Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28070 del 21/12/2011

Cassazione civile sez. lav., 21/12/2011, (ud. 10/11/2011, dep. 21/12/2011), n.28070

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. LA TERZA Maura – Consigliere –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. FILABOZZI Antonio – rel. Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 23244-2007 proposto da:

M.P.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

FRANCESCO DE SANCTIS 4, presso lo studio dell’avvocato TENCHINI

GIUSEPPE, che lo rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DELLA FREZZA 17, presso l’Avvocatura Centrale

dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati RICCIO

ALESSANDRO, VALENTE NICOLA, GIANNICO GIUSEPPINA, giusta delega in

atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 6417/2006 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 30/01/2007 r.g.n. 9836/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/11/2011 dal Consigliere Dott. ANTONIO FILABOZZI;

udito l’Avvocato CALIULO LUIGI per delega RICCIO ALESSANDRO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA Mario che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

M.P.L. ha chiesto la riliquidazione della pensione di inabilità erogatagli dall’Inps, assumendo che l’Istituto aveva erroneamente considerato quale parametro temporale per la determinazione della pensione il compimento del sessantesimo anno di età, anzichè quello del sessantacinquesimo, al quale occorreva fare riferimento a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 503 del 1992, che aveva elevato l’età pensionabile a 65 anni per l’uomo e 60 per la donna. Il Tribunale di Roma ha respinto la domanda con sentenza che è stata confermata dalla Corte d’appello della stessa città, che ha ritenuto che, ai fini della determinazione della pensione di inabilità da liquidarsi con decorrenza 1.1.1994,l’età pensionabile di riferimento non è quella dettata dal D.Lgs. n. 503 del 1992, che ha elevato l’età pensionabile nel settore del lavoro subordinato privato a sessantacinque anni per gli uomini e a sessanta per le donne, ma quella previgente di sessanta anni per l’uomo e cinquantacinque per la donna, in quanto l’art. 1, comma 8, del predetto articolo stabilisce che l’elevazione dei limiti di età non si applica agli invalidi in misura non inferiore all’80%, tra i quali vanno certamente inquadrati quelli che la L. n. 222 del 1984 qualifica come “inabili”, per i quali è prevista la totale perdita della capacità di lavoro.

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione l’assicurato affidandosi a tre motivi di ricorso cui resiste con controricorso l’Inps.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Con il primo motivo si denuncia violazione della L. n. 222 del 1984, art. 2, e D.Lgs. n. 503 del 1992, art. 1 per quanto riguarda l’individuazione dell’età pensionabile, così come operata dalla Corte territoriale, quale parametro di riferimento per la determinazione dell’ammontare della pensione di inabilità.

2.- Con il secondo motivo si denuncia il vizio di motivazione sullo stesso punto oggetto delle censure espresse con il primo motivo.

3.- Con il terzo motivo si lamenta, infine, sotto diversi profili, la violazione delle stesse disposizioni di legge di cui al punto 1).

4.- Il ricorso deve ritenersi inammissibile per mancanza dei requisiti prescritti dall’art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame.

5.- Ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., applicabile ai ricorsi per cassazione proposti avverso le sentenze e gli altri provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 40 del 2006, e quindi anche al ricorso in esame, nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1), 2), 3) e 4), l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena d’inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto, che deve essere idoneo a far comprendere alla S.C., dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare (Cass. n. 8463/2009). Per la realizzazione di tale finalità, il quesito deve contenere la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito, la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal giudice a quo e la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuto applicare alla fattispecie. Nel suo contenuto, inoltre, il quesito deve essere caratterizzato da un sufficienza dell’esposizione riassuntiva degli elementi di fatto ad apprezzare la sua necessaria specificità e pertinenza e da una enunciazione in termini idonei a consentire che la risposta ad esso comporti univocamente l’accoglimento o il rigetto del motivo al quale attiene (Cass. n. 5779/2010, Cass. n. 5208/2010).

Anche nel caso in cui venga dedotto un vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), l’illustrazione del motivo deve contenere, a pena d’inammissibilità, la “chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione”. Ciò comporta, in particolare, che la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto) che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità. Al riguardo, inoltre, non è sufficiente che tale fatto sia esposto nel corpo del motivo o che possa comprendersi dalla lettura di questo, atteso che è indispensabile che sia indicato in una parte del motivo stesso, che si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente dedicata (cfr.

ex plurimis, Cass. n. 8555/2010, Cass. sez. unite n. 4908/2010, Cass. n. 16528/2008, Cass. n. 8897/2008, Cass. n. 16002/2007).

6.- Questa Corte ha più volte ribadito che, nel vigore dell’art. 366 bis c.p.c., non può ritenersi sufficiente – perchè possa dirsi osservato il precetto di tale disposizione – la circostanza che il quesito di diritto possa implicitamente desumersi dall’esposizione del motivo di ricorso, nè che esso possa consistere o ricavarsi dalla formulazione del principio di diritto che il ricorrente ritiene corretto applicarsi alla specie. Una siffatta interpretazione della norma positiva si risolverebbe, infatti, nella abrogazione tacita dell’art. 366 bis, secondo cui è invece necessario che una parte specifica del ricorso sia destinata ad individuare in modo specifico e senza incertezze interpretative la questione di diritto che la S.C. è chiamata a risolvere nell’esplicazione della funzione nomofilattica che la modifica di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006 ha inteso valorizzare (Cass. n. 5208/2010, Cass. n. 20409/2008). E’ stato altresì precisato che il quesito deve essere formulato in modo tale da consentire l’individuazione del principio di diritto censurato posto dal giudice a quo alla base del provvedimento impugnato e, correlativamente, del principio, diverso da quello, la cui auspicata applicazione da parte della S.C. possa condurre a una decisione di segno inverso; ove tale articolazione logico-giuridica mancasse, infatti, il quesito si risolverebbe in una astratta petizione di principio, inidonea sia a evidenziare il nesso tra la fattispecie e il principio di diritto che si chiede venga affermato, sia ad agevolare la successiva enunciazione di tale principio a opera della S.C. in funzione nomofilattica. Il quesito, pertanto, non può consistere in una mera richiesta di accoglimento del motivo o nell’interpello alla S.C. in ordine alla fondatezza della censura, ma deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la S.C. in condizione di rispondere a esso con la enunciazione di una regula iuris che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata (Cass. sez. unite n. 27368/2009); per gli stessi motivi, il quesito di diritto non può mai risolversi nella generica richiesta rivolta alla S.C. di stabilire se sia stata violata o meno una certa norma, nemmeno nel caso in cui il ricorrente intenda dolersi dell’omessa applicazione di tale norma da parte del giudice di merito, e deve poi investire la ratio decidendi della sentenza impugnata, proponendone una alternativa e di segno opposto (Cass. n. 1285/2010, Cass. n. 4044/2009).

7.- Nella specie, le censure espresse con il primo e con il terzo motivo sono del tutto carenti sotto il profilo della formulazione dei quesiti, che è stata completamente omessa. D’altro canto, anche le carenze motivazionali dedotte con il secondo motivo di ricorso non appaiono sufficientemente individuate e precisate con il motivo di impugnazione nel senso che si è sopra indicato, ovvero mediante la necessaria indicazione del fatto controverso in una parte del motivo che costituisca un momento di sintesi del complesso degli argomenti critici sviluppati nell’illustrazione dello stesso motivo e delle ragioni per le quali le denunciate carenze dovrebbero rendere la motivazione inidonea a giustificare la decisione; dovendo rimarcarsi, peraltro, che, come questa Corte ha costantemente ribadito, (cfr. ex plurimis Cass. n. 11883/2003, Cass. n. 5595/2003), il vizio di motivazione riconducibile all’ipotesi di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 può concernere esclusivamente l’accertamento e la valutazione dei fatti rilevanti ai fini della decisione della controversia e non anche l’interpretazione o l’applicazione di norme giuridiche, con la conseguenza che è inammissibile il motivo del ricorso per cassazione con il quale la violazione o falsa applicazione di norme di diritto venga denunziata come vizio di omessa, insufficiente e contraddittori a motivazione (cfr. Cass. n. 5271 /2002, cui adde Cass. n. 3464/98).

8.- Per le considerazioni sopra esposte, il ricorso va dichiarato inammissibile.

9.- Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza (trattandosi di procedimento incardinato in epoca successiva al 2 ottobre 2003 e non avendo il ricorrente indicato nel ricorso di avere formulato, con l’atto introduttivo, la dichiarazione di cui all’art. 152 disp. att. c.p.c., quale modificato dal D.L. n. 269 del 2003, art. 42, comma 11, conv. in L. n. 326 del 2003).

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in Euro 20,00 oltre Euro 1.500,00 per onorari, oltre Iva, Cpa e spese generali.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 10 novembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 21 dicembre 2011

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