Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28113 del 31/10/2019

Cassazione civile sez. lav., 31/10/2019, (ud. 12/09/2019, dep. 31/10/2019), n.28113

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13402/2014 proposto da:

C.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 114/B,

presso lo studio dell’avvocato SALVATORE COLETTA, che la rappresenta

e difende unitamente all’avvocato MARIA ANTONIETTA DE ANGELIS;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in persona del

Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura

Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati

ANTONINO SGROI, CARLA D’ALOISIO, ESTER ADA SCIPLINO, LELIO MARITATO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5152/2012 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

pubblicata il 20/05/2013 R.G.N. 2262/2009.

Fatto

RILEVATO

che:

La Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 5152 del 2012, ha rigettato l’appello proposto da C.L. nei riguardi dell’Inps avverso la decisione di primo grado di rigetto della domanda, proposta dalla stessa C., intesa al riconoscimento del diritto all’iscrizione negli elenchi dei coltivatori diretti a far data dal primo gennaio 1981;

la Corte di merito ha ricordato che su domanda dell’interessata, risalente all’11 giugno 1990, l’Inps aveva iscritto la stessa nell’elenco dei coltivatori diretti con effetto dai i gennaio 1981 ma la stessa C., ritenendo eccessivamente oneroso l’obbligo contributivo corrispondente, aveva impugnato in sede amministrativa tale iscrizione, chiedendone la posticipazione al primo gennaio 1989; successivamente, il 26 dicembre 1995, C.L. dichiarò di voler approfittare del condono previsto dalla L. n. 724 del 1994 e chiese ed ottenne di poter rateizzare i contributi; la Commissione centrale accolse, successivamente, il ricorso ed iscrisse la C. con decorrenza dal primo gennaio 1989 ed a tale decisione quest’ultima reagì chiedendo di non darvi applicazione in ragione dell’avvenuta regolarizzazione; l’Inps comunicò alla parte che l’avvenuta definizione del ricorso amministrativo non rendeva possibile l’accreditamento dei contributi relativi al periodo 1981-1988;

ciò premesso, la Corte territoriale ha ritenuto infondato l’appello perchè incentrato sulla tesi erronea secondo la quale la regolarizzazione contributiva avrebbe consentito di estinguere una obbligazione in realtà inesistente per difetto dei requisiti di iscrizione alla gestione dei coltivatori diretti;

per la cassazione di questa sentenza ha proposto ricorso C.L. sulla base di un motivo relativo a vizio di motivazione, per erronea, insufficiente e comunque contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., comma 1,) giacchè la sentenza impugnata avrebbe risolto la questione ritenendo che la tesi della ricorrente fosse incentrata sulla pretesa di ottenere l’iscrizione sin dal 1981 in virtù della mera regolarizzazione contributiva anzichè sulla effettiva sussistenza dei presupposti richiesti e che ciò sarebbe evidente dai momento che era stato richiamato il contenuto dei verbali ispettivi dello SCAU del 29 novembre 1991 e del 17 aprile 1991 che, a dire della ricorrente, non sarebbero mai stati contestati;

l’Inps resiste con controricorso;

Diritto

CONSIDERATO

che:

il motivo è inammissibile;

si deduce il vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, addebitando alla sentenza impugnata una erronea ricostruzione dei contenuti della domanda con riguardo ai presupposti in fatto dai quali deriverebbe il diritto all’iscrizione negli elenchi dei coltivatori diretti sin dai primo gennaio 1981;

il vizio, denunciato nei termini di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, è invocabile nella sola ipotesi in cui sia stato omesso l’esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia);

ne consegue che, nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. S.U. n. 8053/2014);

nei caso in esame, la censura di omesso esame di un fatto decisivo si risolve, invece, in una inammissibile richiesta di rivalutazione del contenuto dei presupposti della domanda proposta dalla ricorrente così come interpretati dalla Corte territoriale;

come enunciato da questa Corte, infatti, nell’esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda il giudice di merito, non condizionato dalle espressioni adoperate dalla parte, ha il potere – dovere di accertare e valutare il contenuto sostanziale della pretesa, quale desumibile non solo dal tenore letterale degli atti, ma anche dalla natura delle vicende rappresentate dalla parte e dalle precisazioni dalla medesima fornite nel corso del giudizio, nonchè dal provvedimento concreto dalla stessa richiesto, con i soli limiti della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e di non sostituire d’ufficio un’azione diversa da quella esercitata: e tale ampio potere, attribuito al giudice per valutare la reale volontà della parte quale desumibile dal complessivo comportamento processuale della stessa, estrinsecandosi in valutazioni discrezionali sul merito della controversia, è sindacabile in sede di legittimità soltanto se il suo esercizio ha travalicato i predetti limiti (cfr. Corte Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8225 del 29/04/2004; id. Sez. L, Sentenza n. 27428 del 13/12/2005);

la censura concernente la interpretazione della volontà processuale espressa nell’atto introduttivo dei giudizio – così come di altri atti processuali di parte – deve, pertanto, evidenziare un vizio consistente nella alterazione del senso letterale o del contenuto sostanziale dell’atto, in relazione alle finalità che la parte intende perseguire (cfr. Corte Cass. Sez. L, Sentenza n. 2148 del 05/02/2004), venendo quindi in applicazione escLusivamente il criterio ermeneutico volto ad indagare il significato che emerge dal testo dell’atto, secondo il significato fatto palese dalle parole secondo la loro connessione logica, ed evincibile dalla complessiva lettura del contenuto dell’atto, avuto riguardo anche alla situazione dedotta in giudizio e dallo scopo pratico perseguito dall’istante con il ricorso all’autorità giudiziaria (cfr. Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 10840 del 10/07/2003; id. Sez. U, Sentenza n. 3041 del 13/02/2007;), restando esclusi – evidentemente – i criteri ermeneutici soggettivi ed oggettivi – previsti per gli atti negoziali, che implicano la ricerca della comune intenzione delle parti (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 4754 del 09/03/2004; id. Sez. 1, Sentenza n. 24847 del 24/11/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 25853 del 09/12/2014; sez. III, 21/05/2019, n. 13602);

avuto riguardo ai principi di diritto richiamati, la Corte d’appello, ha correttamente riferito, riportando sostanzialmente i contenuti degli atti della parte, i presupposti in fatto dedotti dalla stessa e ne ha tratto il convincimento che la pretesa ad ottenere l’iscrizione negli elenchi dei coltivatori diretti fosse stata fatta discendere dalla circostanza che la volontà di aderire al condono ed alla conseguente regolarizzazione della contribuzione fosse sufficiente a sovvertire l’esito dell’accertamento amministrativo consolidatosi a seguito della decisione del ricorso proposto dalla medesima parte, anche nell’ipotesi in cui (come nei caso di specie) il procedimento amministrativo avesse accertato l’insussistenza del predetto obbligo contributivo precedentemente al 31 dicembre 1988;

si tratta di interpretazione del tutto comprensibile e coerente con gli incontestati contenuti testuali della domanda proposta dalla odierna ricorrente e sulle vicende procedimentali ivi narrate;

il ricorso deve, quindi, dichiararsi inammissibile e le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2000,00 per compensi, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, spese forfettarie nella misura del 15% e spese accessorie di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 12 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2019

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