Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28061 del 24/11/2017


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Civile Sent. Sez. 5 Num. 28061 Anno 2017
Presidente: CAPPABIANCA AURELIO
Relatore: IANNELLO EMILIO

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 16718/2010 R.G. proposto da
Dolce & Gabbana S.r.l. con socio unico, quale società incorporante la
Stotex S.r.l., rappresentata e difesa dagli Avv.ti Eugenio Briguglio e
Gianluca Boccalatte, con domicilio eletto in Roma, via Germanico, n.
146, presso lo studio dell’Avv. Ernesto Mocci;
– ricorrente –

contro
Agenzia delle entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura
Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, via dei Portoghesi,
n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato;

Data pubblicazione: 24/11/2017

- controricorrente avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della
Lombardia, n. 105/30/09 depositata il 14 dicembre 2009.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 14 settembre 2017
dal Consigliere Emilio Iannello;

udito l’Avvocato dello Stato Paolo Gentili;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
generale Federico Sorrentino, che ha concluso chiedendo il rigetto.
FATTI DI CAUSA

1. Stotex S.r.l., successivamente incorporata in Dolce & Gabbana
S.r.l. con socio unico, ricorre con sei mezzi, nei confronti dell’Agenzia
delle entrate (che resiste con controricorso), avverso la sentenza in
epigrafe con la quale la C.T.R. della Lombardia ha rigettato l’appello
da essa proposto, ritenendo legittimo il recupero a tassazione, a fini
Irpeg e Irap relative all’esercizio chiuso al 31 marzo 2003, di ricavi
non contabilizzati per un ammontare complessivo di C 2.445.810;
ricavo operato con accertamento parziale sulla base delle segnalazioni
conseguite ad una verifica generale svolta nei confronti anche della
società controllante, Dolce & Gabbana Industria S.p.A.. Dall’esame
delle relazioni commerciali tra le due società era infatti emersa,
secondo i verificatori, la tenuta, da parte di Stotex, di una contabilità
di magazzino assolutamente inattendibile quanto all’identificazione e
alla valorizzazione delle rimanenze, non essendo queste raggruppate
in categorie omogenee per natura e per valore.
Nel disattendere le contestazioni iterate dalla contribuente circa la
legittimità del ricorso allo strumento dell’accertamento parziale oltre
che del rinvio per relationem al p.v.c., nel merito i giudici d’appello
hanno rilevato che «la ricorrente non aveva prodotto alcun
documento contabile o extracontabile che consentisse una diversa
valutazione di merito, ma si era limitata ad elaborare delle tabelle
2

udito l’Avvocato Eugenio Briguglio;

ricostruttive delle giacenze di magazzino con risultati diversi da quelli
indicati dall’Ufficio ma anche diversi da quelli indicati in bilancio e
nella nota integrativa» e, inoltre, quanto alla legittimità e attendibilità
della ricostruzione induttiva dei ricavi omessi, che l’Ufficio era andato
«concretamente a verificare che i valori forniti dalla società fossero

«discrepanza».
La ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ.,
con la quale ha chiesto in subordine applicarsi, per il principio del
favor rei,

il trattamento sanzionatorio previsto per le violazioni

contestate quale risultante a seguito delle modifiche apportate, al
d.lgs. n. 18 dicembre 1997, n. 471, dal d.lgs. 24 settembre 2015, n.
158.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso Stotex S.r.l. denuncia violazione
e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, comma primo, num. 3,
cod. proc. civ., degli artt.

41-bis e 43, terzo comma, d.P.R. 29

settembre 1973, n. 600, avendo i giudici d’appello ritenuto legittimo il
ricorso allo strumento dell’accertamento parziale, ex art. 41-bis cit.,
pur a seguito di una verifica generale, che aveva dato luogo ad un
processo verbale di constatazione, ciò in elusione del principio
dell’unicità dell’accertamento sancito dalla seconda delle citate
disposizioni, nonché dell’esigenza di tutela, costituzionalmente
tutelata, dell’affidamento del contribuente sulla definitività della
propria posizione fiscale.
La censura è infondata.
L’art. 41-bis, comma primo, d.P.R. n. 600 del 1973, prevedeva,
nel testo vigente sino al 31/12/2004, che «senza pregiudizio
dell’ulteriore azione accertatrice nei termini stabiliti dall’articolo 43,
gli uffici delle imposte, qualora, dalle segnalazioni effettuate al Centro
informativo delle imposte dirette, dalla Guardia di finanza o da
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effettivamente rispondenti alla merce di magazzino», accertandone la

pubbliche amministrazioni ed enti pubblici oppure dai dati in possesso
dell’anagrafe tributaria, risultino elementi che consentono di stabilire
l’esistenza di un reddito non dichiarato o il maggiore ammontare di un
reddito parzialmente dichiarato, che avrebbe dovuto concorrere a
formare il reddito imponibile, compresi i redditi da partecipazioni in

delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della
Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, o l’esistenza di deduzioni,
esenzioni ed agevolazioni in tutto o in parte non spettanti, possono
limitarsi ad accertare, in base agli elementi predetti, il reddito o il
maggior reddito imponibili. Non si applica la disposizione dell’articolo
44».
Disposizione analoga era recata — ed è recata tuttora — quanto
all’IVA, dall’art. 54, comma quinto, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633.
L’art. 43, comma terzo, d.P.R. n. 600 del 1973, nel testo vigente
ratione temporis, così infine recitava: «Fino alla scadenza del termine
stabilito nei commi precedenti l’accertamento può essere integrato o
modificato in aumento mediante la notificazione di nuovi avvisi, in
base alla sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi. Nell’avviso
devono essere specificamente indicati, a pena di nullità, i nuovi
elementi e gli atti o fatti attraverso i quali sono venuti a conoscenza
dell’ufficio delle imposte».
A decorrere dall’1/1/2005, il testo dell’art. 41-bis, comma primo,
d.P.R. n. 600 del 1973 si presenta, per quanto qui rileva, modificato
con l’aggiunta dell’inciso: «… qualora dagli accessi, ispezioni e
verifiche nonché dalle segnalazioni effettuati …».
Come osservato, anche di recente, da questa Corte (Cass.
28/10/2015, n. 21992; 23/12/2014, n. 27323) non vi è nella norma
«alcun appiglio testuale che lasci intendere che l’amministrazione non
possa emettere un avviso parziale allorché disponga di elementi tali
da consentire di procedere uno actu ad un accertamento unitario e
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società, associazioni ed imprese di cui all’articolo 5 del testo unico

globale della posizione del contribuente», essendo «ininfluente la
circostanza che l’amministrazione possa procedere con un
accertamento parziale solo se la segnalazione provenga da un
soggetto ad essa estraneo».
L’accertamento parziale è dunque uno strumento diretto a

laddove le attività istruttorie diano contezza della sussistenza a
qualsiasi titolo di attendibili posizioni debitorie e non richiedano
perciò, in ragione della loro oggettiva consistenza, l’esercizio di un
ufficio valutativo ulteriore rispetto a quello che si risolve nel recepire
e fare proprio il contenuto della segnalazione. Da qui la Corte ha
tratto la convinzione, a cui il Collegio ritiene di dover dare continuità,
che l’accertamento parziale, normativamente distinto
dall’accertamento integrativo, possa basarsi, pure nel testo vigente
sino al 31/12/2004, anche su una verifica generale, in quanto «la
segnalazione costituisce solo l’atto di comunicazione che consente
l’accertamento, distinto dall’attività istruttoria, anche se di
modestissima entità, da esso necessariamente presupposta» (Cass.
n. 21992 del 2015, cit.; Cass. 13/11/2013, n. 25481; Cass.
26/05/2010, n. 12919; Cass. 05/02/2009, n. 2761).
2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa
applicazione degli artt. 42, commi secondo e terzo, d.P.R. n. 600 del
1973; 7, comma 1, legge 27 luglio 2000, n. 212; 3, commi 1 e 3,
legge 7 agosto 1990, n. 241; nonché dell’art. 24 Cost., in relazione
all’art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., per avere la C.T.R.
ritenuto legittimo l’accertamento impugnato benché carente della
indicazione, in motivazione, degli elementi che giustificavano un
accertamento di carattere induttivo ai sensi dell’art. 39, secondo
comma, lett. d), d.P.R. n. 600 del 1973. Secondo la ricorrente, invero,
l’Amministrazione si è limitata a rilevare presunte irregolarità nella
contabilità di magazzino, senza però affermare alcunché in ordine alle

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perseguire finalità di sollecita emersione della materia imponibile,

ragioni in forza delle quali le predette violazioni devono ritenersi di
tale entità da comportare la non attendibilità delle scritture contabili
nel loro complesso.
Anche tale doglianza si appalesa infondata.
Secondo principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte

dell’art. 42 d.P.R. n. 600 del 1973, l’indicazione delle norme in tesi
violate e dei fatti che integrerebbero la relativa inosservanza, mentre
non è necessaria la formulazione delle argomentazioni giuridiche a
sostegno dell’atto, né la valutazione critica degli elementi acquisiti,
restando la relativa problematica influente nel giudizio
d’impugnazione dell’atto, al diverso fine dell’indagine sul fondamento
della pretesa impositiva (Cass. 17/12/2001, n. 15914; v. anche, ex
multis, Cass. 11/11/2011,n. 23615; Cass. 21/11/2001,n. 14700).

È poi appena il caso di rammentare che, secondo indirizzo
altrettanto consolidato, l’onere dell’Ufficio, in tali limiti inteso, di
mettere in grado il contribuente, attraverso la motivazione dell’atto
impositivo, di conoscere le ragioni della pretesa tributaria, può essere
assolto per relationem mediante il riferimento a elementi offerti da
altri documenti conosciuti o conoscibili dal destinatario, come il
processo verbale di constatazione della Guardia di finanza che sia
stato — come nella specie, secondo quanto pacifico in atti —
notificato o consegnato al contribuente; né un tale rinvio può
considerarsi illegittimo, per mancanza di autonoma valutazione da
parte dell’Ufficio degli elementi da quella acquisiti, significando
semplicemente che l’Ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha
inteso realizzare una economia di scrittura che, avuto riguardo alla
circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non
arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio (v.
e plurimis Cass. 13/10/2011,n. 21119; Cass. 10/02/2010,n. 2907).

Alla luce di tali principi regolatori non può dubitarsi, nel caso di

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il requisito motivazionale dell’avviso di accertamento esige, ai sensi

specie, del pieno rispetto da parte dell’Ufficio dell’onere motivazionale
imposto dalla norma che si assume violata, anche con riferimento alla
necessaria indicazione dei presupposti che giustificano il ricorso al
mezzo induttivo; nel richiamato p.v.c., infatti, si dà atto — come
testualmente desumibile dall’ampio stralcio che ne è trascritto nello

incongruenze, inattendibilità e irregolarità riscontrate nella
valutazione delle rimanenze» e si specificano anche gli elementi posti
a base di tale valutazione attraverso il puntuale richiamo alle
operazioni compiute e ad altre parti dello stesso processo verbale,
restando, come detto, irrilevante ai fini del rispetto della norma
predetta, la mancanza di ulteriori approfondimenti e argomentazioni
critiche circa le ragioni che inducono a valutare in siffatti termini le
emergenze indicate.
3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce violazione e falsa
applicazione dell’art. 2697 cod. civ., in relazione all’art. 360, comma
primo, num. 3, cod. proc. civ., per avere la C.T.R. giudicato in base a
un criterio di riparto dell’onere probatorio invertito rispetto a quello
da applicarsi nella specie, avendo addossato alla contribuente l’onere
di fornire la prova contraria all’affermazione dell’Ufficio.
Anche tale censura è infondata.
Non può negarsi, infatti, che il giudizio condotto dalla
Commissione regionale si muova, almeno sul piano formale, secondo
linee conformi ai criteri di riparto dell’onere probatorio in materia.
Occorre al riguardo rammentare che, ove ricorrano uno o più dei
presupposti di cui al secondo comma dell’art. 39 d.P.R. n. 600 del
1973, l’Ufficio procede all’accertamento «sulla base dei dati e delle
notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza». In tal modo
esso è autorizzato a determinare il reddito complessivo del
contribuente medesimo con facoltà di ricorso a presunzioni c.d.
supersemplici, anche prive, cioè, dei requisiti di gravità, precisione e
7

stesso ricorso (v. pagg. 25-27) — dell’emergenza di «gravi

concordanza, che comportano l’inversione dell’onere della prova a
carico del contribuente, il quale può fornire elementi contrari intesi a
dimostrare che il reddito (risultante algebrica di costi e ricavi) non è
stato prodotto o che è stato prodotto in misura inferiore a quella
indicata dall’ufficio (v. Cass. 13/02/2006, n. 3115; Cass.

In tale prospettiva si è correttamente mosso il giudice di merito
nel valutare la legittimità dell’accertamento, avendo ritenuto
sussistente il presupposto previsto dalla norma citata e avendo
conseguentemente spostato il baricentro del proprio ragionamento
sull’esame dell’idoneità delle prove offerte dalla contribuente a
condurre a una diversa valutazione di merito.
Le contestazioni mosse dal ricorrente, ancora una volta,
attengono al merito di tale valutazione (essendo in particolare dirette
a contestare la sussistenza o la gravità delle irregolarità contabili
divisate a fondamento dell’accertamento induttivo: irregolarità, come
detto, ritenute sussistenti dai giudici di merito), e come tali
impingono nel diverso piano della sufficienza e della intrinseca
coerenza della motivazione adottata, non certo in quello del rispetto
delle regole di riparto dell’onere probatorio.
4. Con il quarto motivo la ricorrente deduce poi violazione e falsa
applicazione «del combinato disposto degli artt. 92, comma 1, d.P.R.
n. 917 del 1986 e 39, comma primo, lett. d), d.P.R. n. 600 del 1973»,
in relazione all’art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., per
avere deciso secondo un’interpretazione delle norme inutilmente
rigida, in quanto slegata dalle effettive modalità di svolgimento
dell’attività da parte della società.
Posto infatti che questa aveva ad oggetto la rivendita all’ingrosso
di capi di abbigliamento e accessori acquistati in stock promiscui, per
prezzi prestabiliti in modo forfettario, sostiene che l’adozione della
classificazione «per natura» della merce sarebbe stata del tutto
8

18/06/2003, n. 9755; Cass. 02/12/2002, n. 17016).

irrilevante ai fini della valutazione del valore del magazzino, oltre che
inutilmente gravosa per la società, atteso che la stessa non avrebbe
di fatto comportato una differente valorizzazione delle rimanenze
finali, ciò in quanto i beni medesimi, una volta acquistati dalla
società, perdono la loro identità «per natura», rilevano soltanto per

La censura è inammissibile, in quanto non pertinente alla effettiva
ratio decidendi della sentenza impugnata.
Essa postula invero che, secondo la ricostruzione operata e
avallata dalla Commissione regionale, all’accertamento relativo alla
sussistenza di gravi e ripetute irregolarità nella tenuta delle scritture
contabili, l’Ufficio sia pervenuto solo in ragione della adozione di un
criterio di valutazione e raggruppamento delle rimanenze finali
eccessivamente rigido e non consono alla natura e agli obiettivi propri
dell’attività commerciale svolta.
Così non è, posto che dato di fondo è proprio rappresentato dalla
accertata sussistenza, nella contabilità della società, di lacune o
incongruenze tali da non consentire di riscontrare l’adozione di un
sistema coerente e trasparente di catalogazione e valutazione delle
rimanenze finali, seppur condotto secondo i criteri indicati come
corretti dalla ricorrente, e ciò prima ancora di apprezzarne la
correttezza in rapporto ai criteri dettati dall’art. 92 t.u.i.r..
Al di là di tale rilievo, di per sé assorbente, mette conto peraltro
soggiungere che l’interpretazione delle norme poste a base della
censura in esame non è condivisibile.
A norma dell’art. 92, comma 1, secondo periodo, d.P.R. n. 917 del
1986, «le rimanenze finali, la cui valutazione non sia effettuata a costi
specifici o a norma dell’articolo 93, sono assunte per un valore non
inferiore a quello che risulta raggruppando i beni in categorie
omogenee per natura e per valore e attribuendo a ciascun gruppo un
valore non inferiore a quello determinato a norma delle disposizioni
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numero e diventano distinguibili soltanto in base al loro valore.

che seguono».
Come fondatamente obiettato dall’Agenzia controricorrente, il
tenore testuale della norma non autorizza, in alcun caso (salvo, come
appresso sarà detto, quanto previsto dall’ultimo comma), l’adozione
di criteri di valutazione delle rimanenze che possa prescindere dal

per valore».
La valutazione delle rimanenze incontra un passaggio obbligato
nel raggruppamento dei beni per categorie omogenee per natura e
per valore. I gruppi omogenei così individuati costituiscono l’unità
minimale di valutazione cui applicare i criteri elencati di seguito.
La norma — analoga a quella dettata dall’art. 15, comma
secondo, d.P.R. n. 600 del 1973 (il quale precisa che l’inventario, oltre
agli elementi prescritti dal codice civile, deve indicare la consistenza
dei beni raggruppati in categorie omogenee per natura e per valore e
il valore attribuito a ciascun gruppo) — risponde all’esigenza di
evitare incertezze e difficoltà tecnico-pratiche nei processi di
valutazione delle rimanenze, atteso che l’omogeneità dei gruppi creati
rende immediata la valutazione di quantità anche rilevanti di merci.
In particolare, il raggruppamento per natura dei beni va
interpretato come riferimento alla natura economica e merceologica
dei beni stessi, nel senso che i beni andranno catalogati in relazione
alle loro proprietà e caratteristiche merceologiche, ossia al tipo di
mercato cui sono destinati o al tipo di bisogno che tendono a
soddisfare; il contestuale riferimento al valore deve poi esser inteso
come riferimento a beni di identico contenuto economico che
determina anche un identico valore monetario al momento
dell’aggregazione. Il gruppo, in altre parole, andrà determinato
raggruppando beni con caratteristiche merceologiche identiche e con
valore unitario più o meno coincidente. Detti criteri, se da un lato
evitano di includere nello stesso gruppo beni aventi natura differente,
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previo raggruppamento dei beni «in categorie omogenee per natura e

ma con valore unitario simile, dall’altro, portano a non poter
aggregare beni di identica natura economico-merceologica, ma con
valore monetario notevolmente differente.
Né deroga alcuna all’adozione di tali criteri è prevista ove si tratti
di impresa sottratta all’obbligo di tenuta delle scritture ausiliarie

trascritto, dell’art. 92 t.u.i.r. individua bensì, infatti, quale criterio
primario di valutazione delle rimanenze di magazzino, quello dei costi
specifici, quali desumibili per l’appunto dalle scritture ausiliarie di
magazzino; in alternativa, tuttavia, la stessa disposizione prevede che
la valutazione delle rimanenze di magazzino, raggruppate per
categorie omogenee, possa essere fatta con qualsiasi criterio o
metodo di stima, con la limitazione che il valore liberamente
determinato non sia inferiore a quello determinato in base ai criteri di
valutazione successivamente elencati ai commi 2, 3 e 4.
Conferma indiretta della insostenibilità della interpretazione
proposta dalla ricorrente può infine ricavarsi dalla norma di cui al
comma 8 dello stesso art. 92 t.u.i.r..
Questo prevede — ma solo per gli esercenti attività di commercio
al minuto, quale non può considerarsi per sua stessa ammissione la
società odierna ricorrente, ed al fine di rispondere ad esigenze di
semplificazione e di razionalizzazione nella gestione dell’attività
comprendente beni con caratteristiche merceologiche talvolta
notevolmente differenti — la possibilità di applicazione del metodo di
valutazione del prezzo al dettaglio (c.d. Retail Inventory Method),
disponendo che il valore determinato in applicazione di detto metodo
risulta fiscalmente rilevante anche in deroga al criterio del valore
minimo di valutazione previsto al comma 1 dello stesso articolo.
In sede di aggiornamento dell’OIC 13 è stato precisato che tale
metodo «approssima il costo effettivo delle rimanenze quando si
valutano rimanenze di grandi quantità di beni soggetti a rapido ritiro

11

previste dall’art. 14 d.P.R. n. 600 del 1973. Il comma 1, sopra

con margini di importo simile e per le quali è particolarmente
difficoltosa l’adozione di altri metodi di calcolo del costo».
Secondo espressa previsione della norma, però, l’adozione di un
siffatto metodo è consentita a condizione che nella dichiarazione dei
redditi o in un prospetto allegato siano illustrati dettagliatamente i

pertanto, che la mancanza del prospetto di dettaglio autorizzi
l’Amministrazione finanziaria a riprendere a tassazione il maggior
valore delle rimanenze determinato in base ai criteri ordinari di cui
allo stesso art. 92.
Non sarà inutile al riguardo rimarcare, in conclusione, che ai sensi
dell’art. 1, lett. d), (inattendibilità della contabilità degli esercenti
attività d’impresa) del d.P.R. 16 settembre 1996, n. 570
(Regolamento per la determinazione dei criteri in base ai quali la
contabilità ordinaria è considerata inattendibile, relativamente agli
esercenti attività d’impresa, arti e professioni), le irregolarità delle
scritture obbligatorie degli esercenti attività d’impresa si considerano
gravi e rendono inattendibile la contabilità ordinaria di tali soggetti,
quando, fra l’altro, «i criteri adottati per la valutazione delle
rimanenze non sono indicati nella nota integrativa o nel libro degli
inventari».
5. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia insufficiente
motivazione in ordine a un fatto controverso e decisivo per il giudizio,
ai sensi dell’art. 360, comma primo, num. 3, cod. proc. civ., in
relazione alla affermata sussistenza di una «discrepanza» tra
l’ammontare delle rimanenze finali risultanti dalla contabilità della
società e le giacenze fisiche presenti nel magazzino.
Ribadito che, trattandosi di vendita di articoli di abbigliamento
quale impresa stocchista, la merce assume rilevanza in relazione non
alla natura o alla tipologia, ma al numero dei pezzi, raggruppati e
distinti solo in relazione al valore d’acquisto, secondo prezzi rimasti
12

criteri e le modalità di applicazione dello stesso. È da ritenere,

costanti nel tempo (donde l’errore in cui sarebbe incorso l’Ufficio nel
prendere in considerazione il numero di «capi» di abbigliamento
invece che quello, maggiore, dei «pezzi» di cui ciascuno di questi è
composto, e nel pretendere inoltre l’indicazione di voci distinte per
anno di formazione) — lamenta la ricorrente che la C.T.R. ha invece

proprio convincimento e senza esaminare gli elementi indicati da essa
ricorrente a giustificazione della diversa contabilizzazione delle
rimanenze di magazzino: omissione — aggiunge — tanto più rilevante
considerato che in sede di verifica nessun tipo di controllo era stato
effettuato sulle giacenze fisiche presenti in magazzino e che, inoltre,
secondo quanto non controverso in causa, la società non aveva
l’obbligo di tenere le scritture ausiliarie di cui all’art. 14 d.P.R. n. 600
del 1973.
6. Con il sesto motivo la ricorrente deduce, infine, analogo vizio
motivazionale in relazione all’operato recepimento, in sentenza, della
determinazione del valore delle rimanenze finali.
Rileva che, come dedotto nei gradi di merito, anche a seguire i
criteri adottati dai verificatori, la quantificazione del valore delle
rimanenze finali risulterebbe diversa da quella determinata nel p.v.c.
e, conseguentemente, nell’avviso di accertamento.
Richiama al riguardo, trascrivendole per ampi stralci, le
osservazioni critiche svolte nell’atto d’appello con riferimento agli
elaborati allegati al p.v.c., rilevando in particolare:
a) quanto al primo di essi (prospetto dettagliato degli acquisti
effettuati dal fornitore D&G raggruppati per categoria: all. 1/6),
l’incomprensibile determinazione dei prezzi unitari;
b) quanto al secondo (prospetto dettagliato delle vendite dei
medesimi articoli, raggruppati per categoria: all. 1/7) che la
descrizione degli articoli contenuta nei raggruppamenti non
corrisponde a quella del primo allegato, emergendo evidenti
13

tout court avallato tale ricostruzione senza spiegare le ragioni del

incongruenze, anche numeriche (il totale di pezzi nella categoria
acquisti essendo di n. 139, quello di pezzi nella categoria vendita di n.
14.742).
Soggiunge di avere anche evidenziato l’esistenza di differenze
positive (in alcuni casi cioè gli articoli venduti risultano, secondo le

categoria di acquisti), delle quali però l’Ufficio non ha tenuto conto,
limitandosi a presumere maggiori ricavi relativamente alle categorie
per le quali emergevano differenze negative (un numero di acquisti,
cioè, superiore alle vendite).
Rileva ancora di avere pure rimarcato che nel secondo prospetto,
nella categoria accessori, sono sicuramente da eliminare n. 27.260
pezzi relativi a accessori interni per abiti; che, comunque, associando
il prezzo medio ponderato di vendita utilizzato dall’Ufficio al numero
totale dei pezzi la cui cessione è stata presunta in sede di
accertamento (pari a 126.679), si sarebbe dovuto giungere a un
ammontare complessivo dei maggiori ricavi lordi pari a C 541.488,13
e non a C 2.445.810; che, infine, avrebbe dovuto tenersi conto dei
costi relativi ai maggiori ricavi presunti; che il procedimento penale,
nei confronti del legale rappresentante della società, per infedele
dichiarazione dei redditi, si è concluso con l’archiviazione dello stesso;
che infine le contestazioni mosse all’accertamento erano state anche
suffragate dall’analisi, in punto di tecnica economico-aziendale,
effettuata dal Prof. Lorenzo Pozza, associato di Economia Aziendale
presso l’Università Commerciale Bocconi di Milano.
Tutto ciò premesso la ricorrente lamenta l’omesso esame da parte
dei giudici d’appello di tali argomenti ed allegazioni.
7. Anche detti motivi, congiuntamente esaminabili stante la loro
intima connessione, sono infondati.
Le censure appaiono invero nel loro complesso dirette a
prospettare diversi criteri di calcolo o, più in generale, questioni e
14

classificazioni elaborate dai verificatori, superiori alla corrispondente

argomenti difensivi prettamente di merito, perlopiù attraverso la
mera trascrizione di ampi stralci del ricorso in appello, mancando
invece una specifica e puntuale indicazione di fatti decisivi (ossia
obiettivamente e univocamente idonei a condurre a una diversa
decisione) e controversi di cui è stata omessa la valutazione o in

È giurisprudenza consolidata di questa Corte che il ricorso per
Cassazione con il quale si facciano valere vizi della motivazione della
sentenza deve contenere la precisa indicazione di carenze o di lacune
nelle argomentazioni sulle quali si basano la decisione o il capo di
essa censurato ovvero la specificazione d’illogicità, consistente
nell’attribuire agli elementi di giudizio considerati un significato fuori
dal senso comune, od ancora la mancanza di coerenza fra le varie
ragioni esposte, quindi l’assoluta incompatibilità razionale degli
argomenti e l’insanabile contrasto degli stessi.
Ne consegue che risulta inidoneo allo scopo il far valere la non
rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito
all’opinione che di essi abbia la parte ed, in particolare, il prospettare
un soggettivo preteso migliore e più appagante coordinamento dei
molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni
all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e
degli apprezzamenti dei fatto, attengono al libero convincimento dei
giudici e non ai possibili vizi dell’iter formativo di tale convincimento
rilevanti ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.
Diversamente il motivo del ricorso per cassazione si risolverebbe
in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate
ed, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal giudice di merito
cui non può imputarsi d’avere omesso l’esplicita confutazione delle
tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di
giudizio ritenuti non significativi, giacché né l’una né l’altra gli sono
richieste, mentre soddisfa all’esigenza di adeguata motivazione che il

15

ordine ai quali questa si riveli insufficiente o contraddittoria.

raggiunto convincimento risulti da un esame logico e coerente di
quelle tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie che
siano state ritenute di per sé sole idonee e sufficienti a giustificarlo
(cfr. tra le altre, Cass. 25/05/2006, n. 12446; Cass. 27/04/2004, n.
8718; Cass. 30/03/2000, n. 3904; Cass. 06/10/1999, n. 11121).

svolte censure.
Posta invero la divisata legittimità del ricorso all’accertamento
induttivo, sulla base di presunzioni c.d. supersemplici

del che la

C.T.R. ha ravvisato i presupposti con motivazione stringata ma
ineccepibile alla stregua delle considerazioni che precedono — ne
discende anche l’incensurabilità dell’avallo del metodo seguito
dall’Ufficio per la ricostruzione del reddito (attraverso l’esame delle
fatture di acquisto e vendita; la media ponderata dei prezzi di vendita
dei singoli tipi di merce acquistata; il raggruppamento di tale merce
per categorie omogenee; il recupero come ricavi non contabilizzati
delle differenze tra merci di una certa categoria acquistate e merci
della medesima categoria rivendute, valorizzando tali differenze ai
prezzi di vendita medi ponderati).
In ordine a ciascuno di tali passaggi la ricorrente non prospetta
rilievi dotati di obiettività ed evidenza tali da imporsi quali indicatori
di rilevanti omissioni o vizi motivazionali.
L’errore di calcolo, in particolare, è affermato in termini non
verificabili. Non vengono specificati i presupposti numerici del calcolo
la cui determinazione da parte dell’Ufficio sarebbe da considerare
inesatta e tale da inficiarne la tenuta logica, né soprattutto da quale
fonte di prova ritualmente acquisita al processo e che non sarebbe
stata considerata dai giudici emergerebbe univocamente il dato che
dovrebbe invece considerarsi esatto e tale da condurre al diverso
calcolo proposto.
Quanto alla dedotta necessità di detrarre i costi relativi alla

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Alla luce dell’indicato principio la sentenza impugnata resiste alle

produzione dei maggiori ricavi, va evidenziato che gli stessi non
possono essere presunti dall’Ufficio ma vanno provati dal
contribuente. Va in proposito rammentato, infatti, che, in presenza
dei presupposti per procedere ad accertamento induttivo ai sensi
dell’art. 39 d.P.R. n. 600 del 1973 la norma non impone altro onere

offrire la prova contraria, in particolare, quella dell’esistenza di costi
ed oneri deducibili concorrenti alla determinazione del reddito
d’impresa, ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione
ad attività produttive di ricavi. Inoltre, poiché nei poteri
dell’amministrazione finanziaria in sede di accertamento rientra la
valutazione della congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e
nelle dichiarazioni, con negazione della deducibilità di parte di un
costo sproporzionato ai ricavi o all’oggetto dell’impresa, l’onere della
prova dell’inerenza dei costi, gravante sul contribuente, ha ad oggetto
anche la congruità dei medesimi (v. Cass. 25/02/2010, n. 4554;
Cass. 30/07/2002, n. 11240).
Quanto poi all’archiviazione del procedimento penale a carico del
legale rappresentante della società, è appena il caso di rilevare che,
stante la diversità dei piani valutativi, nessun vincolo o rilevanza se
ne può trarre ai fini della presente controversia tributaria.
8. Come si è sopra anticipato, la ricorrente, con la memoria, ha
chiesto l’applicazione dello ius superveniens di cui al d.lgs. n. 158 del
2015 e, di conseguenza, la rideterminazione delle sanzioni applicate
con riferimento alla ripresa cui si riferisce la vicenda giudiziale.
Tale richiesta non può essere accolta.
Come questa Corte ha già avuto occasione di chiarire, alla stregua
di orientamento prevalente al quale si ritiene di dover dare continuità,
le modifiche apportate dal d.lgs. n. 158 del 2015 non rendono la
sanzione irrogata automaticamente illegale, perché non operano in
maniera generalizzata quale

favor rei, escludendosi pertanto che la
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all’amministrazione ma piuttosto faculta (e onera) il contribuente a

mera deduzione, in sede di legittimità, dello ius supervemens, senza
specifiche allegazioni riferite al caso concreto idonee ad influire sui
parametri di commisurazione della sanzione entro la cornice edittale,
imponga la cassazione con rinvio della sentenza impugnata (v. Cass.
07/10/2016, n. 20141; 03/02/2017, n. 2880; 12/04/2017, n. 9505).

state commisurate in importo pari al minimo del

range in allora

previsto non può al riguardo considerarsi dato decisivo.
Non è dato infatti verificare, in mancanza della riproduzione degli
elementi considerati dall’Amministrazione per la commisurazione
della sanzione, se questa sia stata quantificata nel minimo all’epoca
dei fatti previsto in assenza di ogni altra considerazione dei criteri
evocati dall’art. 7 del d.lgs. n. 472/97, proprio perché era il minimo
consentito dalla legge, in quanto tale, a ritenersi sanzione congrua,
oppure se l’Ufficio abbia quantificato la sanzione avuto riguardo al
quantum,

indipendentemente dal fatto che esso fosse anche la

sanzione minima allora applicabile, ritenendo che proprio quel
quantum fosse di per sé adeguato alla gravità dell’illecito accertato,
in base tra l’altro alla condotta dell’agente ed alle sue condizioni
economiche e sociali (cfr. Cass. 09/06/2017, nn 14406 e 14407;
Cass. 13/09/2017, n. 21253).
Il fatto che sia tuttora prevista una forbice tra un minimo ed un
massimo non consente di procedere ad un’automatica applicazione
della novella, come questa Corte ha fatto in relazione ad altri casi in
cui ha potuto direttamente tener conto di una modifica favorevole (a
proposito di sanzioni per il ritardo nel versamento dell’accisa su birre
e bevande alcoliche, vedi Cass. n. 8751 del 2013); d’altronde, la
circostanza che il

quantum

applicato sia tuttora compreso nella

forbice edittale rende incensurabile la statuizione (v. in termini Cass.
14/04/2017, n. 9670).
9. In ragione delle considerazioni che precedono deve in definitiva

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Nel caso di specie, il riferimento al fatto che le sanzioni siano

pervenirsi al rigetto del ricorso, con la conseguente condanna della
ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate come da
dispositivo.
P.Q.M.

rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore

liquida in Euro 10.000 per compensi, oltre alle spese prenotate a
debito.
Così deciso il 14/9/2017

della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che

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