Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2818 del 09/02/2010

Cassazione civile sez. trib., 09/02/2010, (ud. 16/11/2009, dep. 09/02/2010), n.2818

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. MAGNO Giuseppe Vito Antonio – Consigliere –

Dott. BERNARDI Sergio – Consigliere –

Dott. MARIGLIANO Eugenia – rel. Consigliere –

Dott. MELONCELLI Achille – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 6641-2005 proposto da:

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE in persona del Ministro pro

tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12 presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope

legis;

– ricorrenti –

contro

FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO DI FOSSANO in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA I.

GOIRAN 23, presso lo studio dell’Avvocato GIANCARLO CONTENTO,

rappresentata e difesa dall’Avvocato MICHELE BIANCO giusta delega a

margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 28/2003 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE

di TORINO, depositata il 27/01/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/11/2009 dal Consigliere Dott. EUGENIA MARIGLIANO;

udito per il ricorrente l’Avvocato Paolo GENTILI, che ha chiesto

l’accoglimento del ricorso;

udito per il resistente l’Avvocato Michele BIANCO che ne ha chiesto

il rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FEDELI MASSIMO, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

La Fondazione Cassa di Risparmio di Fossano impugnava innanzi alla C.T.P. di Cuneo il silenzio rifiuto maturatosi sulla richiesta di rimborso dell’I.R.Pe.G., versata in base alla dichiarazione per l’esercizio 1995/96, in quanto, come titolare della partecipazione totalitaria azionaria nel capitale della omonima S.p.A., riteneva che le dovesse essere riconosciuta l’agevolazione dell’aliquota ridotta del 50% prevista dal D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6 in considerazione del perseguimento delle finalità ivi previste, confutando altresì l’opposto parere espresso dal Consiglio di Stato in materia.

Si costituiva l’Ufficio, sostenendo che le Fondazioni bancarie non potevano essere ricondotte ad alcuno dei soggetti indicati nel D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6 e L. n. 1745 del 1960, art. 10 bis, data la pluralità e genericità delle loro finalità statutarie, il fatto che la totalità dei proventi incassati provenivano dai dividendi distribuiti dalle S.p.A. partecipate e che il 50% di questi dovevano essere accantonati ex D.Lgs. n. 356 del 1990 per sottoscrivere obbligatoriamente gli aumenti di capitali.

Deduceva, infine, che, ai sensi della stessa normativa, in via transitoria, i rappresentanti delle Fondazioni potevano partecipare ai consigli di amministrazione e nel collegio sindacale, per cui non poteva negarsi che detti enti svolgessero attività commerciale o speculativa diretta alla gestione, controllo e conservazione della propria quota nelle banche partecipate.

La C.T.P. accoglieva il ricorso, affermando che la partecipazione nella società conferitaria costituiva non lo scopo, ma l’oggetto della fondazione per recuperare i fondi al perseguimento dei fini istituzionali.

Su gravame dell’Ufficio, la C.T.R. rigettava l’appello, confermando la sentenza di primo grado.

Avverso detta decisione il Ministero dell’economia e delle finanze e l’Agenzia delle entrate propongono ricorso per cassazione sulla base di tre motivi, integrati da memoria. La Fondazione Cassa di Risparmio di Fossano resiste con controricorso e, oltre a contrastare quanto ex adverso dedotto, eccepisce, in via preliminare, l’inammissibilità dell’impugnazione per carenza di legittimazione processuale del Ministero dell’economia e delle finanze e per mancata indicazione dell’atto legittimante l’Avvocatura generale dello Stato a rappresentare l’Agenzia delle entrate.

Diritto

Con il primo motivo l’A.F. denuncia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 601 del 1973, L. n. 1745 del 1962, art. 6, 10 bis, art. 14 preleggi, D.Lgs. n. 356 del 1992, art. 12 e art. 2697 c.c., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione per avere la C.T.R. erroneamente ritenuto che le Fondazioni bancarie fossero comprese tra i soggetti indicati nel D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6 e L. n. 1745 del 1962, art. 10 bis, normative aventi diverso oggetto, in quanto l’una riguarda la riduzione a metà dell’aliquota dell’I.R.Pe.G. e l’altra concerne l’esonero dalla ritenuta sui dividendi, pur riferendosi ambedue a persone giuridiche pubbliche o fondazioni che abbiano esclusivamente scopo di beneficenza, educazione, istruzione, studio o ricerca scientifica, mentre te Fondazioni bancarie, compresa quella de qua, non possono essere destinatarie di tali agevolazioni in quanto hanno come scopo primario non quello sopra indicato, ma la conservazione del patrimonio costituito dal capitale delle neo costituite società bancarie conferitane nella fase transitoria del D.Lgs. n. 356 del 1990 in vista della definitiva privatizzazione delle Casse di risparmio, anche se i rispettivi statuti prevedono generici fini di utilità sociale.

Tale tesi, secondo parte ricorrente, risulterebbe anche confermata dalla successiva introduzione del D.Lgs. n. 153 del 1999 che, all’art. 2, espressamente dispone che le Fondazioni sono persone giuridiche private senza fini di lucro e che perseguono esclusivamente scopi di utilità sociale e di promozione dello sviluppo economico ed all’art. 12, comma 1, statuisce che gli Statuti non replichino pedissequamente le generiche dizioni della legge, ma specifichino i settori nei quali intendono operare; viene precisato, inoltre, che detti enti perderanno il regime agevolativo se entro quattro anni dall’entrata in vigore di detto decreto legislativo siano ancora in possesso del controllo delle società bancarie.

Contesta, infine, parte ricorrente il fatto che la C.T.R., in violazione dell’art. 2697 c.c., abbia trascurato di osservare che la Fondazione non aveva in alcun modo provato di avere svolto in misura prevalente specifiche attività socialmente utili, a fronte della precisa eccezione dedotta sulla genericità delle finalità statutarie, sull’entità di partecipazione bancarie e dell’ammontare dei dividendi percepiti, sull’obbligo di accantonarne il 50% e sui poteri di nomina dei rappresentanti ed amministratori della società conferitaria.

Con la seconda censura si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2082, 2195 e 2697 c.c.; D.P.R. n. 917 del 1986, art. 51, comma 1; D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6; L. n. 1745 del 1962, art. 10 bis; D.Lgs. n. 356 del 1990, art. 12 e D.Lgs. n. 153 del 1999, art. 12, comma 2, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, per avere la C.T.R. erroneamente escluso che l’attività di amministrazione della quota di partecipazione nella società conferitaria avesse natura commerciale o comunque tale da lasciare fuori la fondazione dalla categoria degli enti contemplati dal D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6.

Con l’ultimo motivo si denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 87 e 88 del Trattato CEE, rilevando che questa Corte, con l’ordinanza del 23.3/24.4.2004 relativa al ricorso n. 16.429 ha rivolto alla Corte di Giustizia CE il quesito se la natura di operatori economici delle Fondazioni bancarie sia o meno compatibile con il riconoscimento dei benefici de quibus.

Occorre preliminarmente, in accoglimento dell’eccezione avanzata da parte resistente, dichiarare l’inammissibilità del ricorso proposto dal Ministero dell’economia e delle finanze in quanto lo stesso nel presente procedimento è privo di legittimazione processuale, non essendo stato parte nel giudizio di appello dal quale deve intendersi tacitamente estromesso (cass. Civ. sentt. Nn. 9004/2007, 22889/2006), come è dato rilevare anche dall’epigrafe della sentenza impugnata, ove il gravame risulta proposto soltanto dall’Agenzia delle entrate, Ufficio di Fossano, in data 7.5.2003.

Infatti, a seguito della riforma dell’Amministrazione finanziaria ai sensi del D.Lgs. n. 300 del 1999, sono state istituite le Agenzie fiscali e, pertanto, a partire dal 1 gennaio 2001 (data d’inizio dell’operatività di detti enti), la legittimazione processuale attiva e passiva nel contenzioso tributario compete a dette istituzioni, dotate di personalità giuridica, e non più al Ministero od agli uffici periferici dello stesso non più esistenti a seguito dell’intervenuta riforma.

Si compensano le relative spese, dato che la costituzione del Ministero non ha aggravato la difesa erariale e che la giurisprudenza citata si è formata in epoca successiva all’introduzione del presente ricorso.

Va, anche, disattesa la seconda eccezione proposta da parte resistente in ordine alla mancanza nel ricorso di un qualsiasi riferimento all’atto in base al quale l’Avvocatura generale dello Stato, non più legittimata ex lege, rappresenti l’Agenzia delle entrate; infatti le Sezioni unite di questa Corte con la decisione n. 23020/2005, hanno espresso il principio, condiviso da questo Collegio, secondo cui “Nell’ipotesi di rappresentanza processuale facoltativa degli enti pubblici da parte dell’Avvocatura dello Stato, non è necessario che l’ente rilasci una specifica procura all’Avvocatura medesima per il singolo giudizio, risultando applicabile anche a tale ipotesi, a norma del R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, art. 45, la disposizione dell’art. 1, comma 2, R.D. cit., secondo cui gli avvocati dello Stato esercitano le loro funzioni innanzi a tutte le giurisdizioni ed in qualunque sede senza bisogno di mandato”. Occorre, peraltro, aggiungere che in relazione all’Agenzia fiscale il patrocinio facoltativo dell’Avvocatura dello Stato è previsto dal D.Lgs. 30 luglio 1999, n. 300, art. 72.

Passando all’esame del merito, i primi due motivi del ricorso possono essere esaminati congiuntamente data la loro stretta connessione logico giuridica.

Tutte le questioni rimaste in contestazione fra le parti, sopra succintamente esposte, trovano soluzione, con argomenti che il Collegio pienamente condivide, nella sentenza S.U. n. 1576/2009.

Pertanto, non essendo dedotte hinc inde ragioni diverse da quelle approfonditamente esaminate e discusse con tale sentenza, sembra sufficiente, di seguito, richiamare sinteticamente le motivate risposte che essa fornisce alle domande ed alle eccezioni formulate dalle parti.

Il legislatore, ponendo mano, col D.Lgs. 20 novembre 1990, n. 356, alla “ristrutturazione” del sistema bancario e in particolare, per quanto qui interessa, alla disciplina degli enti creditizi pubblici che avevano effettuato il conferimento dell’azienda bancaria da essi posseduta ad una o più società per azioni, acquisendone in cambio l’intero pacchetto azionario o una consistente parte di esso, intese principalmente “razionalizzare il sistema creditizio per adeguarlo alla realtà del mercato unico europeo e renderlo competitivo nel nuovo scenario della liberalizzazione valutaria e dei servizi”; in questa prospettiva e finchè non intervenne la nuova riforma, alla fine degli anni ’90 (L. 23 dicembre 1998, n. 461; D.Lgs. 17 maggio 1999, n. 153), con cui gli enti furono trasformati in fondazioni (cc.dd. “fondazioni bancarie”), questi ebbero natura di persona giuridica privata senza fine di lucro (C. cost, ordin. n. 300/2003) e diritto ad agevolazioni fiscali, a determinate condizioni -, gli enti conferenti, rimanendo legati alla conferitaria da “un vincolo genetico e funzionale” (C. cost. sent. n. 163/1995) che li manteneva nell’orbita delle aziende bancarie, ebbero il compito precipuo di favorire la transizione, da uno scenario di protezione pubblica del credito e dei relativi istituti ad uno di libero mercato e di concorrenza internazionale, continuando ad esercitare di fatto l’attività bancaria, ad essi peraltro congeniale, sia pure in modo defilato e sotto forma di amministrazione della partecipazione nella società conferitaria.

Se, dunque, tale era il compito precipuo ed immancabile degli enti conferenti, le altre finalità da essi perseguite – da enunciare nello statuto, consistenti in “fini di interesse pubblico e di utilità sociale preminentemente nei settori della ricerca scientifica, della istruzione, dell’arte e della sanità”; od anche nel mantenimento delle “originarie finalità di assistenza e di tutela delle categorie sociali più deboli” (D.Lgs. n. 356 del 1990, art. 12, comma 1, lett. a) – sono da ritenere secondarie (e neppure obbligatorie); sicchè a questi enti non può estendersi la previsione agevolativa del D.P.R. n. 601 del 1973, art. 6, che riguarda istituti di tutt’altra origine e natura, non aventi altro scopo se non uno (o più) di quelli menzionati dalla stessa norma.

Sul piano dell’interpretazione della legge, l’agevolazione di cui si tratta, concessa “in ragione del… profilo soggettivo degli enti beneficiari e non in ragione della attività oggettivamente svolta”, non può ritenersi applicabile alle fondazioni bancarie, per analogia con gli enti menzionati dal citato art. 6; nè detta norma può essere interpretata estensivamente.

L’interpretazione analogica è, infatti, vietata (art. 14 preleggi), in presenza di una disposizione eccezionale, di esonero parziale dall’obbligazione tributaria; quella estensiva è esclusa dallo stesso art. 6 che, alla lett. c), subordina ad una espressa equiparazione “per legge” la possibilità di estendere l’esenzione ad enti non rientranti nelle categorie elencate.

D’altra parte, una diversa conclusione “sarebbe priva di copertura costituzionale, prima ancora che in contrasto con la normativa comunitaria sulla concorrenza e sugli aiuti di Stato” (in quest’ultimo senso, specialmente Cass. civ. S.U. sent. n. 27619/2006, con le precisazioni contenute in Cass. civ. sentt. nn. 10253/2007, 7883/2007).

Per i restanti aspetti – (ir)retroattività della norma (D.Lgs. n. 153 del 1999, art. 12, comma 1) che estende il regime fiscale di favore del citato art. 6 alle fondazioni, ormai così denominate, che si erano adeguate alle nuove prescrizioni, dichiarandole enti non commerciali ai sensi dell’art. 87, comma 1, lett. c), TUIR, alla condizione di dismettere, entro quattro anni, la partecipazione di controllo nella società bancaria conferitaria; rilevanza ed onere della prova circa il concreto svolgimento di attività nei campi d’interesse sociale prescritti -, la sentenza S.U. cit. afferma, con ampia motivazione da intendere qui richiamata, che “il riconoscimento del beneficio fiscale è collegato alla attuazione della riforma del 1999, senza alcuna influenza sui periodi precedenti”, e che “le relative disposizioni non possono avere valenza interpretativa” (nè, quindi, retroattiva); che, inoltre, fa carico ai soggetti conferenti, titolari di una partecipazione di controllo nella società bancaria conferitaria, quindi, esercenti presumibilmente un’impresa bancaria, l’onere di provare, secondo il comune regime disciplinato dall’art. 2697 c.c., il concreto svolgimento, nell’anno d’imposta considerato, di un’attività prevalente o esclusiva di promozione sociale e culturale, del tutto differente da quella prevista dal legislatore.

Quanto alla presunzione di esercizio, sia pure indiretto e mediato, dell’impresa bancaria, si osserva che anche la presenza dei ripetuti interventi legislativi ed amministrativi attuati nel periodo di transizione (1990-1999) allo scopo di far cessare ogni influenza degli enti creditizi sulle società conferitane (D.M. Tesoro 26 novembre 1993; D.L. 31 maggio 1994, n. 332, art. 1, comma 7, convertito con modificazioni nella L. 30 luglio 1994, n. 474; D.M. Tesoro 18 novembre 1994 – “Direttiva Dini” -, D.M. 20 febbraio 1995, D.M. 28 giugno 1995, ecc.) non inficia la conclusione qui condivisa, ma semmai la rafforza, nella misura in cui la pressante sollecitazione a dismettere gli strumenti di controllo dell’attività bancaria avvalora, di per se stessa, il convincimento che gli enti conferenti presumibilmente ne facevano uso, realizzando una vera e propria ingerenza.

La contribuente non nega quanto meno di avere posseduto una partecipazione di maggioranza(all’epoca, totalitaria) nella società conferitaria nè di avere esercitato i conseguenti diritti patrimoniali e societari, “oggetto” dei suoi poteri di amministrazione delle partecipazioni nella società conferitaria.

Sostiene tuttavia di non essere tenuta a dar prova dell’effettivo e prevalente (o esclusivo) impiego di risorse in vista dello “scopo” d’interesse pubblico e sociale, non avendo mai l’ufficio contestato la sussistenza di tale circostanza, nè tale prova potrebbe essere richiesta in sede di legittimità.

Le argomentazioni spese a sostegno di tali eccezioni non possono essere condivise, siccome contrastanti con la giurisprudenza sopra richiamata, cui aderisce il Collegio, secondo la quale, “A parte la considerazione che l’onere di provare i fatti giustificativi di un trattamento fiscale agevolato grava sempre su colui che invoca il beneficio”, esiste “una vera e propria presunzione di esercizio della attività di impresa bancaria in capo a coloro che in ragione della entità della partecipazione al capitale sociale sono in grado di influire sull’attività dell’ente creditizio”. Presunzione da cui deriva sia la conseguenza che “non incombe… all’Amministrazione finanziaria l’onere di sollevare in proposito precise contestazioni” (in tal senso, S.U. cit. conferma quanto già ritenuto da questa Corte di cassazione con le sentenze nn. 10258/2007, 10253/2007, 7883/2007); sia la soggezione della contribuente all’onere della prova contraria.

Ma, per vincere tale presunzione, la contribuente dovrebbe provare non il mero fatto di avere destinato concretamente tutte (o quasi) le risorse disponibili all’attuazione dello “scopo” di utilità generale; bensì, più radicalmente, “di avere svolto una attività del tutto differente da quella voluta dal legislatore, nel senso che invece di privilegiare le finalità di consentire al nostro sistema creditizio di affrontare le turbolenze del mercato internazionale in mare aperto (governando la fase dell’affrancamento dal protezionismo statale), abbia… invece svolto una attività di prevalente o esclusiva promozione sociale e culturale”.

Deve tuttavia ritenersi ormai preclusa la possibilità di fornire simile prova “estesa all’attività complessivamente esercitata dalla fondazione nell’anno d’imposta, la cui ammissione presuppone innanzitutto che il relativo tenia sia stato introdotto nel giudizio secondo le regole proprie del processo tributario, ovverosia mediante la proposizione di specifiche questioni nel ricorso introduttivo”;

laddove la stessa contribuente non nega di avere dedicato energie organizzative ed economiche all’attività che indica come “oggetto” dei suoi interessi, cioè all’amministrazione della partecipazione azionaria.

Tutto ciò premesso, il primo e secondo motivo di ricorso devono essere accolti, dichiarato assorbito il terzo, va cassata la sentenza impugnata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito ex art. 384 c.p.c., mediante rigetto del ricorso introduttivo della lite.

Le spese dell’intero giudizio debbono essere integralmente compensate fra le parti, in considerazione delle oscillazioni giurisprudenziali dipendenti dalla particolare complessità delle questioni trattate, la cui soluzione da parte delle Sezioni unite di questa suprema Corte, con argomentazioni condivise ed utilizzate dal Collegio, è molto recente.

P.Q.M.

La Corte di cassazione dichiara inammissibile il ricorso proposto dal Ministero dell’economia e delle finanze e compensa interamente fra le parti le relative spese. Accoglie il ricorso proposto dall’Agenzia delle entrate, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo della lite; compensa integralmente fra le parti le spese dell’intero giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di Cassazione, Sezione Quinta Civile – tributaria, il 16 novembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 9 febbraio 2010

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