest’ultimo dall’onere della prova, sul presupposto che non fosse contestata l’esistenza del rapporto professionali.

Invece, pur ammessa l’esistenza di tale rapporto, a fronte delle contestazioni dell’opponente, restava a carico del C. l’onere di dimostrare la natura, la quantità e la tariffa applicata, avuto riguardo al fatto che, a fronte di un importo mensile dovuto pari a Lire 100.000, erano stati versati importi ampiamente sufficienti ad estinguere il debito.

Il secondo motivo denuncia invece la violazione e falsa applicazione degli artt. 112,115 e 116 c.p.c. in ordine alle prove orali e documentali, in quanto la Corte distrettuale avrebbe male valutato le deposizioni testimoniali e non avrebbe tenuto conto del contenuto delle quietanze di pagamento versate in atti.

I due motivi, che per la loro connessione possono essere congiuntamente esaminati, sono infondati.

La critica della ricorrente non contiene a ben vedere alcuna denuncia del paradigma dell’art. 2697 c.c. e di quello dell’art. 115 c.p.c., bensì lamenta soltanto l’erronea valutazione di risultanze probatorie.

La violazione dell’art. 2697 c.c. si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni, mentre per dedurre la violazione del paradigma dell’art. 115 è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato alla “valutazione delle prove” (Cass. n. 11892 del 2016; Cass. S.U. n. 16598/2016).

Ancora deve escludersi qualsiasi violazione in ordine alla valutazione delle prove orali, avendo la sentenza gravata chiaramente ritenuto di poter decidere sulla base delle sole risultanze documentali (ed essendosi solo limitata ad esprimere una, peraltro irrilevante, valutazione di attendibilità delle deposizioni dei testi addotti dall’opposto, che avevano confermato quanto già pacificamente emergeva dalla documentazione), così come priva di fondamento è la dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c., avendo la sentenza espressamente deciso sulla domanda devoluta al suo giudizio.

Il giudice di merito, valorizzando la circostanza che a seguito della comunicazione alla P. da parte del C. del rendiconto delle proprie spettanze alla data del dicembre del 1998, senza che fossero state mosse all’epoca specifiche contestazioni, ha ritenuto provato che il credito fosse effettivamente quello determinato da tale documento, e che inizialmente l’accordo tra le parti, come confermato dalla modalità di rendicontazione costantemente seguita per i primi anni di durata del rapporto d’opera, prevedesse un compenso mensile di Lire 200.000.

In particolare, ha rilevato che la contestazione mossa dalla cliente investiva, come ricavato dal tenore dell’atto di opposizione, solo l’ammontare del compenso, ritenuto, non già maggiore rispetto ai massimi tariffari (ed avuto riguardo alla prestazione avente ad oggetto una contabilità semplificata), ma eccessivo rispetto a quanto praticato da altri commercialisti, e, con apprezzamento in fatto, ha concluso nel senso che la riduzione dell’importo mensile a Lire 100.000 non avesse portata retroattiva, ma fosse destinata ad operare solo per le prestazioni rese successivamente al dicembre 1998.

La doglianza della ricorrente che, come appunto rilevato dal giudice di merito, non tocca la circostanza dell’effettivo svolgimento delle prestazioni ad opera del C., si fonda a ben vedere sulla pretesa retroattività della riduzione del compenso mensile, sul presupposto che la somma nuovamente concordata dovesse essere calcolata anche per le prestazioni svolte anteriormente al 1999, traendosi da tale assunto la conclusione che i versamenti in precedenza effettuati, e portati invece a deconto di un credito calcolato sulla base del compenso mensile di Lire 200.000, avrebbero ridotto sensibilmente il credito dell’opposto.

Trattasi però di conclusione scaturente da una diversa ricostruzione in fatto della vicenda, in contrasto con quanto invece in concreto accertato dal giudice di merito, che ha ritenuto, anche in considerazione del comportamento tenuto dalla cliente successivamente alla comunicazione del credito residuo alla data del dicembre 1998, che l’accordo sulla riduzione del compenso fosse destinato ad operare solo per il futuro e che non spiegasse invece efficacia retroattiva.

La censura mira quindi a sollecitare una diversa ricostruzione dei fatti di causa, esito questo precluso in sede di legittimità.

3. Il ricorso deve pertanto essere rigettato dovendosi regolare le spese in base al principio della soccombenza, come liquidate in dispositivo, e tenuto conto delle spese sostenute anche per il procedimento ex art. 373 c.p.c. dinanzi alla Corte d’Appello (cfr. Cass. n. 26966/2018, che appunto devolve al giudice di legittimità, la competenza alla liquidazione di tali spese).

4. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, ar. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese di legittimità, che liquida in complessivi Euro 3.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi, (ivi incluse le spese di cui al procedimento ex art. 373 c.p.c.) oltre spese generali pari al 15% sui compensi ed accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 27 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 dicembre 2020

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