Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28048 del 14/10/2021

Cassazione civile sez. III, 14/10/2021, (ud. 20/04/2021, dep. 14/10/2021), n.28048

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso n. 27264/18 proposto da:

M.R., elettivamente domiciliato a Roma, via di Porta

Pinciana n. 4, (c/o avv. Mario Santaroni), difeso dall’avvocato

Giuseppe Di Meglio, in virtù di procura speciale apposta in calce

al ricorso;

– ricorrente –

contro

M.A., M.C., M.D.,

M.G.;

– intimati –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli 2 luglio 2018 n.

3318;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

20 aprile 2021 dal Consigliere relatore Dott. Marco Rossetti;

viste le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto

Procuratore Generale Dott. CARDINO Alberto, che ha concluso per il

rigetto del ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. M.A., C., D., G. e F. (che decederà nelle more del giudizio, ma la cui posizione non viene in rilievo nel presente giudizio) ebbero una lite giudiziaria con M.R.. All’esito di quel giudizio, la Corte d’appello di Napoli condannò M.R. a rifondere alle controparti le spese di lite, quantificate in Euro 4.010, al netto di IVA e contributo previdenziale destinato alla cassa avvocati.

2. Le parti creditrici, forti di tale sentenza, intimarono precetto a M.R., chiedendo il pagamento della somma di Euro 5.982,08.

Tale somma venne così determinata nel precetto:

-) Euro 5.587,89, pari all’importo liquidato nel titolo esecutivo, maggiorato di IVA e cassa avvocati;

-) Euro 394,19, a titolo di spese ed onorari dovuti per l’atto di precetto.

3. M.R. propose opposizione a precetto dinanzi al Tribunale di Napoli, sezione distaccata di Ischia.

A fondamento dell’opposizione dedusse che il precetto presentava vari profili di nullità (carenza di procura, omessa indicazione della data di notifica del titolo, omessa indicazione della data di apposizione della formula esecutiva); che le somme precettate erano maggiori dìquelle indicate nel titolo esecutivo; che i compensi professionali pretesi per la notifica del precetto erano errati per eccesso, in quanto il valore della causa andava determinato in base al valore nominale della somma portata dal titolo esecutivo, al netto dell’IVA e del contributo per la Cassa avvocati.

4. Con sentenza 8.5.2017 n. 29 il Tribunale di Napoli, sezione di Ischia, accolse in parte l’opposizione.

Il Tribunale ritenne che:

a) la somma indicata nel titolo esecutivo era stata erroneamente maggiorata, nel precetto, di Euro 110;

b) il valore della causa, ai fini della determinazione degli onorari dovuti per il precetto, andava determinato in base all’importo risultante dal titolo esecutivo, al netto dell’IVA e del contributo per la Cassa avvocati.

Eseguiti i dovuti conteggi, il Tribunale stabilì che l’ammontare effettivo del credito e degli onorari per il precetto ammontava ad Euro 5.740,85, e dunque era inferiore di Euro 187,23 rispetto alla somma precettata (pari, come s’e’ detto, ad Euro 5.928,08).

5. La decisione venne impugnata dai creditori ( M.A., C., D. e G.).

La Corte d’appello di Napoli con sentenza 2.7.2018 n. 3318 accolse parzialmente il gravame e rideterminò la pretesa creditoria in Euro 5.872,08. In sostanza, all’esito di due giudizi di merito l’importo precettato risultò decurtato – e quindi l’opposizione risultò fondata – nei limiti di Euro 56.

6. Quanto alle spese del doppio grado di giudizio, la Corte d’appello le compensò per un decimo e pose i restanti nove decimi a carico del debitore opponente M.R..

Quest’ultimo, pur vittorioso sull’opposizione per 56 Euro, fu condannato a pagare ai quattro creditori cumulativamente la somma di Euro 1.035 per il primo grado di giudizio ed Euro 2.152,35 per grado di appello (al netto della compensazione del 10%).

7. Avverso la suddetta sentenza M.R. ha proposto ricorso per cassazione basato su un solo motivo.

Le controparti sono rimaste intimate.

Il ricorso, già fissato per la trattazione dinanzi alla sesta sezione di questa Corte, nelle forme di cui all’art. 380 bis c.p.c., con ordinanza interlocutoria 16 giugno 2020, n. 11606, è stato rimesso alla pubblica udienza del 20 aprile 2021.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con l’unico motivo di ricorso M.R. lamenta sia il vizio di violazione di legge di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3 (deducendo la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c.), sia il vizio di omesso esame di un fatto decisivo. Nella illustrazione del motivo deduce – in buona sostanza – che la Corte d’appello avrebbe violato l’art. 91 c.p.c., perché lo ha condannato alla rifusione delle spese di lite in favore delle controparti, nonostante egli dovesse ritenersi la parte vittoriosa.

Spiega che era lui a dover essere considerato la parte vittoriosa in quanto, all’esito del doppio grado di giudizio, la sua opposizione a precetto era stata comunque accolta, sia pure in misura modesta ed inferiore al richiesto.

2. Il ricorso sottopone a questa Corte la seguente questione di diritto: se l’art. 91 c.p.c., consenta di condannare alla rifusione delle spese di lite in favore della controparte l’attore che abbia visto sì accogliere la propria domanda, ma in misura notevolmente inferiore rispetto a quanto richiesto.

Ritiene il Collegio che tale questione meriti di essere sottoposta all’esame delle Sezioni Unite per due ragioni: sia perché è una questione di principio di ovvia importanza, a prescindere dal contenuto economico effettivo della presente controversia; sia perché ha dato vita ad un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte.

3. Sulla questione posta dal ricorso in esame si registrano due orientamenti contrastanti.

Secondo un primo orientamento, l’attore che – per ipotesi – chiedesse “100”, e vedesse accogliersi la domanda per “10”, non potrebbe ritenersi “soccombente” per i fini di cui all’art. 91 c.p.c. e quindi non potrebbe mai essere destinatario, nemmeno in minima parte, di una condanna alle spese. Ad avviso di questo orientamento infatti “la riduzione, sia pure sensibile, della somma richiesta con la domanda giudiziale, non vale a realizzare il concetto di soccombenza ai fini dell’attribuzione dell’onere delle spese e può, quindi, solo consentire la relativa compensazione totale o parziale” (sono parole di Sez. 2, Sentenza n. 3388 del 20/12/1962, Rv. 254981 – 01; il principio è stato ribadito negli stessi termini da Sez. 3, Sentenza n. 46 del 08/01/1968, Rv. 330855 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 2513 del 30/04/1979, Rv. 398845 01; Sez. L, Sentenza n. 4012 del 24/04/1987, Rv. 452815 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 2124 del 03/03/1994, Rv. 485579 – 01; Sez. L, Sentenza n. 2337 del 17/03/1997, Rv. 503052 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 8532 del 23/06/2000, Rv. 537937 – 01; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 30210 del 15.12.2017).

4. Un secondo orientamento ritiene invece che sussista una ipotesi di “soccombenza” in senso tecnico anche quando l’attore abbia formulato una sola domanda, articolata in un unico capo, la quale venga accolta in misura quantitativamente inferiore al richiesto.

Questo principio è stato affermato da innumerevoli decisioni (senza pretesa di completezza, si vedano in tal senso Sez. 3 -, Ordinanza n. 20888 del 22/08/2018, Rv. 650435 – 01; Sez. 1 -, Ordinanza n. 10113 del 24/04/2018, Rv. 648893 – 01; Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 21684 del 23/09/2013, Rv. 627822 – 01; Sez. 6 – L, Ordinanza n. 7307 del 30/03/2011, Rv. 616436 – 01; Sez. 3, Ordinanza n. 22381 del 21/10/2009, Rv. 610563 – 01; Sez. L, Sentenza n. 7716 del 16/05/2003, Rv. 563232 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 77 del 18/01/1962, Rv. 250135 – 01).

Esso è stato tuttavia sostenuto con maggior spessore di argomentazioni da Sez. 3, Sentenza n. 3438 del 22/02/2016.

4.1. Tale sentenza aveva ad oggetto una fattispecie processuale in cui:

-) il titolare di un credito aquiliano vide accolta la propria domanda in primo grado;

-) il creditore propose tuttavia appello per ottenere una più cospicua liquidazione del danno; tale gravame venne accolto, ma in misura inferiore a quanto richiesto;

-) il giudice d’appello condannò l’appellante vittorioso alla rifusione in favore dell’appellato soccombente dei tre quarti delle spese di lite, compensando la parte restante.

4.2. La sentenza di questa Corte 3438/16, cit., con ampia motivazione ritenne corretta la decisione del giudice d’appello, in base ad argomenti così riassumibili:

a) la parte che veda accolta la propria domanda in misura inferiore a quanto richiesto è tecnicamente un “soccombente”: prova ne sia che altrimenti non avrebbe titolo per proporre alcuna impugnazione; e dunque, in quanto “soccombente”, ben può essere condannato alle spese in favore della controparte;

b) la formulazione di una domanda di condanna eccedente la reale entità del credito costringe il convenuto a sostenere “maggiori oneri” di difesa; infatti le spese sostenute dal convenuto per remunerare il proprio difensore saranno parametrato al petitum, non al decisum; sicché sarebbe iniquo lasciare a carico del convenuto spese causate dalla eccessiva pretesa di controparte;

c) l’art. 92 c.p.c., stabilisce quando le spese possano essere compensate anche in parte, ma non stabilisce a carico di chi vada posta la parte di spese non compensate: e dunque consente la condanna anche a carico della parte “poco vittoriosa”, vale a dire vittoriosa solo in parte o solo in minima parte.

5. Il punto di contrasto, dunque, riguarda l’ipotesi in cui all’esito del giudizio si registri un rilevante divario tra petitum e decisum.

Mentre alcune decisioni ritengono che ricorra in tal caso un’ipotesi di soccombenza reciproca (o “parziale”: la terminologia non è costante, e le due definizioni sono talora usate come sinonimi, talora no), altre ritengono che ricorra soltanto un “giusto motivo” ex art. 92 c.p.c., per la compensazione delle spese.

L’ovvia conseguenza è che il primo orientamento ammette nella suddetta ipotesi non solo la compensazione delle spese, ma anche la condanna dell’attore “esoso” alla rifusione delle spese in favore della controparte.

Il secondo orientamento, invece, ammette nella suddetta ipotesi solo la compensazione delle spese, ma non anche, neppure in parte, la condanna della parte che sia risultata vittoriosa in misura inferiore al richiesto.

Nel caso di specie, aderendo al primo degli orientamenti più sopra ricordati, il ricorso dovrebbe giudicarsi infondato, dal momento che l’odierno ricorrente è stato parzialmente soccombente (la sua opposizione, infatti, fondata su più motivi, è stata accolta solo su un punto e solo in misura largamente inferiore a quanto preteso): e la parte “parzialmente soccombente” potrebbe, secondo quell’opinione, essere condannata in parte alle spese di lite.

Se, invece, si aderisse al secondo degli orientamenti di cui si è detto, il ricorso sarebbe fondato.

6. Ritiene il Collegio opportuno sottoporre la suddetta questione alle Sezioni Unite di questa Corte sia a causa del segnalato contrasto; sia perché reputa non soddisfacente l’orientamento che consente la condanna della parte “parzialmente vittoriosa” alla rifusione delle spese di lite: sia sul piano dell’interpretazione letterale, sia sul piano dell’interpretazione logica, sia sul piano dell’interpretazione costituzionalmente orientata.

7. Sul piano dell’interpretazione letterale, condannare la parte che ha visto accolta la propria domanda, sia pure solo in parte, è conclusione che trascura il rapporto che la dottrina da sempre (per l’esattezza, a partire dall’esegesi formatasi sul codice Sardo del 1859, rifluito poi nell’art. 370 c.p.c. del 1865, e quindi negli artt. 91-92 del vigente c.p.c.) ravvisa tra gli artt. 91 e 92 c.p.c., il quale è un rapporto di regola ad eccezione.

L’art. 91 c.p.c., infatti, detta la regola generale victus victori; l’art. 92 c.p.c., consente tre deroghe a quella regola, la quale non s’applica quando la parte vittoriosa abbia violato il dovere di correttezza, quando vi sia soccombenza reciproca o quando ricorrano “gravi motivi” (quest’ultima ipotesi è quella risultante dall’intervento manipolativo della sentenza della Corte Cost., 19 aprile 2018, n. 77).

Il rapporto di regola ad eccezione esistente tra l’art. 91 e l’art. 92 c.p.c., ha per ovvia conseguenza che, venuto meno il presupposto dell’eccezione, risorgerà la regola.

Dunque, se vi è soccombenza reciproca o parziale ed il giudice decida di compensare le spese solo in parte, l’aliquota di spese che il giudice ritenesse di non compensare resta disciplinata dall’art. 91 c.p.c.. Quella, infatti, è la regola generale che deve applicarsi, a meno che non venga disposta la compensazione. Se dunque manca la compensazione, o nei limiti in cui manca la compensazione, viene a mancare il fondamento della deroga prevista dall’art. 92 c.p.c. e risorgerà la regola generale per cui le spese seguono la soccombenza.

Non sembra dunque condivisibile l’argomento speso dall’orientamento di cui qui si dubita, secondo cui “l’art. 92 c.p.c., stabilisce quando le spese possano essere compensate anche in parte, ma non stabilisce a carico di chi vada posta la parte di spese non compensate” (supra, p. 4.2, punto (c)).

E’, vero, piuttosto, l’esatto contrario: l’art. 92 c.p.c., “non stabilisce a carico di chi vada posta la parte di spese non compensate” per l’ovvia ragione che non aveva bisogno di farlo, dal momento che a tanto provvede l’art. 91 c.p.c..

8. Sul piano dell’interpretazione logica, reputa il Collegio non condivisibile l’argomento secondo cui “la formulazione di una domanda di condanna eccedente la reale entità del credito costringe il convenuto a sostenere maggiori oneri di difesa, sicché sarebbe iniquo lasciare a carico del convenuto spese causate dalla eccessiva pretesa di controparte” (supra, p. 4.2, lettera (b)).

Questa affermazione non appare al Collegio condivisibile, dal punto di vista della logica formale, sotto due diversi aspetti.

8.1. In primo luogo, essa trascura di considerare che – per avviso unanime della dottrina – il diritto al rimborso delle spese non preesiste alla sentenza, ma nasce con essa. Il provvedimento giudiziario quel diritto non lo trova, ma lo crea: ragione per cui si suol dire che la sentenza è costitutiva dell’obbligo del rimborso.

E’ dunque un’inversione logica chiedersi se, per avventura, prima della sentenza la parte soccombente abbia sostenuto spese che una diversa condotta della parte vittoriosa le avrebbe potuto risparmiare. Il credito di rimborso sorge infatti solo con la sentenza e solo a favore della parte vittoriosa, il che esonera il giudice dal chiedersi se e cosa abbia speso la parte soccombente, in quanto la legge non consente che tre alternative: la condanna integrale del soccombente; la condanna parziale del soccombente (con compensazione parziale per la frazione restante); la compensazione integrale.

Ed in tutte e tre le ipotesi resta irrilevante stabilire cosa abbia speso il soccombente per remunerare il proprio difensore.

8.2. In secondo luogo, la tesi secondo cui “la formulazione di una domanda di condanna eccedente la reale entità del credito costringe il convenuto a sostenere maggiori oneri di difesa” (e dunque giustificherebbe la condanna della parte vittoriosa alla rifusione delle spese) non appare persuasiva dal punto di vista dell’interpretazione logica, perché mescola e sovrappone due piani: quello delle spese di soccombenza (cioè le spese che la parte soccombente deve rifondere al vincitore) e quello delle spese di resistenza (cioè le spese che la parte soccombente ha sostenuto per contrastare l’iniziativa giudiziaria avversa).

Ma le une e le altre delle suddette spese non interferiscono tra loro. Per stabilire se e chi debba pagare le spese di soccombenza dovute alla parte vittoriosa è irrilevante chiedersi quanto abbia speso il soccombente per remunerare il proprio difensore, per quattro ragioni.

8.2.1. La prima ragione è che la nostra legge, agli artt. 91-92 c.p.c., si occupa solo delle spese di soccombenza, ma si disinteressa delle spese di resistenza.

8.2.2. La seconda ragione è che, con riferimento alle spese di soccombenza, nel caso di domanda di condanna risultata eccessiva, il soccombente è tutelato dal principio per cui le spese dovute alla parte vittoriosa vanno liquidate in base al decisum e non in base al petitum (D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 5, comma 1, quarto periodo). Sicché rispetto a queste spese una domanda quantitativamente esagerata non sortisce affetto alcuno sulla misura della condanna a carico del soccombente.

8.2.3. La terza ragione è che l’onere sostenuto dal convenuto per remunerare il proprio difensore non potrebbe mai giustificare la condanna alle spese della parte vittoriosa, in quanto delle due l’una: o l’eccessività della pretesa attorea era evidente, oppure no.

Se l’eccessività era evidente, il soccombente è tutelato (rispetto alle pretese del proprio difensore) dal D.M. n. 55 del 2014, art. 5, comma 2, a norma del quale “nella liquidazione dei compensi a carico del cliente si ha riguardo (…) al valore effettivo della controversia quando risulta manifestamente diverso da quello presunto”.

Se invece l’eccessività della pretesa attorea non era evidente, a fortiori la parte vittoriosa non potrebbe mai essere condannata alle spese: sia perché in questo caso i “maggiori oneri” sostenuti dal convenuto non potrebbero dirsi inutili; sia perché mancherebbe la colpa dell’attore (per chi ne ammette la rilevanza in tema di spese giudiziarie); sia perché mancherebbe la causalità tra l’iniziativa attorea e i suddetti “maggiori oneri”.

8.2.4. La quarta ragione è che potrebbe risultare velleitario pretendere di distinguere, a fronte di una domanda attorea accolta solo in parte, gli “oneri” (quelli che il convenuto avrebbe dovuto comunque sostenere), dai “maggiori oneri” (quelli, cioè, che il convenuto ha dovuto affrontare solo a causa della esosità della pretesa attorea).

Ed anche ad ammettere che questa operazione fosse possibile in concreto, essa non appare coerente col principio, affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte, secondo cui le “prorompenti esigenze di semplificazione” dello svolgimento del processo ed il principio di ragionevole durata di cui all’art. 111 Cost., comma 2, impongono alla Corte di cassazione di fornire al giudice di merito “soluzioni snelle”, specie nelle situazioni “che recano in se stesse il germe dell’inevitabile approssimazione della statuizione giudiziale” (Sez. U., Sentenza n. 19499 del 16/07/2008, p. 3 dei “Motivi della decisione”). E certamente non potrà dirsi “soluzione snella” e di pronta applicazione quella che imponga al giudice di merito, al fine di stabilire se l’attore parzialmente vittorioso possa essere condannato alle spese, di soppesare con certosina acribia se e quanta parte delle spese sostenute dal convenuto siano state necessità della “eccedente pretesa” attorea.

9. Infine, l’orientamento che ammette la possibilità di condannare la parte vittoriosa alle spese, nel caso di rilevante divario tra petitum e decisum, ad avviso del Collegio adotta un’interpretazione dell’art. 92 c.p.c., che non sembra perfettamente compatibile con l’art. 24 Cost..

Quell’orientamento, infatti, a ben vedere si fonda sul seguente sillogismo:

-) se la vittoria dell’attore è “parziale”, ciò vuol dire che la parte vittoriosa è anche parzialmente soccombente;

-) se l’attore è parzialmente soccombente, e converso la controparte sarà parzialmente vittoriosa sul punto di domanda non accolto;

-) ergo, è giusto ed equo che l’attore possa essere condannato alle spese. Quello che precede, tuttavia, ad avviso del Collegio rischia di integrare un paralogismo, in cui l’errore sta in ciò: equiparare inammissibilmente la posizione dell’attore e quella del convenuto.

Il creditore insoddisfatto non potrebbe ottenere il pagamento di quanto a lui dovuto, se non virtù di un provvedimento giudiziario. Egli, di conseguenza, è obbligato a ricorrere al giudice per tutelare le proprie ragioni.

Il debitore che si veda richiedere un importo superiore al dovuto, non è obbligato a ricorrere al giudice per tutelare le proprie ragioni.

Egli potrà attendere supinamente che sia il creditore a farlo; e comunque avrà sempre la possibilità di adempiere spontaneamente la parte di obbligazione che ritiene dovuta; oppure di evitare gli effetti della mora attraverso l’offerta formale.

Che’ se poi, nonostante ciò, il creditore insistesse nella propria pretesa, l’eventuale giudizio da questi introdotto si concluderà con un rigetto totale, e non parziale, della domanda attorea: e nessun problema potrebbe sorgere sulla regolazione delle spese.

Questa differenza impedisce di accomunare la posizione dell’attore parzialmente vittorioso a quella del convenuto parzialmente soccombente. Solo il primo, infatti, a fronte dell’inadempimento altrui è costretto a ricorrere al giudice e quindi a sostenere delle spese.

Il secondo, a fronte di una pretesa stragiudiziale eccedente il dovuto, non ha nessuna immediata necessità di ricorrere al giudice, né alcun onere di chiedere una pronuncia di accertamento. Al debitore l’ordinamento accorda inoltre vari strumenti di autotutela o dissuasivi (l’offerta reale, ma anche a seconda dei casi l’eccezione di inadempimento o lo ius ritentionis)

Pertanto, quando all’esito del giudizio la domanda attorea fosse accolta solo in parte, non sembra corretto discorrere di una “soccombenza prevalente” e una “soccombenza minusvalente”, come sostenuto dal Procuratore Generale nelle sue conclusioni scritte.

Quel cui occorre unicamente badare è la sussistenza della necessità per il creditore di ricorrere al giudice per l’affermazione del proprio diritto. Se quel diritto non poteva essere realizzato se non per il tramite della sentenza, le spese potranno al massimo essere compensate, ma non potranno essere addossate all’attore, in quanto – e questo è il punto di caduta del ragionamento – se così non fosse, l’interpretazione qui contestata dell’art. 92 c.p.c., diverrebbe una coazione indiretta ad astenersi dall’esercitare il proprio diritto, in tutti i casi in cui il costo della lite dovesse superare il valore di essa, con conseguente dubbia compatibilità della norma con l’art. 24 Cost..

Ed infatti la condanna alle spese per quanto detto costituisce un complemento essenziale della garanzia costituzionale del diritto di azione. Diritto che resterebbe vuota formula, se l’attore vittorioso fosse esposto al rischio non solo di farsi carico dei costi del processo, ma addirittura di essere condannato a rifondere le spese della controparte: un esito, prima che da sempre aborrito dai giuristi, deriso sinanche dal Poeta, allorché chiosò che in tali casi discedat tristior, ille qui vicit.

10. Un’ultima considerazione ritiene doveroso il Collegio sottoporre al vaglio delle Sezioni Unite.

La dottrina pressoché unanimemente, già a partire dalla fine del XIX sec., ha costantemente segnalato taluni “abusi” della giurisprudenza nell’interpretazione delle norme sulla regolazione delle spese. Vuoi in eccesso (ad esempio, liquidando spese in misura elevata come strumento “punitivo” extra ordinem per la parte che ha sostenuto ragioni manifestamente infondate); vuoi in difetto (ad esempio, ricorrendo all’istituto della compensazione anche in assenza di gravi motivi, vuoi per maltalento, vuoi per calcolo inteso a dissuadere i litiganti dal proseguire la lite).

Queste tendenze giurisprudenziali, quale che fosse la loro condivisibilità, hanno avuto tutte per effetto l’allargamento della discrezionalità del giudice nella regolazione delle spese di lite.

Anche l’interpretazione dell’art. 92 c.p.c., qui contestata, secondo cui sarebbe possibile condannare la parte parzialmente vittoriosa alla rifusione delle spese in favore della controparte, è una interpretazione che allarga l’area della discrezionalità del giudicante, attribuendogli poteri valutativi insindacabili in sede di legittimità e di sconfinata latitudine: quale sia la soccombenza prevalente, di quanto la soccombenza debba dirsi “prevalente” per poter condannare la parte vittoriosa alle spese; quanti siano i “maggiori oneri” che la parte attrice, con la sua pretesa esagerata, ha costretto il convenuto a sostenere; quale rapporto causale esista tra l’iniziativa attorea ed i suddetti “maggiori oneri”.

Ma in subiecta materia interpretazioni intese ad allargare l’area della discrezionalità del giudicante non sembrano oggi più sostenibili.

Esse infatti collidono col principio di ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost., nella misura in cui rendono più aleatorio ed imprevedibile l’esito del giudizio, e di conseguenza fomentano l’introduzione del giudizio o la resistenza ad esso.

11. Conclusivamente, ritiene il Collegio che, a norma del capoverso dell’art. 374 c.p.c., ed in relazione alla questione di massima di particolare importanza ed al contrasto sopra descritti, sia necessario rimettere il ricorso al Primo Presidente, affinché valuti l’opportunità di assegnarlo alle Sezioni Unite perché sia data risposta al seguente quesito: se sia corretta e costituzionalmente orientata l’interpretazione dell’art. 92 c.p.c., secondo cui, nel caso di rilevante divario tra petitum e decisum, l’attore parzialmente vittorioso possa essere condannato alla rifusione di una aliquota delle spese di lite in favore della controparte.

P.Q.M.

la Corte dispone la rimessione del ricorso al Primo presidente, affinché valuti l’opportunità di sottoporre la questione da esso posta al vaglio delle Sezioni Unite.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 20 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2021

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