Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28189 del 10/12/2020

Cassazione civile sez. I, 10/12/2020, (ud. 16/09/2020, dep. 10/12/2020), n.28189

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 579/2015 proposto da:

Agorà 2000 S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore,

C.L., L.L., Lu.Li., Lu.Lu.,

elettivamente domiciliati in Roma, Via Conegliano n. 8, presso lo

studio dell’avvocato Cugini Lanfranco, che li rappresenta e difende

unitamente all’avvocato Pignatti Silvia, giuste procura a margine

del ricorso;

– ricorrenti –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.r.l., succeduto per incorporazione a San Rocco

S.r.l., in persona del curatore fallimentare Dott.ssa

S.M., elettivamente domiciliato in Roma, Viale Carso n. 77, presso

lo studio dell’avvocato Alberini Luciano, rappresentato e difeso

dall’avvocato Liuzzo Mariangela, giusta procura in calce al

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4698/2013 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 27/12/2013;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

16/09/2020 dal Cons. Dott. FIDANZIA ANDREA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’Appello di Milano ha rigettato sia l’impugnazione principale sia quella incidentale proposte avverso il lodo reso in Milano in data 18.12.2008 con cui il collegio arbitrale aveva accertato l’intervenuta risoluzione del contratto preliminare di vendita delle quote della Immobiliare Crescenzago s.r.l. stipulato in data 11.8.2003 tra Agorà 2000 s.p.a., L.L., Lu.Lu., C.L. e Lu.Li. quali promittenti venditori e la S. Rocco s.p.a. quale promissaria acquirente, dichiarando che i promittenti venditori erano tenuti in solido alla restituzione della somma di Euro 1.000.000,00 versata quale caparra confirmatoria, oltre altri interessi legali dalla data della domanda giudiziale.

La Corte d’Appello, ha condiviso l’impostazione del collegio arbitrale di ritenere illegittimi i recessi specularmente esercitati dai contraenti senza una sottostante giustificazione e infondate le domande proposte da entrambe le parti – la San Rocco s.p.a. (poi divenuta (OMISSIS) s.r.l. in virtù di fusione mediante incorporazione, società poi fallita) aveva inizialmente chiesto nella procedura arbitrale accogliersi l’eccezione ex art. 1460 c.c., per inadempimento dei promittenti venditori e la domanda di risarcimento del danno, “oltre alla restituzione del doppio della caparra confirmatoria già versata”, precisando successivamente tale domanda con la richiesta di declaratoria di “illegittimità del recesso dal contratto preliminare in data 11.8.2003 con lettera racc. a.r. in data 4.2.2004” esercitato dai promittenti venditori nonchè di “condanna dei convenuti a pagare a S. Rocco s.p.a. il doppio della caparra dalla stessa versata per un ammontare complessivo pari a Euro 2 milioni” – valutando altresì corretta la decisione dello stesso collegio di disporre la restituzione della caparra, a motivo della volontà comunque manifestata da entrambe le parti di risolvere il contratto.

Avverso la predetta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione Agorà 2000 s.p.a., L.L., Lu.Lu., C.L. e Lu.Li. affidandolo a quattro motivi.

Il fallimento (OMISSIS) s.r.l. si è costituito in giudizio con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo i ricorrenti hanno dedotto la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 829 c.p.c., n. 9, nonchè la nullità del lodo per grave violazione del principio del contraddittorio.

Lamentano i ricorrenti che erroneamente la Corte d’Appello aveva ritenuto l’infondatezza delle doglianze con cui i medesimi avevano dedotto che la S. Rocco aveva illegittimamente modificato le domande e i quesiti proposti con l’atto introduttivo del giudizio arbitrale, in sede di deposito della prima memoria istruttoria autorizzata.

Infatti, in primo luogo, la S. Rocco s.p.a. aveva provveduto ad una modifica non autorizzata delle proprie conclusioni, avendo il collegio arbitrale autorizzato le parti a depositare entro un determinato termine solo memorie di contenuto istruttorio e non anche contenenti modifiche delle conclusioni.

Inoltre, si era trattato di una inammissibile mutatio libelli, e non di una mera emendatio, come ritenuto dal collegio arbitrale, avendo la S. Rocco svolto domanda di risoluzione contrattuale, assolutamente incompatibile con la richiesta di restituzione del doppio della caparra versata.

Pertanto, stante la modifica delle conclusioni, effettuata dalla S. Rocco nella memoria istruttoria del 5/07/2005, e in mancanza di un’apposita udienza di precisazione delle conclusioni, era stato così impossibile per la difesa dei promittenti venditori conoscere quali fossero effettivamente le domande avversarie (dapprima criptiche e poi illegittimamente modificate), con conseguente grave lesione del principio del contraddittorio.

2. Il motivo è infondato.

Va preliminarmente osservato che, come più volte statuito da questa Corte, nell’arbitrato rituale, ove le parti non abbiano vincolato gli arbitri all’osservanza delle norme del codice di rito, è consentito alle medesime di modificare ed ampliare le iniziali domande, senza che trovino applicazione le preclusioni di cui all’art. 183 c.p.c., salvo il rispetto del principio del contraddittorio (ved. Cass. n. 2717/2007; vedi anche Cass. n. 8937/2000).

Dunque, le parti del giudizio arbitrale possono liberamente modificare le domande già proposte, con la sola osservanza del principio del contraddittorio, con la conseguenza che è loro interdetta soltanto una vera e propria modifica dei fatti costitutivi del diritto fatto valere in giudizio, tale da introdurre nel processo un tema di indagine e di decisione nuovo e da disorientare la controparte, così vulnerandone il diritto di difesa. Nè la circostanza che il collegio arbitrale conceda un termine per il solo deposito di memorie istruttorie – come sarebbe avvenuto, nel caso di specie, secondo l’allegazione dei ricorrenti appare comunque inidonea a disconoscere il diritto di una parte a precisare e modificare comunque le proprie domande, ove tale modifica, in difetto di un provvedimento che la vieti espressamente, avvenga (come nel caso di specie) in tempi e con modalità che non determinano una lesione del principio del contraddittorio.

Nel caso in esame, non vi è stata alcuna violazione del principio del contraddittorio atteso che la S. Rocco spa, nel richiedere, nel corso del giudizio arbitrale, la declaratoria di illegittimità del recesso esercitato dai promittenti venditori e la restituzione del doppio della caparra versata nella misura di 2 milioni di Euro, non ha fatto altro che precisare la domanda inizialmente proposta che prevedeva già la richiesta di restituzione del doppio della caparra (il cui importo, seppur non ancora quantificato in termini monetari, non è mai stato oggetto di contestazione), la quale costituiva, come correttamente rilevato sia dal collegio arbitrale che dalla Corte d’Appello, “la premessa logica di una contestazione della dichiarazione di recesso dal contratto preliminare e di incameramento della caparra, espressa dalla Agorà 2000 e dai sigg. L. all’indomani della scadenza del 31.12.2003”.

Dunque, la S. Rocco si è limitata ad una mera emendatio libelli – non modificando i fatti costitutivi della domanda fatta valere – che non ha affatto disorientato la difesa della controparte. Peraltro, l’assunto dei ricorrenti secondo cui la S. Rocco aveva in un primo tempo chiesto la risoluzione del contratto preliminare è smentito dal tenore delle conclusioni riportate alle pagg. 4 e 5 dello stesso ricorso, da cui emerge incontestabilmente che la S. Rocco s.p.a., dopo aver richiesto la restituzione del doppio della caparra confirmatoria versata ai sensi dell’art. 1385 c.c., comma 2, si era solo riservata, alla luce di ulteriori circostanze che dovessero palesarsi, di promuovere azione di risoluzione per inadempimento o di annullamento per dolo ex art. 1439 c.c., o azione di responsabilità degli amministratori della Agorà 2000, riserva fatta cadere nel corso del giudizio arbitrale con la rinuncia ad ulteriori domande.

3. Con il secondo motivo i ricorrenti hanno dedotto la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1385 c.c., in rapporto all’art. 8 del contratto preliminare inter partes.

Contestano i ricorrenti la valutazione con cui il giudice di merito ha ritenuto solo di scarsa importanza l’inadempimento della S. Rocco s.p.a. all’obbligazione contrattualmente prevista di integrare la caparra confirmatoria, così escludendo la legittimità del recesso esercitato dai promittenti venditori. In particolare, in ordine a tale profilo, i ricorrenti rilevano che nel contratto preliminare possono essere previste a carico delle parti prestazioni ulteriori rispetto all’obbligo di addivenire alla stipula del contratto definitivo, con la conseguenza che il preliminare può risultare inadempiuto (e può essere quindi risolto) anche a prescindere (e prima) della mancata stipula del definitivo.

In conclusione, ad avviso dei ricorrenti, la previsione contrattuale secondo cui la caparra avrebbe potuto essere trattenuta se la parte acquirente non avesse adempiuto “all’obbligazione di acquistare, nei termini ed alle modalità di cui sopra, le quote oggetto del presente accordo” non doveva intendersi circoscritta all’obbligazione di stipula del contratto definitivo, ma estesa a tutte le obbligazioni (termini e modalità) contrattualmente assunte.

In proposito, la S. Rocco s.p.a. si era resa inadempiente all’obbligo di versare la somma di Euro 3.000.000,00 al 31/12/2003, oltre all’acquisto entro la stessa data del credito per finanziamento soci di Agora 2000 s.p.a., pretendendo addirittura di rinegoziare i termini e le condizioni di contratto.

Pertanto, non essendo stato attribuito alcun rilievo alle disposizioni contrattuali che consentivano l’incameramento della caparra in caso di inadempimento alle obbligazioni contrattualmente assunte “nei termini e nelle modalità “contrattuali, erroneamente la Corte di merito aveva ritenuto illegittimo il recesso esercitato dai promittenti venditori ed inapplicabile il ricorso all’art. 1385 c.c., atteso che in realtà, l’inadempimento della promissaria acquirente doveva ritenersi “di non scarsa importanza avuto riguardo all’interesse dell’altra”.

4. Il motivo è inammissibile.

Va preliminarmente osservato che questa Corte ha già statuito che l’interpretazione, da parte degli arbitri, di una disposizione in senso lato negoziale (contenuta in un contratto, un capitolato, uno statuto, ecc.) può essere contestata, attraverso l’impugnazione per nullità del lodo, soltanto in relazione alla violazione od erronea applicazione di una norma, o di un principio, di ermeneutica contrattuale, con la conseguenza che è inammissibile la censura che si limiti alla mera critica della ricostruzione, operata dagli arbitri, del loro contenuto, sia pure sotto il profilo della denuncia del mancato rispetto della disposizione pattizia (vedi Cass. n. 11241/2002, vedi anche Cass. n. 8798/2007), Rv. 556400-01).

Tale affermazione si fonda sulla costante giurisprudenza di questa Corte – applicabile anche al procedimento arbitrale – secondo cui l’attività emeneutica di un atto negoziale è tipico accertamento in fatto riservato all’interprete, incensurabile in sede di legittimità, se non nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di cui agli artt. 1362 c.c. e segg.. Si deve, peraltro, non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione, mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti, ma occorre, altresì, precisare in qual modo e con quali considerazioni l’interprete se ne sia discostato, con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che con l’apparente violazione delle norme ermeneutiche si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa (vedi Cass. n, 10554/2010; Cass. n. 14355/2016).

Nel caso di specie, i ricorrenti, nel contestare l’interpretazione da parte del collegio arbitrale dell’art. 8 del contratto preliminare – in virtù della quale è stato ritenuto che solo l’inadempimento dell’obbligazione principale di acquistare le quote oggetto dell’accordo e non anche l’inadempimento dell’obbligazione di integrare la caparra giustificasse il recesso – non hanno neppure dedotto la violazione dei criteri legali di interpretazione contrattuale, invocando la violazione di altra norma di diritto, l’art. 1385 c.c., per avere lo stesso collegio, sul rilievo che l’unica prestazione “tipica” del contratto preliminare è la stipula del definitivo, ritenuto l’inadempimento della S. Rocco s.p.a. alle ulteriori obbligazioni contrattualmente assunte (diverse da quella “tipica”) di scarsa importanza e come tale inidoneo a dar luogo alla legittimità del recesso esercitato dei promittenti venditori e del conseguente incameramento della caparra. I ricorrenti, quindi, nel non dedurre neppure la violazione da parte del collegio arbitrale di norme di interpretazione contrattuale, si sono limitati a prospettare inammissibilmente una diversa ed alternativa interpretazione del testo contrattuale.

5. Con il terzo motivo è stato dedotto l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio.

Lamentano i ricorrenti che il Collegio arbitrale ha omesso di considerare che con le missive del 31/12/2003 e del 22/1/2004 la S. Rocco aveva escluso espressamente di addivenire alla stipula del contratto definitivo ove non si fosse addivenuti alla rinegoziazione delle obbligazioni assunte. Ne consegue che il rifiuto della promissaria acquirente di concludere il contratto definitivo alle condizioni del preliminare costituisce di per sè un inadempimento di gravità tale tale da giustificare il recesso da parte dei promittenti venditori.

6. Il motivo è infondato.

Va osservato che la Corte d’Appello, all’esito dell’esame delle emergenze documentali e testimoniali, ha espressamente escluso che la S. Rocco avesse “espressamente dichiarato di non voler adempiere”, avendo attribuito alla condotta della promissaria acquirente il significato di rifiuto non già di adempiere al preliminare, ma di integrare la caparra confirmatoria. Dunque, tale doglianza è stata presa in esame dalla Corte d’Appello, che la ha esplicitamente disattesa, con la conseguenza che le odierne censure dei promittenti venditori si appalesano di merito, essendo dirette a sollecitare una diversa valutazione degli elementi probatori rispetto a quella operata dal giudice di merito. Peraltro, dall’esame della sentenza impugnata non emerge in alcun modo che, secondo l’impostazione degli odierni ricorrenti, la volontà della S. Rocco di non voler adempiere alle condizioni del preliminare emergesse dal testo delle missive del 31/12/2003 e del 22/1/2004, nè i promittenti venditori hanno neppure allegato che il contenuto delle lettere sopra indicate sia stato oggetto di discussione tra le parti. In proposito, va ricordato che è principio consolidato di questa Corte che i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, questioni che siano già comprese nel thema decidendum del precedente grado del giudizio, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito, tranne che non si tratti di questioni rilevabili d’ufficio (Cass., 17/01/2018, n. 907; Cass., 09/07/2013, n. 17041). Ne consegue che, ove nel ricorso per cassazione siano prospettate questioni non esaminate dal giudice di merito, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di specificità del motivo, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, nonchè il luogo e modo di deduzione, onde consentire alla S.C. di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass., 13/06/2018, n. 15430).

Come già anticipato, i ricorrenti non hanno adempiuto a tale onere di allegazione, non solo non indicando in quale atto processuale avrebbero prodotto le missive in questione, ma neppure deducendo che il testo delle medesime avesse formato oggetto di discussione delle parti innanzi al giudice di merito. Ne consegue che, sul punto, il ricorso difetta del necessario requisito di autosufficienza e specificità.

7. Con il quarto motivo i ricorrenti hanno dedotto la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., lamentando il vizio di ultrapetizione della sentenza impugnata con riferimento alla statuizione di restituzione della caparra. Censurano i ricorrenti che la promissaria non aveva mai formulato una specifica domanda di restituzione della caparra tout court, ma solo del doppio della caparra sulla pretesa, risultata infondata, dell’inadempimento dei promittenti.

8. Il motivo è infondato.

Va osservato che questa Corte ha già statuito che non sussiste violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato allorchè il giudice, qualificando giuridicamente in modo diverso rispetto alla prospettazione della parte i fatti da questa posti a fondamento della domanda, le attribuisca un bene della vita omogeneo, ma ridimensionato, rispetto a quello richiesto, sicchè, proposta azione di risoluzione per inadempimento di contratto preliminare e di conseguente condanna del promittente venditore alla restituzione del doppio della caparra ricevuta, non pronunzia “ultra petita” il giudice che accerti la nullità del contratto e condanni il promittente venditore alla restituzione della caparra stessa, producendo, del resto, la risoluzione e la nullità effetti diversi quanto alle obbligazioni risarcitorie, ma identici quanto agli obblighi restitutori delle prestazioni. (Cass. n. 19502 del 30/09/2015; vedi anche Cass. n. 6675 del 19/03/2018 e Cass. n. 11012/2018).

Il rigetto del ricorso non comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 14.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte

del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello del ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 16 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 dicembre 2020

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