Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28106 del 24/11/2017


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Civile Ord. Sez. L Num. 28106 Anno 2017
Presidente: NOBILE VITTORIO
Relatore: AMENDOLA FABRIZIO

ORDINANZA

sul ricorso 9756-2013 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. 97103880585, in persona del
legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, V.LE MAZZINI 134, presso lo
studio dell’Avvocato LUIGI FIORILLO, che la
rappresenta e difende, giusta delega in atti;
– ricorrente contro
2017
3386

ALTIERI EMILIA, elettivamente domiciliata in ROMA, Via
PANAMA 74, presso lo studio dell’Avvocato GIANNI
EMILIO IACOBELLI, che la rappresenta e difende
unitamente all’Avvocato MASSIMO RAFFIO, giusta delega
in atti;

Data pubblicazione: 24/11/2017

I

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1556/2012 della CORTE D’APPELLO
di ROMA, depositata il 11/04/2012 R.G.N. 1443/08;

\

,

R.G. n. 9756/2013

RILEVATO

che con sentenza in data 11 aprile 2012 la Corte di Appello di Roma ha
confermato la pronuncia di primo grado che aveva dichiarato la nullità della
clausola appositiva del termine “per ragioni di carattere sostitutivo correlate alla
esigenza di sostituzione del personale addetto al servizio di portalettere presso la

cui al contratto di lavoro stipulato per il periodo 18.9.2004 – 15.11.2004 tra
Emilia Altieri e Poste Italiane Spa e, quindi, la sussistenza di un rapporto di
lavoro subordinato a tempo indeterminato, con condanna della società al
risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni dalla messa in mora, oltre
accessori;
che avverso tale sentenza Poste Italiane Spa ha proposto ricorso affidato a
plurimi motivi, cui ha resistito l’intimata con controricorso, illustrato da memoria;

CONSIDERATO

che il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione di legge, per avere
la sentenza impugnata ritenuto generica la causale posta a fondamento
dell’assunzione; il secondo motivo deduce vizio di motivazione nonchè violazione
e falsa applicazione degli artt. 253, 420, 421 c.p.c., per non avere la Corte
territoriale “sufficientemente motivato la decisione di non ammettere le istanze
istruttorie formulate dalla società istante”, senza neanche avvalersi dei poteri
istruttori d’ufficio;
che

nel

decidendi,

decisum

della Corte territoriale è individuabile una duplice

ratio

ciascuna idonea a sorreggere la decisione: l’una attinente alla

genericità della clausola appositiva del termine, statuizione censurata con il
primo motivo di ricorso; l’altra attinente la carenza di prova in ordine alla
“effettuazione di un valido riscontro di effettività della causale medesima”, con
conseguente “impossibilità di dimostrare il rapporto di derivazione causale
dell’assunzione dell’appellante a tempo determinato dall’insorgenza delle
esigenze sostitutive solo postulate”, assunto criticato con il secondo motivo;
che tale ultimo mezzo di gravame non può trovare accoglimento (analogamente
v. di recente Cass. n. 5255 del 2017) in quanto, per pacifica giurisprudenza di

i

filiale di Benevento assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro”, di

R.G. n. 9756/2013

legittimità, l’onere probatorio di provare la sussistenza delle ragioni legittimanti
l’apposizione del termine grava sul datore di lavoro (tra tante: Cass. n. 2279 del
2010; Cass. n. 3325 del 2014), mentre il giudizio in ordine all’ammissibilità ed
alla rilevanza della prova sfugge al sindacato di questa Corte (Cass. n. 11457 del
2007; Cass. n. 4369 del 2009; Cass. n. 5377 del 2011), tanto più che la società
– come risulta dalla sentenza di primo grado – è decaduta dalla prova
testimoniale ammessa non avendo provveduto ad intimare i testi; né, al

propri poteri istruttori officiosi, posto che nel ricorso per cassazione non risulta
né come né quando l’attivazione dei medesimi sia stata richiesta;

che secondo consolidata giurisprudenza: “in tema di ricorso per cassazione,
qualora la motivazione della pronuncia impugnata sia basata su una pluralità di
ragioni, convergenti o alternative, autonome l’una dall’altra, e ciascuna da sola
idonea a supportare il relativo

dictum,

la resistenza di una di esse

all’impugnazione rende del tutto ultronea la verifica di ogni ulteriore censura,
perché l’eventuale accoglimento di tutte o di una di esse mai condurrebbe alla
cassazione della pronuncia suddetta” (Cass. n. 3633 del 2017, in contenzioso
analogo; in precedenza, ex multis, Cass. n. 4349 del 2001, Cass. n. 4424 del
2001; Cass. n. 24540 del 2009);

che pertanto nella specie, poiché l’indicata ragione della decisione “resiste”
all’impugnazione proposta dal ricorrente con il secondo motivo è del tutto
ultronea la verifica delle censure di cui al primo mezzo, perché l’eventuale
accoglimento di esso non potrebbe comunque determinare la cassazione della
sentenza gravata,

che il terzo motivo denuncia violazione ed erronea applicazione dell’art. 324
c.p.c. e dell’art. 2909 c.c. per avere la Corte territoriale ritenuto la preclusione
all’applicazione del sopravvenuto art. 32 I. n. 183 del 2014 in ragione di un
insussistente giudicato;

che tale doglianza merita accoglimento in quanto le Sezioni unite di questa
Corte, con la sent. n. 21691 del 2016, hanno statuito che “in tema di ricorso per
cassazione, la censura ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. può concernere anche
la violazione di disposizioni emanate dopo la pubblicazione della sentenza
impugnata, ove retroattive e, quindi, applicabili al rapporto dedotto, atteso che

riguardo, appare pertinente il richiamo alla facoltà del giudice di esercitare i

R.G. n. 9756/2013

non richiede necessariamente un errore, avendo ad oggetto il giudizio di
legittimità non l’operato del giudice, ma la conformità della decisione adottata
all’ordinamento giuridico”; hanno altresì chiarito che “il ricorso per cassazione per
violazione di legge sopravvenuta retroattiva incontra il limite del giudicato, che,
tuttavia, ove sia stato proposto appello, sebbene limitatamente al capo della
sentenza concernente l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro,
non è configurabile in ordine al capo concernente le conseguenze risarcitorie,

combinato disposto degli artt. 329, comma 2, e 336, comma 1, c.p.c.,
l’impugnazione nei confronti della parte principale della decisione impedisce la
formazione del giudicato interno sulla parte da essa dipendente”;
che pertanto non vi è giudicato sulle conseguenze risarcitorie sino a quando
resta impugnato l’an sulla illegittimità del termine ed ove questa statuizione
venga confermata occorre tenere conto dell’art. 32 della I. n. 183 del 2010,
affinché la decisione adottata sia conforme all’ordinamento giuridico;
che, pertanto, respinti i primi due motivi di ricorso, va accolto l’ultimo, con la
conseguente cassazione della sentenza impugnata in relazione ad esso e con
rinvio per il riesame, sul punto, alla Corte di Appello indicata in dispositivo, che
dovrà limitarsi a quantificare l’indennità spettante ex art. 32 cit. per il periodo
compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il
quale il giudice ha ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro (cfr., per tutte,
Cass. n. 14461 del 2015), con interessi e rivalutazione su detta indennità da
calcolarsi a decorrere dalla data della pronuncia giudiziaria dichiarativa della
illegittimità della clausola appositiva del termine (cfr. per tutte Cass. n. 3062 del
2016), provvedendo altresì alle spese del giudizio;

P.Q.M.

La Corte, rigettati i primi due motivi di ricorso, accoglie l’ultimo, cassa la
sentenza impugnata in relazione ad esso e rinvia alla Corte di Appello di Roma, in
diversa composizione, anche per la regolazione delle spese.
Così deciso nella Adunanza camerale del 20 luglio 2017

legato al primo da un nesso di causalità imprescindibile, atteso che, in base al

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