Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28168 del 31/10/2019

Cassazione civile sez. VI, 31/10/2019, (ud. 13/06/2019, dep. 31/10/2019), n.28168

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26741-2017 proposto da:

M.A., B.M., B.E., nella qualità di

eredi di B.G., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA

GIUSEPPE GIOACCHINO BELLI 27, presso lo studio dell’avvocato PAOLO

MEREU, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALBERTO

SAVIOZZI;

– ricorrenti –

contro

CARGEAS ASSICURAZIONI SPA, in persona del legale rappresentante pro

tempore, C.A., elettivamente domiciliate in ROMA, VIA

GOLAMETTO 4, presso lo studio dell’avvocato LORENZO GIUA,

rappresentate e difese dall’avvocato GIANGIACOMO ZANELLI;

– controricorrenti e ricorrenti incidentali –

contro

M.A., B.M., B.E., nella qualità di

eredi di B.G., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA

GIUSEPPE GIOACCHINO BELLI 27, presso lo studio dell’avvocato PAOLO

MEREU, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALBERTO

SAVIOZZI;

– controricorrenti ai ricorrenti incidentali –

avverso la sentenza n. 673/2017 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 09/05/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 13/06/2019 dal Consigliere Relatore Dott. ROSSETTI

MARCO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Nel 2009 B.M., B.E. e M.A., congiunti ed eredi di B.G., convennero dinanzi al Tribunale di Brescia la Carige Assicurazioni s.p.a. e C.A., esponendo che:

-) il 2 agosto 2003, a (OMISSIS) (BS), B.G. venne investito da un autoveicolo condotto dalla convenuta C.A.; in conseguenza dell’investimento la vittima patì gravi lesioni personali;

-) queste gravi lesioni personali ridussero la vittima in uno stato vegetativo che si protrasse per tre anni;

-) infine, il (OMISSIS), B.G. morì a causa delle lesioni subite tre anni prima.

Chiesero perciò la condanna dei convenuti al risarcimento del danno.

2. Il Tribunale di Brescia con sentenza 25 febbraio 2016, n. 601, accolse la domanda, attribuendo alla vittima un concorso di colpa paritario.

La sentenza venne appellata sia dalla Cargeas, sia dagli eredi B..

2. Con sentenza 9 maggio 2017 n. 673 la Corte d’appello di Brescia, per quanto in questa sede ancora rileva:

-) attribuì alla vittima un concorso di colpa del 75%, e a C.A. del 25%;

-) liquidò il danno biologico patito dalla vittima primaria, nell’intervallo tra le lesioni e la morte, riducendo proporzionalmente la misura standard del risarcimento, al fine di tenere conto della vita effettivamente vissuta;

-) ritenne corretta la quantificazione del danno non patrimoniale patito dagli attori in conseguenza della morte del proprio congiunto, così come compiuta dal Tribunale.

3. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione dagli eredi B. con ricorso fondato su tre motivi.

Ha resistito con controricorso, e proposto ricorso incidentale, la Cargeas.

I ricorrenti principali hanno depositato controricorso per resistere al ricorso incidentale.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo del ricorso principale.

1.1. Il primo motivo contiene due censure.

Con una prima censura i ricorrenti, formalmente richiamando l’art. 360 c.p.c., n. 5, lamentano che la Corte d’appello avrebbe “omesso di considerare, in sede di liquidazione del danno, che il danneggiato è morto per ragioni causalmente riconducibili al sinistro”.

Deducono che, per questa ragione, la Corte d’appello nel liquidare il danno non patrimoniale patito da B.G., ed il cui risarcimento venne da questi trasmesso agli eredi, avrebbe dovuto tenere conto “della perdita dell’aspettativa di vita” patita dalla vittima primaria, nonchè del danno “terminale o catastrofa1e, conseguente alla sofferenza ed agonia sicuramente patite dal de cuius a causa delle lesioni riportate nella percezione dello spegnersi anticipato della vita”.

1.2. Con una seconda censura i ricorrenti lamentano, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 1223,1226,1227,2043 e 2056 c.c..

Sostengono Corte d’appello avrebbe erroneamente ridotto il credito risarcitorio patito dalla vittima primaria, e da questa trasmesso agli eredi, per tenere conto della vita effettivamente vissuta, invece che di quella sperata.

Deducono che il principio per cui il risarcimento del danno alla salute deve essere ridotto, nel caso di premorienza della vittima, per tenere conto della vita effettivamente vissuta, è stato formulato dalla giurisprudenza con riferimento all’ipotesi in cui la vittima di lesioni personali muoia per cause indipendenti dalle lesioni stesse. Nel caso di specie, invece, la vittima era deceduta proprio a causa ed in conseguenza delle lesioni, sicchè quel principio non avrebbe dovuto trovare applicazione.

1.3. La prima delle suesposte censure è in parte inammissibile, ed in parte infondata.

I ricorrenti lamentano, come accennato, che la Corte d’appello, nel liquidare il danno non patrimoniale patito dalla vittima primaria, non avrebbe tenuto conto di due diversi pregiudizi:

a) della perdita dell’aspettativa di vita sofferta dal loro congiunto, a causa della morte ante tempus;

b) del danno c.d. “terminale” o “catastrofale” patito dalla vittima primaria, e consistito nella percezione della propria imminente fine.

1.4. Il pregiudizio sub (a) non risulta nè dal ricorso, nè dalla sentenza impugnata, che sia mai stato dedotto nei gradi di merito.

Nè i ricorrenti, in violazione dell’onere prescritto a pena d’inammissibilità dall’art. 366 c.p.c., n. 6, indicano in quali termini ed in quali atti quel vizio venne dedotto in giudizio.

La denuncia di “omesso esame del fatto”, pertanto, in questa parte è mal formulata, perchè difforme dalle modalità prescritte dalle Sezioni Unite di questa Corte, le quali nell’interpretare il novellato art. 360 c.p.c., n. 5, hanno stabilito (tre anni prima dell’introduzione del presente ricorso) che colui il quale intenda denunciare in sede di legittimità un errore consistito nell’omesso esame d’un fatto decisivo, ha l’onere di indicare:

(a) quale fatto non sarebbe stato esaminato;

(b) quando e da chi era stato dedotto in giudizio;

(c) come era stato provato;

(d) perchè era decisivo (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014).

E nel caso di specie, per quanto detto, l’indicazione sub (b) è mancata del tutto.

1.5. Sebbene tale rilievo abbia carattere assorbente, questa Corte ritiene opportuno rilevare, anche per fini di nomofilachia, che il motivo sarebbe comunque infondato, giacchè i ricorrenti lamentano l’omesso esame d’un fatto irrilevante, a causa dell’inconcepibilità stessa d’un danno da “perdita delle aspettative di vita”, se riferito ad una persona defunta.

Come già stabilito dalle Sezioni Unite di questa Corte, infatti, la morte del danneggiato pone fine ipso facto all’esistenza d’un danno permanente alla persona.

Ne consegue che, prima della morte, colui il quale in conseguenza d’un fatto illecito sappia di avere una speranza di vita ridotta, patisce un danno (c.d. da formido mortis) non patrimoniale da accertare e liquidare con gli ordinari criteri equitativi (se ne dirà meglio tra breve); post mortem, invece, con la scomparsa del danneggiato svanisce la pensabilità stessa di ulteriori pregiudizi da quest’ultimo patiti.

I congiunti d’una persona defunta non possono quindi invocare jure hereditario il risarcimento del danno da “perdita dell’aspettativa di vita” patito dal loro dante causa al momento della morte, per le medesime ragioni per le quali non potrebbero invocare il risarcimento del danno da “lesione del diritto alla vita” del defunto e già ampiamente indicate dalle Sezioni Unite di questa Corte, alle cui motivazioni in questa sede può farsi rinvio (Sez. U, Sentenza n. 15350 del 22/07/2015, Rv. 635985 – 01).

1.6. I ricorrenti lamentano poi che la Corte d’appello abbia trascurato di considerare, nella stima del danno, il “fatto decisivo” rappresentato dal pregiudizio non patrimoniale sofferto dalla vittima primaria, e consistito nella percezione della propria fine imminente.

Anche tale censura presenta, in primo luogo, un profilo di inammissibilità, in quanto i ricorrenti non indicano – in violazione dei precetti indicati supra, al p. 1.4 – quando ed in che modo tale circostanza di fatto fu da loro dimostrata in giudizio.

Aggiungasi che un danno da “percezione della propria fine imminente” è concepibile solo per una persona capace di intendere e di volere, come ripetutamente affermato da questa Corte (ex multis, Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 32372 del 13.12.2018; nonchè Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008, Rv. 605494 – 01).

Ma nel nostro caso sono stati gli stessi ricorrenti ad indicare, alle pp. 23 del ricorso, che B.G. dopo l’infortunio di cui rimase vittima patì plurime lesioni cerebrali; sofferse un “grave deficit cognitivo era totalmente “autoinsnfficiente” e “senza contatto con il mondo esterno”.

Correttamente, dunque, il Giudicante d’appello non tenne conto d’un fatto che non solo non risultava provato, ma del quale anzi vi era la ragionevole prova contraria.

1.7. La seconda censura contenuta nel primo motivo di ricorso è infondata.

Gli odierni ricorrenti pretendono che, nel caso in cui una persona venga ferita e poi, a causa delle lesioni patite, muoia, il danno non patrimoniale da essa patito debba essere liquidato tenendo conto non già della durata della vita effettivamente vissuta dalla vittima nell’arco di tempo trascorso tra il ferimento e la morte, ma della sua aspettativa di vita, per come desumibile dalle statistiche mortuarie. Aggiungono che a tale ipotesi non sarebbe estensibile l’opposto principio, affermato da questa Corte con riferimento all’ipotesi in cui la vittima d’un fatto illecito deceda prima di avere incassato il risarcimento, ma per cause diverse dalle lesioni sofferte.

La tesi è infondata.

1.8. La persona che, ferita, sopravviva quodam tempore, e poi muoia a causa delle lesioni sofferte, può patire un danno non patrimoniale. Questo danno può teoricamente manifestarsi in due modi, ferma restando la sua unitarietà quale concetto giuridico.

Il primo è il pregiudizio derivante dalla lesione della salute; il secondo è costituito dal turbamento e dallo spavento derivanti dalla consapevolezza della morte imminente.

Ambedue questi pregiudizi hanno natura non patrimoniale, come non patrimoniali sono tutti i pregiudizi che investono la persona in sè e non il suo patrimonio.

Quel che li differenzia non è la natura giuridica, ma la consistenza reale: infatti il primo (lesione della salute):

-) ha fondamento medico legale;

-) consiste nella forzosa rinuncia alle attività quotidiane durante il periodo della invalidità;

-) sussiste anche quando la vittima sia stata incosciente.

Il secondo, invece:

-) non ha fondamento medico legale;

-) consiste in un moto dell’animo;

-) sussiste solo quando la vittima sia stata cosciente e consapevole.

1.9. Nel caso di specie, per quanto già detto nei p.p. precedenti, deve escludersi che sia stata: (a) ritualmente dedotta in giudizio; (b) ritualmente provata; l’esistenza d’un danno non patrimoniale consistito nella formido mortis.

Resta sub indice, pertanto, la liquidazione del danno non patrimoniale da lesione della salute, o danno biologico che dir si voglia.

Il danno alla salute che può patire la vittima di lesioni personali, la quale sopravviva quodam tempore e poi deceda a causa della gravità delle lesioni, dal punto di vista medico-legale può consistere solo in una invalidità temporanea, mai in una invalidità permanente.

Il lemma “invalidità”, infatti, per secolare elaborazione medico-legale, designa uno stato menomativo che può essere transeunte (invalidità temporanea) o permanente (invalidità permanente).

L’espressione “invalidità temporanea” designa lo stato menomativo causato da una malattia, durante il decorso di questa.

L’espressione “invalidità permanente” designa invece lo stato menomativo che residua dopo la cessazione d’una malattia.

L’esistenza d’una malattia in atto e l’esistenza di uno stato di invalidità permanente non sono tra loro compatibili: sinchè durerà la malattia, permarrà uno stato di invalidità temporanea, ma non vi sarà ancora invalidità permanente; se la malattia guarisce con postumi permanenti, si avrà uno stato di invalidità permanente, ma non vi sarà più invalidità temporanea; se la malattia dovesse condurre a morte l’ammalato, essa avrà causato solo un periodo di invalidità temporanea, come ripetutamente affermato da questa Corte (Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 32372 del 13.12.2018; Sez. 3, Sentenza n. 5197 del 17/03/2015, Rv. 634697 – 01; così pure Sez. 3, Sentenza n. 7632 del 16/05/2003, Rv. 563159, p. 3.3 dei “Motivi della decisione”).

1.10. Da questi presupposti medico-legali il giurista non può prescindere, dal momento che il danno alla salute, sia per la legge che per la giurisprudenza, è solo quello “suscettibile di accertamento medico legale”, come recita il cod. ass., art. 138.

Corollari di quanto esposto sin qui sono i seguenti:

(a) la persona ferita, che a causa delle lesioni sofferte perda la vita, non può per definizione patire un danno alla salute permanente;

(b) la persona ferita, che a causa delle lesioni sofferte perda la vita, può patire soltanto un danno alla salute temporaneo;

(c) il danno temporaneo alla salute non può che essere liquidato tenendo conto del periodo di tempo per il quale si è protratto.

Corretta, pertanto, fu la valutazione del Tribunale nella parte in cui ha escluso che, nella liquidazione del danno in esame, potesse tenersi conto della speranza di vita futura della vittima primaria. Non può peraltro sottacersi che quella decisione, se sbagliata fu, lo fu a favore proprio degli odierni ricorrenti, avendo ad essi accordato jure hereditario il risarcimento d’un danno nel caso di specie non configurabile, ovvero il danno biologico permanente.

1.11. Resta solo da aggiungere come gli argomenti spesi nei p.p. che precedono non sono infirmati dai precedenti di questa Corte richiamati dai ricorrenti nella propria impugnazione.

I ricorrenti hanno invocato, in particolare, a sostegno della loro tesi, le decisioni pronunciate da Sez. 3, Sentenza n. 5881 del 09/05/2000, Rv. 536306 – 01, e da Sez. L, Sentenza n. 8204 del 23/05/2003, Rv. 563492 01

La prima di tali decisioni, tuttavia, non solo riguardava una fattispecie del tutto diversa dalla presente, ma anzi nuoce, anzichè giovare, alla tesi dei ricorrenti.

Quella sentenza, infatti, aveva ad oggetto il danno alla salute patito da un neonato intra partimi, ma vivente al momento della decisione. Sorse in quel caso questione se il danno al neonato dovesse liquidarsi avendo riguardo alla durata media della vita umana, od alla sua speranza di vita, ridotta a causa delle menomazione patite. Ed in quel caso, condivisibilmente, questa Corte optò per la prima soluzione: sia perchè si trattava di liquidare un danno permanente non temporaneo; sia perchè si trattava di liquidare un danno patito da una persona vivente, e dunque un danno destinato a proiettarsi nel futuro.

Quando, invece, occorra liquidare iure hereditario il danno patito da una persona già defunta al momento della liquidazione, il pregiudizio alla salute di cui si chiede al giudice l’aestimatio può essere solo e soltanto passato e dunque esaurito nella sua vicenda biologica.

Quanto alla seconda delle suddette decisioni (Cass. 8204/03), va in primo luogo rilevato che essa esprime un orientamento isolato ed ormai abbandonato da tre lustri dalla successiva giurisprudenza di legittimità, ivi compresa quella delle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. 3 -, Ordinanza n. 4551 del 15/02/2019, Rv. 652827 – 01; Sez. 3 -, Ordinanza n. 25157 del 11/10/2018, Rv. 651159 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 10897 del 26/05/2016, Rv. 640126 – 01; Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008, in motivazione).

Quella sentenza, inoltre, non spese – a conforto della tesi qui negata argomenti che paiono a questo Collegio condivisibili.

Ivi infatti si affermò che, nel caso di morte della persona ferita prima della liquidazione giudiziale del danno, il risarcimento deve tenere conto della speranza di vita, e non della vita vissuta, per due ragioni:

(a) perchè altrimenti “la determinazione concreta del danno viene resa immediatamente dipendente dai tempi del giudizio di liquidazione”;

(b) perchè “ove si facesse riferimento alla durata concreta della vita, si adotterebbe un criterio contrastante sotto il profilo logico-giuridico con l’essenza di danno non patrimoniale, consistente nel quantum di menomazione dell’integrità psico-fisica, siccome è solo la perdita patrimoniale che va calcolata in relazione all’incidenza sulla capacità di produrre reddito in futuro”.

Il primo di questi argomenti, tuttavia, si risolve in un chiasmo che inverte dal punto di vista logico i termini della questione: l’entità del risarcimento dipende sempre dall’entità del danno, non dalla durata del giudizio; e se nel corso del giudizio l’entità del danno aumenta o si riduce, non è certo il processo a determinare quell’aumento o quella riduzione. A seguire a fil di logica questa non condivisibile affermazione, si perverrebbe all’assurdo che, se la vittima di lesioni personali migliorasse o guarisse nel coro del processo, di tale miglioramento non si dovrebbe tenere conto al momento della liquidazione: e l’evidente reductio ad absurdum svela la fallacia della premessa da cui muove.

Ma se il primo degli argomenti spesi da Cass. 8204/03 non è condivisibile dal punto di vista logico, il secondo non lo è dal punto di vista giuridico e medico-legale. Non è del tutto chiaro, infatti, perchè il danno alla salute non sia “destinato a proiettarsi nel futuro”, al contrario del danno patrimoniale da incapacità di lavoro. Il danno permanente alla salute, al contrario, è un danno che si verifica de die in diem, posto che per ogni giorno della sua vita chi l’abbia patito è destinato a soffrirne le conseguenze. Esso dunque è ontologicamente destinato a proiettarsi nel futuro, ed è per questa ragione che il valore monetario del punto di invalidità utilizzato per la stima di tale danno viene abbattuto in funzione dell’età della vittima (artt. 138 e 139 cod. ass.), dal momento che quanto maggiore è l’età della vittima al momento del danno, tanto minore sarà il periodo di tempo per il quale esso dovrà essere sopportato.

2. Il secondo motivo del ricorso principale.

2.1. Col secondo motivo i ricorrenti lamentano, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 2 e 3 Cost., nonchè degli artt. 1223,1226,1227,2043 e 2056 c.c..

Nell’illustrazione del motivo formulano una censura così riassumibile:

-) il Tribunale ha liquidato il danno patito dalla vittima primaria, ed il cui credito risarcitorio è stato da questa trasmesso agli eredi, in base alle c.d. tabelle di Milano;

-) la vittima prima di morire rimase in vita tre anni, completamente invalida;

-) se una invalidità permanente totale fosse stata patita da una persona di 97 anni, e cioè una persona con un’aspettativa di vita di 3 anni, in base a quelle tabelle si sarebbe dovuto liquidare a titolo di risarcimento l’importo di 163.000 Euro circa;

-) il Tribunale, invece, ha liquidato la somma di 48.920 Euro;

-) così giudicando, la Corte d’appello avrebbe determinato una “ingiustificata disparità di trattamento”.

2.2. Il motivo è inammissibile.

Esso censura infatti la stima del danno alla salute sofferto dalla vittima tra le lesioni e la morte, la quale costituisce una valutazione equitativa, come tale oggetto d’un apprezzamento di merito non sindacabile in sede di legittimità, salvo il caso d’irrazionalità manifesta, qui certamente non sussistente.

I ricorrenti in ogni caso trascurano di considerare un elemento decisivo: nel caso di specie, è pacifico che la vittima primaria sia deceduta a causa delle lesioni.

Come accennato, per pacifico principio medico legale, quando la morte sia causata dalle lesioni personali, non è concepibile il consolidarsi di postumi permanenti: il consolidamento dei postumi, infatti, presuppone la sopravvivenza della vittima e la guarigione clinica.

Quando, pertanto, la vittima di lesioni personali muoia a causa di quest’ultima, l’unico danno alla salute concepibile è il danno alla salute temporaneo, od invalidità temporanea che dir si voglia, ovviamente da liquidare avendo riguardo a tutte le specificità del caso concreto.

Pertanto, a parte qualsiasi considerazione circa la (ardua) prospettabilità in Cassazione del vizio di “falsa interpretazione delle tabelle milanesi”, adombrato dai ricorrenti, quel che rileva è che questi ultimi pretendono di istituire un confronto tra situazioni tra loro non comparabili: quella di chi muoia a causa delle lesioni, e quella di chi muoia per cause indipendenti dalle lesioni dopo il consolidamento dei postumi.

In quest’ultimo caso ci troviamo al cospetto d’un danno biologico permanente, che legittimamente può essere liquidato col ricorso alle tabelle milanesi in assenza di criteri legali; nel primo caso ci troviamo dinanzi soltanto ad un danno biologico temporaneo, anche prolungato, per la liquidazione del quale non vengono in rilievo i concetti nè di invalidità permanente, nè di “postumi permanenti”, e la cui stima è riservata al rudente apprezzamento del giudice di merito.

3. Il terzo motivo del ricorso principale.

3.1. Col terzo motivo i ricorrenti lamentano, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, l’omesso esame d’un fatto decisivo.

Deducono che il Tribunale, nel liquidare il danno da essi patito direttamente in conseguenza della morte del loro parente, ha applicato i minimi previsti dalle tabelle milanesi, senza tenere conto del fatto che essi avevano dovuto prestare assistenza per tre anni alla persona infortunata, la quale era divenuta totalmente incapace di intendere e di volere e totalmente invalida.

In particolare, deducono che tale danno è consistito nella forzosa rinuncia alle attività relazionali e ricreative dei tre attori, rinuncia conseguente alla necessità di prestare assistenza alla vittima; nonchè nella pena e nell’angoscia da essi provate per la condizione di quest’ultima.

Nell’illustrazione del motivo, inoltre, si soggiunge che i convenuti non avevano “esplicitamente contestato le circostanze” da essi attori dedotte, ovvero che B.G., nei tre anni dopo il sinistro, visse in totale stato di incapacità e costantemente assistito dai propri familiari.

3.2. Il motivo è fondato.

Il danno non patrimoniale è un pregiudizio atipico.

Ferma la sua unitarietà come concetto giuridico (Sez. U, Sentenza n. 26972 del 11/11/2008; Sez. 3 -, Ordinanza n. 7513 del 27/03/2018, Rv. 648303 – 01), esso può manifestarsi in modo proteiforme.

E’ compito dunque del giudice di merito, nei limiti ovviamente del dedotto e del provato, accertare se, quali e quante conseguenze non patrimoniali il fatto illecito abbia prodotto.

Ciò posto in generale, con particolare riferimento al danno non patrimoniale patito da chi abbia perso un congiunto in conseguenza d’un fatto illecito, questa Corte ha già ripetutamente affermato che nella stima di tale danno il giudice deve procedere attraverso due passaggi:

-) deve, in primo luogo, tenere conto delle conseguenze che, anche presuntivamente ex art. 2727 c.c., l’uccisione d’un congiunto non può non causare in tutte le persone di comune sentire che dovessero patire quel particolare tipo di afflizione, e liquidare tale pregiudizio con un criterio standard, uguale per tutti, necessario per garantire la parità di trattamento a parità di danno (ex multis, Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 3767 del 15/02/2018, Rv. 648035 – 02; Sez. 3, Sentenza n. 15491 del 08/07/2014, Rv. 631750 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 10107 del 09/05/2011, Rv. 618206 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 28423 del 28/11/2008, Rv. 606101 – 01);

-) deve, poi, accertare se nel caso di specie sussistano circostanze peculiari, che abbiano reso il pregiudizio patito dalla vittima diverso e più grave rispetto ai casi consimili.

Le conseguenze del primo tipo possono trarsi, in assenza di argomenti di segno contrario che è onere del convenuto fornire, anche dalla sola dimostrazione dell’esistenza della morte della vittima primaria e del suo rapporto di stretta parentela con chi domanda il risarcimento; le conseguenze dannose del secondo tipo, invece, esigono la prova concreta dell’effettivo (e maggior) pregiudizio sofferto rispetto ai casi consimili (Sez. 3 -, Ordinanza n. 7513 del 27/03/2018, Rv. 648303 01).

La liquidazione di esse esige, in particolare, che il giudice indaghi e valuti “le specifiche ricadute che l’evento doloroso della morte (della vittima primaria) ha determinato nella vita di ciascuno dei suoi congiunti e conviventi” (Sez. L, Sentenza n. 26590 del 17/12/2014, Rv. 633861 – 01), e dell’esistenza (o dell’inesistenza) di tali circostanze peculiari il giudice di merito deve dare conto con motivazione analitica e non stereotipata (Sez. 3, Sentenza n. 23778 del 07/11/2014; Sez. 3, Sentenza n. 24471 del 18/11/2014).

3.3. Nel caso di specie, la Corte d’appello di Brescia non ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi.

La Corte, infatti, ha ritenuto ritualmente dedotto e provato che i tre congiunti di B.G. lo abbiano assistito per i tre anni in cui fu totalmente invalido (circostanza che, del resto, si sarebbe potuta ricavare anche dall’id quod plerumque accidit).

Ha, però, ritenuto che tale circostanza non giustificasse alcuna variazione in aumento del risarcimento del danno non patrimoniale spettante alle vittime di rimbalzo, così motivando: “(gli appellanti non hanno) indicato specifiche e circostanziate ragioni tali da condurre ad una determinazione diversa e superiore (del risarcimento), non potendo all’uopo reputarsi sufficiente il mero riferimento alla pena, angoscia e preoccupazioni dei familiari per la gravità dello stato psicofisico della vittima, gli stessi rappresentando in sè e per sè gli elementi costitutivi del danno e non rinvenendosi, negli atti, circostanziate ragioni per discostarsi dalla valutazione così come condotta (dal Tribunale)”.

Questa decisione viola in effetti l’art. 1223 c.c., perchè ha liquidato il risarcimento senza tenere conto di tutte le conseguenze che ne sono derivate.

Se una persona, a causa di lesioni personali, dopo tre anni di coma muoia, i suoi familiari patiscono teoricamente due diversi tipi di pregiudizi: durante il periodo di sopravvivenza patiscono la pena provocata dal vedere un proprio caro sofferente; dopo la morte di quest’ultimo, patiscono la pena rappresentata dal lutto.

Nel caso di specie, a parte l’errore giuridico consistito nel ritenere che la sofferenza provocata dalle lesioni patite da un congiunto e quella provocata dalla morte di quest’ultimo siano la stessa cosa, la Corte d’appello in ogni caso ha liquidato il danno patito iure proprio ai prossimi congiunti della vittima senza tenere conto del fatto che questi ultimi avevano allegato di avere prestato assistenza alla vittima per tre anni: e gli eventuali pregiudizi derivanti da questa assistenza non potevano sovrapporsi ed essere confusi col danno da lutto, per la semplice ragione che essi preesistevano a quest’ultimo. E se una entità reale preesiste ad un’altra, la prima non può identificarsi con la seconda, giacchè l’identità presuppone la coesistenza, come logica insegna da molti secoli.

3.4. La sentenza impugnata va dunque cassata con rinvio, affinchè la Corte d’appello torni ad esaminare il primo motivo dell’appello incidentale proposto dai congiunti di B.G.. Nel farlo, si atterrà al seguente principio di diritto:

“il pregiudizio non patrimoniale patito dai prossimi congiunti di persona gravemente ferita, e consistito tanto nell’apprensione per le sorti del proprio caro, quanto nelle forzose rinunce indotte dalla necessità di prestare diuturna e prolungata assistenza alla vittima, è un danno identico per natura, ma diverso per oggetto, dal pregiudizio patito dalle medesime persone, una volta che il soggetto ferito sia venuto a mancare. Ne consegue che se una persona venga dapprima ferita in conseguenza di un fatto illecito, ed in seguito muoia a causa delle lesioni, nella stima del danno patito jure proprio dai suoi familiari il giudice deve tenere conto sia del dolore causato dalla morte, sia dalle apprensioni, dalle sofferenze e dalle rinunce patite dai suoi familiari per tutto il tempo in cui la vittima primaria fu invalida e venne da loro assistita”.

4. Il ricorso incidentale.

4.1. Con ambedue i motivi del proprio ricorso incidentale la società Cargeas, formalmente denunciando i vizi di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, censura il modo in cui il giudice di merito ha ricostruito la dinamica del sinistro e ripartito le responsabilità.

Deduce che la Corte d’appello non avrebbe “recepito correttamente il quadro probatorio”, e propone il diverso modo in cui le prove si sarebbero dovute valutare.

4.2. Ambedue i motivi sono drasticamente inammissibili, in quanto censurano – e per stessa ammissione della ricorrente incidentale – la valutazione delle prove.

Ma una censura di questo tipo cozza contro il consolidato e pluridecennale orientamento di questa Corte, secondo cui non è consentita in sede di legittimità una valutazione delle prove ulteriore e diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito, a nulla rilevando che quelle prove potessero essere valutate anche in modo differente rispetto a quanto ritenuto dal giudice di merito (ex permultis., Sez. L, Sentenza n. 7394 del 26/03/2010, Rv. 612747; Sez. 3, Sentenza n. 13954 del 14/06/2007, Rv. 598004; Sez. L, Sentenza n. 12052 del 23/05/2007, Rv. 597230; Sez. 1, Sentenza n. 7972 del 30/03/2007, Rv. 596019; Sez. 1, Sentenza n. 5274 del 07/03/2007, Rv. 595448; Sez. L, Sentenza n. 2577 del 06/02/2007, Rv. 594677; Sez. L, Sentenza n. 27197 del 20/12/2006, Rv. 594021; Sez. 1, Sentenza n. 14267 del 20/06/2006, Rv. 589557; Sez. L, Sentenza n. 12446 del 25/05/2006, Rv. 589229; Sez. 3, Sentenza n. 9368 del 21/04/2006, Rv. 588706; Sez. L, Sentenza n. 9233 del 20/04/2006, Rv. 588486; Sez. L, Sentenza n. 3881 del 22/02/2006, Rv. 587214; e così via, sino a risalire a Sez. 3, Sentenza n. 1674 del 22/06/1963, Rv. 262523, la quale affermò il principio in esame, poi ritenuto per sessant’anni: e cioè che “la valutazione e la interpretazione delle prove in senso difforme da quello sostenuto dalla parte è incensurabile in Cassazione”).

5. Le spese.

Le spese del presente giudizio di legittimità saranno liquidate dal giudice del rinvio.

PQM

(-) rigetta il primo ed il secondo motivo del ricorso principale;

(-) dichiara inammissibile il ricorso incidentale;

(-) accoglie il terzo motivo del ricorso principale, cassa in relazione ad esso la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Brescia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione civile della Corte di cassazione, il 13 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2019

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