Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28072 del 09/12/2020

Cassazione civile sez. III, 09/12/2020, (ud. 14/09/2020, dep. 09/12/2020), n.28072

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – rel. Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 35588-2p18 proposto da:

SCF srl IN LIQUIDAZIONE, in persona del liquidatore e legale

rappresentante, rappresentato e difeso dagli avvocati ANDREA

BERNAVA, e MONICA CURCURUTO, ed elettivamente domiciliato presso lo

studio dei medesimi in ROMA, VIA XXIV MAGGIO 43;

– ricorrente –

contro

LU. 96 SRL, in persona del legale rappresentante, rappresentato e

difeso dagli avvocati GUIDO GRIGNANI, e MAURIZIO BENINCASA, ed

elettivamente domiciliato presso lo studio del secondo in ROMA, VIA

DI VILLA MASSIMO 33;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4036/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 06/09/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

14/09/2020 dal Consigliere Dott. ANNA MOSCARINI;

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. La società Lu. 96 srl (di seguito Lu.) convenne in giudizio con atto di citazione del 4/6/2013, davanti al Tribunale di Milano, la società S.C.F. srl (di seguito Scf) chiedendo l’accertamento della responsabilità della convenuta per averle fornito consulenza ed assistenza su operazioni di investimento risultate illegittime sotto il profilo dell’elusione degli obblighi tributari, ad essa comportando un accertamento fiscale da parte dell’Amministrazione Finanziaria di Euro 129.114,64. Chiese pertanto la condanna della Scf al risarcimento del danno in pari misura.

2. Istituitosi il contraddittorio con la convenuta ed assunte prove testimoniali il Tribunale adito, con sentenza n. 11697/2015, accolse integralmente la domanda di Lucra, condannando la Scf a rimborsare la somma richiesta, oltre interessi e spese.

3. La Corte d’Appello di Milano, adita dalla soccombente con tre motivi, con sentenza n. 4036 del 6/9/2018, ha rigettato l’appello ritenendo, per quanto ancora qui di interesse, che era stata provata l’esistenza di un rapporto di consulenza tra le due società, pur se non consacrato in un contratto scritto, avendo la Scf dichiarato di avere competenze per fornire servizi di ingegneria finanziaria e dunque per strutturare le operazioni consigliate all’attrice – di stock lending e di associazione in partecipazione – ed avendo la stessa effettivamente consigliato la Lucra sia quanto alla scelta dei soggetti con i quali stipulare sia quanto all’esecuzione dei contratti; che era stata provata la consapevolezza di Scf circa il rischio fiscale che le operazioni avrebbero comportato, anche in ragione della qualità dei soggetti indicati, e che non era credibile l’argomento dell’appellante di aver diligentemente assolto al proprio obbligo informativo con la produzione di pareri legali di importanti studi tributari; che era stato provato il nesso causale tra la consulenza ed il danno e che non poteva darsi credito alla tesi dell’appellante sulla pretesa colpa della danneggiata per avere omesso di impugnare l’atto di accertamento in quanto, sulla base della giurisprudenza di questa Corte, l’eventuale contenzioso con il fisco non avrebbe potuto sortire esito positivo.

4. Avverso la sentenza, che rigettando l’appello ha condannato la società appellante alle spese, la società Scf ha proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi. La Lu. ha resistito con controricorso.

5. La trattazione è stata fissata in adunanza camerale ai sensi dell’art. 330-bis.1 c.p.c., in vista della quale la ricorrente ha depositato memoria. Il Pubblico Ministero non ha presentato conclusioni.

Diritto

RITENUTO

che:

1.Con il primo motivo di ricorso – motivazione inesistente in relazione ad un fatto decisivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, violazione e falsa applicazione degli artt. 1173 e 1218 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la società Scf censura la sentenza nella parte in cui ha ritenuto esistente la sua obbligazione nei confronti di Lu. senza indicare quale ne sia la fonte, essendo pacifico che tra le parti non fu stipulato alcun contratto scritto. Vi sarebbe, dunque, un vizio di motivazione assunta quale insufficiente, illogica ed incomprensibile.

2. Con il secondo motivo – violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 1223 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la ricorrente censura la sentenza per aver ritenuto la sua responsabilità in ordine alla mancata informativa sulle problematiche fiscali delle operazioni consigliate, ancorchè essa avesse reso i pareri legali di importanti studi tributari nei quali era trattato il tema dei possibili “profili elusivi” delle stesse operazioni.

La Corte d’Appello avrebbe errato nel ritenere sussistente il nesso di causalità tra le operazioni suggerite ed il danno consistente nelle sanzioni comminate dall’Amministrazione Finanziaria in quanto detta sanzione era conseguenza, non già della stipula delle operazioni finanziarie ma della rappresentazione contabile e del trattamento fiscale deciso in autonomia da Lu..

3. Con il terzo motivo – motivazione inesistente in relazione ad un fatto decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 e art. 111 Cost., nonchè violazione dell’art. 1218 e 1223 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – si censura la sentenza ancora sull’accertamento del nesso causale con riguardo all’avere essa proposto ed assistito Lu. nelle operazioni risultate illegittime.

4. Con il quarto motivo – motivazione inesistente in relazione ad un fatto decisivo, ai sensi ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 e art. 111 Cost., nonchè violazione dell’art. 1218 e 1227 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – si censura la sentenza per aver ritenuto irrilevante la mancata impugnazione delle contestazioni svolte dall’Amministrazione Finanziaria, impugnazione che, ove esperita, avrebbe condotto, con certezza all’accoglimento del ricorso e dunque alla esclusione del danno. Si chiede pertanto la cassazione della sentenza per violazione dell’art. 1227 c.c. perchè il danno avrebbe potuto essere evitato da Lu. attivandosi con azioni legali in sede tributaria.

1-4 Il ricorso merita in primo luogo una valutazione di inammissibilità per l’assoluta inidoneità del requisito dell’esposizione del fatto.

Infatti, nell’esposizione si omette: a) di individuare i fatti costitutivi della domanda introduttiva del giudizio (pag. 5) i quali, del resto nemmeno si desumono da quanto enunciato a pagina 4; b) di individuare le difese svolte dalla qui ricorrente nella comparsa di costituzione (sempre pag. 5); c) le ragioni della sentenza di primo grado e i motivi di appello, nonchè le repliche della controparte.

Il ricorso non rispetta il requisito della esposizione sommaria dei fatti prescritto a pena di inammissibilità dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, che, essendo considerato dalla norma come uno specifico requisito di contenuto-forma del ricorso, deve consistere in una esposizione che deve garantire alla Corte di cassazione di avere una chiara e completa cognizione del fatto sostanziale che ha originato la controversia e del fatto processuale, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti in suo possesso, compresa la stessa sentenza impugnata (Cass. sez. un. 11653 del 2006). La prescrizione del requisito risponde non ad un’esigenza di mero formalismo, ma a quella di consentire una conoscenza chiara e completa dei fatti di causa, sostanziali e o processuali, che permetta di bene intendere il significato e la portata delle censure rivolte al provvedimento impugnato (Cass. sez. un. 2602 del 2003). Stante tale funzione, per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3 è necessario che il ricorso per cassazione contenga, sia pure in modo non analitico o particolareggiato, l’indicazione sommaria delle reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le hanno giustificate, delle eccezioni, delle difese e delle deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, dello svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni e, dunque, delle argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si è fondata la sentenza di primo grado, delle difese svolte dalle parti in appello, ed infine del tenore della sentenza impugnata. Poichè il ricorso, nell’esposizione del fatto, non rispetta tali contenuti è inammissibile.

Peraltro, nemmeno dall’esposizione dei motivi tali carenze risultano colmate.

In ogni caso, se fosse superabile la causa di inammissibilità ed i singoli motivi si scrutinassero nonostante l’incertezza sul fatto sostanziale e processuale, essi risulterebbero comunque intrinsecamente inammissibili per le seguenti ragioni.

Il primo, il secondo ed il quarto dovrebbero, in thesi, denunciare motivazioni inesistenti e lo fanno evocando l’art. 360 c.p.c., n. 5 anzichè il n. 4 e in relazione ad esso l’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4.

Il tessuto argomentativo si risolve in realtà in una manifestazione di dissenso dalla valutazione espressa dalla corte territoriale su risultanze probatorie evocate non solo genericamente ma anche senza rispettare l’art. 366 c.p.c., n. 6. I detti motivi, peraltro, non denunciano l’omesso esame di fatti controversi e decisivi alla stregua dell’evocato n. 5, dato che per la segnalata tecnica di esposizione non individuano l’omesso esame di fatti, ma, come si è detto, prospettano, come giustificazione della pretesa apparenza di motivazione, valutazione alternative delle non meglio specificate risultanze probatorie. Le censure in iure, già preannunciate nella intestazione dei motivi in modo manifestamente contraddittorio con la prospettazione dell’inesistenza della motivazione, sono assenti nel primo motivo, dove nemmeno si evocano le norme indicate nella intestazione, mentre nel terzo si ragiona di violazione dell’art. 1223 c.c. senza considerare l’intera motivazione sul punto del nesso causale, là dove si conclude con l’affermazione: “senza il suo intervento le operazioni, verosimilmente, non sarebbero state poste in essere”. Nel quarto motivo la pretesa violazione dell’art. 1227 c.c. è sostenuta sulla base di una prospettazione dell’utilità dell’eventuale reazione della resistente alle pretese del Fisco enunciata come verosimile in modo del tutto assertorio e contrapposta alla valutazione della sentenza impugnata.

Il secondo motivo è articolato con riferimenti a circostanze dello svolgimento del rapporto riguardo alle quali non si fornisce l’indicazione specifica ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6.

La lettura dei motivi, come, del resto, si è già anticipato, rende ancora più marcata la carenza dell’esposizione del fatto, posto che la loro esposizione – in disparte i rilievi svolti – suppone una conoscenza del fatto sostanziale e processuale che non è stata in alcun modo fornita.

5. Conclusivamente il ricorso va dichiarato inammissibile e la società ricorrente condannata alle spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo e al cd. “raddoppio” del contributo unificato, se dovuto.

PQM

La Corte dichiara il ricorso inammissibile e condanna la ricorrente alle spese del giudizio di cassazione liquidate in Euro 5.600 (oltre Euro 200 per esborsi), più accessori di legge e spese generali al 15%.

Si dà atto della sussistenza, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile, il 14 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 9 dicembre 2020

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