Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28042 del 14/10/2021

Cassazione civile sez. III, 14/10/2021, (ud. 16/04/2021, dep. 14/10/2021), n.28042

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – rel. Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 12424/2019 proposto da:

G.A.N., A.P., domiciliato ex lege in Roma,

presso la cancelleria della Corte di Cassazione rappresentato e

difeso dall’avvocato OLINDO DI FRANCESCO;

– ricorrenti –

contro

C.G., e F.A.M.R., domiciliate ex lege in

Roma, presso la cancelleria della Corte di Cassazione rappresentate

e difese dall’avvocato PIER LUIGI CAPPELLO;

– controricorrenti –

AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE AGRIGENTO ASP, elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA DEI PRATI FISCALI 321, presso lo studio

dell’avvocato DARIO MASINI, rappresentato e difeso dall’avvocato

MARIA ROSA GARISTO;

– controricorrenti –

e contro

(OMISSIS) SPA, IN LIQUIDAZIONE COATTA AMMINISTRATIVA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 2038/2018 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 11/10/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/04/2021 dal Consigliere Dott. ANTONELLA PELLECCHIA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Nel 2010, A.P. e G.A.N., in proprio e in qualità di esercenti la potestà sulla figlia minore A.F., convennero in giudizio l’Azienda Sanitaria Provinciale di Agrigento (Asp), Ca.Gr. e F.A.M.R. al fine di sentirle condannare al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, conseguenti alla lesione subita dalla figlia al momento della nascita, avvenuta nel (OMISSIS) presso l’Azienda (OMISSIS)”.

A fondamento della domanda, gli attori dedussero che la causa della suddetta lesione (paralisi ostetrica al complesso brachiale sinistro) fosse da imputare agli errori commessi nell’assistenza al parto dalle convenute C. e F.A. le quali, – nella qualità rispettivamente di ostetrica e di ginecologa – non avevano saputo compiutamente valutare i rischi del parto legati al peso del feto e alla sua posizione, scegliendo erroneamente di far partorire la donna per via naturale senza valutare l’opportunità di un parto cesareo; inoltre, al verificarsi nella fase espulsiva del parto di una distocia della spalla (complicazione caratterizzata dalla mancata espulsione delle spalle dopo la fuoriuscita della testa) non avevano compiuto manovre idonee ad evitare complicanze, avendo la ginecologa effettuato una spremitura sul fondo dell’utero della partoriente (c.d. manovra di Kristeller), dopo che l’ostetrica aveva esercitato una trazione continua sulla testa fetale, invitando la paziente a spingere con le cosce iperflesse. Lamentarono infine la mancata acquisizione del consenso informato dalla gestante.

Si costituirono in giudizio le convenute, nonché la compagnia (OMISSIS) S.p.A., chiamata in garanzia dalla Asp di Agrigento, contestando l’an e il quantum della domanda di risarcimento.

Istruita la causa mediante C.t.u., con sentenza n. 1071/2014 il Tribunale di Agrigento rigettò la domanda attorea.

Il Giudice di prime cure, richiamando l’esito della relazione tecnica, escluse che fosse ravvisabile qualsivoglia profilo di colpa nella condotta delle convenute, considerato che, nel caso di specie, non vi era alcuna specifica indicazione per procedere al parto cesareo e che la complicanza insorta all’ultimo istante del periodo espulsivo era stata affrontata dal personale medico con le tecniche più idonee. Il Tribunale ritenne infine infondata la deduzione degli attori in ordine alla mancata acquisizione del consenso informato da parte della gestante, non essendovi alcuna indicazione per il parto cesareo e dovendosi escludere la necessità del consenso per il parto naturale, evento fisiologico.

2. La decisione è stata confermata dalla Corte d’appello di Palermo con la sentenza n. 2038/2018, depositata l’11 ottobre 2018.

La Corte territoriale, richiamando le conclusioni del consulente tecnico nominato in primo grado e del collegio peritale nominato nel corso del procedimento penale instaurato a carico della C. e della F.A. per i fatti di causa (conclusosi con l’archiviazione), ha innanzitutto escluso la sussistenza di profili di colpa degli operatori sanitari per non aver proceduto con il parto cesareo.

In particolare, la Corte ha osservato che, in ipotesi, come quella in esame, di macrosomia con peso del feto inferiore a 4,5 Kg non vi sono indicazioni specifiche al parto chirurgico. In ogni caso, nella fattispecie, mancavano gli altri fattori in presenza dei quali nella letteratura scientifica si considera indicato il parto chirurgico (patologia diabetica della madre, precedenti parti di feti macrosomici, conformazione fisica della partoriente).

Peraltro, come riconosciuto dallo stesso consulente degli attori, la distocia della spalla non è un evento prevedibile, nemmeno in ragione della dimensione e del peso del feto.

Quanto alla condotta tenuta dalle convenute nel corso dell’assistenza al parto, i giudici dell’appello hanno rilevato che gli attori non avevano indicato in cosa fosse consistita la violazione delle regole di perizia – se non deducendo l’asserita intensità della trazione esercitata sulla testa della neonata e la mancata esecuzione di episiotomia (ovvero di una incisione del perineo per facilitare il parto) – né quale avrebbe dovuto essere la manovra più indicata.

In ogni caso, la Corte di Palermo osserva che, secondo i consulenti, il personale sanitario aveva prestato un’adeguata assistenza, senza che fosse necessario mettere in atto ulteriori manovre, come evincibile dai tempi rapidi del parto (dimostrati dall’assenza di sofferenza fetale in ragione dell’indice di APGAR della bambina al momento della nascita, che mostrava valori nella norma) nonché dal fatto che la madre non avesse riportato alcun danno se non una sottilissima lacerazione e che la bambina non avesse riportato le più gravi conseguenze spesso collegate alla distocia della spalla.

Con riferimento alle contestazioni circa la manovra eseguita dall’ostetrica, la Corte di merito ha osservato che, in base alla letteratura scientifica, non è possibile stabilire a priori quale debba essere la forza da applicare nella trazione del feto e che comunque, ancorché la forza applicata sia quella richiesta, la trazione è sempre potenzialmente pericolosa e in grado di comportare la lesione del plesso brachiale. Inoltre, la localizzazione della lesione mostrerebbe che questa non è correlabile con certezza alla modalità delle manovre di disimpegno o alla forza applicata alle stesse.

Mancherebbe ad ogni modo la prova certa del nesso di causalità tra la patologia sofferta dalla neonata e un eventuale trauma subito durante la nascita, considerato che, secondo i consulenti, le lesioni considerate caratteristiche della distocia della spalla possono verificarsi anche in assenza della stessa, e che vi è una consistente bibliografia relativa alla possibilità di lesioni del plesso brachiale di origine endouterina.

I giudici di secondo grado hanno poi escluso una responsabilità dei medici per violazione dell’obbligo di redigere compiutamente la cartella clinica, non ritenendo sussistente alcun nesso di causa tra tale condotta e il danno lamentato dagli attori.

Infine, la Corte d’appello, conformemente al giudice di primo grado, ha escluso che nel caso di specie i sanitari dovessero acquisire il consenso informato della G.A., posto che l’unica attività prestata dal personale ospedaliero era stata quella dell’assistenza al parto naturale, senza alcuna manovra invasiva, e che la gestante non avrebbe comunque potuto recedere dalla prospettiva di affrontare il parto o decidere di rifiutare l’assistenza dei sanitari. Di conseguenza, non vi sarebbe stata alcuna violazione del diritto di autodeterminazione della ges tante.

3. Avverso tale sentenza propongono ricorso per cassazione, sulla base di tre motivi, i signori A.P. e G.A.N., in proprio e in rappresentanza della figlia F..

Resistono, con separati controricorsi, l’Azienda Sanitaria Provinciale di Agrigento, nonché C.G. e F.A.M.R.. L’intimata (OMISSIS) S.p.a. in liquidazione coatta amministrativa non ha svolto difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

4.1. Con il primo motivo i ricorrenti lamentano “nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4”, “violazione e falsa applicazione di legge degli artt. 1176, 1218, 1223, 1228, 1453, 2236, 2697 c.c.; art. 40 c.p.; artt. 61,62,112,115,116 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3”, nonché “vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5”.

La Corte d’appello avrebbe erroneamente posto a carico degli attori la prova dell’inadeguatezza della prestazione, così omettendo di applicare il principio secondo cui, in tema di inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria, il paziente deve esclusivamente provare l’esistenza del contratto e allegare l’inadempimento, restando a carico di quest’ultimo l’onere della prova dell’esatto adempimento.

Nel caso di specie, non sarebbe provata l’esecuzione da parte dei sanitari delle manovre più idonee per superare la distocia di spalle.

Al contrario, risulterebbe provato che il personale ospedaliero non aveva acquisito tutti i dati disponibili che avrebbero dovuto indurre a preferire il parto cesareo a quello vaginale (tra cui le condizioni anatomiche del bacino della gestante e la macrosomia del feto) e che dopo l’emergenza della distocia di spalla era stata praticata la manovra c.d. di Kristeller, controindicata per la sua potenziale pericolosità.

I giudici di merito non avrebbero preso nella dovuta considerazione il parere del consulente di parte, il quale aveva sottolineato: l’importanza della valutazione del peso fetale risultante dall’ecografia; l’opportunità del ricorso al taglio cesareo o comunque l’esigenza di assistere il parto naturale con l’adozione delle più severe misure di prudenza; l’avvenuto esercizio, da parte delle convenute, di un’intensa trazione sulla testa del feto nonostante ciò fosse contrario alle regole della perizia e della prudenza.

Al riguardo, la Corte d’appello si sarebbe limitata ad un’apodittica adesione alla ctu, senza dare risposte alle censure mosse dal consulente di parte.

Ne’ avrebbe considerato che i periti del Tribunale e lo stesso ctu avevano censurato l’incompleta compilazione della cartella clinica, che non aveva permesso di sapere come e in quanto tempo si fosse svolta l’espulsione delle spalle.

La sentenza infine sarebbe viziata da apparente motivazione nella parte in cui afferma non esservi prova del nesso di causa tra la patologia sofferta dalla neonata e un eventuale trauma subito durante la nascita, essendo pacifico tra le parti che la lesione del plesso brachiale patita da A.F. si verificò intra partum.

4.2. Con il secondo motivo, i ricorrenti lamentano “violazione e falsa applicazione degli artt. 1218,1176,2236,2043 e 2697 c.c.; artt. 112,115,116 c.p.c., Motivazione apparente ed incoerente, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4”.

Anche con tale motivo i ricorrenti lamentano che i giudici del merito avrebbero invertito l’onere della prova e avrebbero violato le norme sull’accertamento della colpa dei sanitari.

Inoltre, il Tribunale e la Corte d’appello avrebbero omesso di valutare l’incompletezza della cartella clinica e le relative conseguenze in punto di prova presuntiva della colpa del personale ospedaliero e della sussistenza del nesso causale a sfavore dello stesso.

In caso di distocia di spalla, secondo le linee guida, i sanitari avrebbero dovuto compilare meticolosamente la cartella clinica, dando completa ed accurata documentazione del travaglio ed indicando l’orario della fuoriuscita della testa del feto, la direzione della rotazione della testa, i tempi e la sequenzialità delle manovre effettuate, l’orario di fuoriuscita del corpo, le condizioni fetali, l’orario d’arrivo delle singole figure dello staff e chi materialmente avesse eseguito le manovre di assistenza al parto.

La mancanza di tali adempimenti costituirebbe una condotta che si discosta dalle buone pratiche mediche e comunque non potrebbe avere quale conseguenza l’esclusione la sussistenza del nesso di causalità, in presenza di una condotta dei sanitari pacificamente idonea a causare il danno.

4.3. Con il terzo motivo, concernente il preteso diritto al risarcimento dei danni derivanti dalla violazione del consenso informato, i ricorrenti lamentano, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, la “violazione e falsa applicazione degli artt. 112,115,116 e 132 c.p.c.”, la “violazione e falsa applicazione degli artt. 1218,1176,2236, e 2697 c.c., degli artt. 322 e 33 Cost., nonché della L. 23 dicembre 1978, n. 833, art. 33” e la “motivazione apparente ed incoerente”.

La Corte territoriale avrebbe errato nel negare l’obbligo dei sanitari di richiedere alla gestante il consenso informato. Il paziente dovrebbe essere sempre messo concretamente in condizione di valutare ogni rischio ed ogni alternativa. Tale diritto non verrebbe meno nel caso di eventi della vita come gravidanza e parto. La paziente avrebbe dovuto essere informata sui rischi e sulle complicanze che potevano verificarsi nel parto naturale e sul fatto che in presenza di tali complicanze poteva verificarsi la possibilità di ricorrere ad interventi e tecniche che potevano presentare a loro volta rischi e complicanze.

Nel caso di specie, la ginecologa e l’ostetrica avrebbero prima deciso di far partorire la G.A. per via naturale e poi avrebbero fatto ricorso alla manovra di Kristeller senza informare la paziente circa la probabilità di ricorrere a tale tecnica e circa la pericolosità della stessa per la partoriente e per il feto.

5.1. I primi due motivi, da trattare congiuntamente in ragione della loro concessione, sono inammissibili e comunque infondati.

Con tali motivi, i ricorrenti sollevano un coacervo di censure ricondotte sia alla violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sia a vizi di motivazione, senza il rispetto del canone della specificità del motivo e non scindendo le ragioni poste a sostegno dell’uno o dell’altro vizio.

Al riguardo, si sottolinea che le Sezioni Unite di questa Corte, dinanzi ad un motivo di ricorso che conteneva censure e riconducibili ad una pluralità di vizi tra quelli indicati nell’art. 360 c.p.c., hanno ribadito la critica di tale tecnica di redazione del ricorso per cassazione, evidenziando “la impossibilità di convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, di censure caratterizzate da irrimediabile eterogeneità” (Cass., SS.UU., nn. 26242/2014; 17931/2013).

Inoltre, con riferimento all’asserita violazione di legge, parte ricorrente neppure ha indicato sotto quale profilo sarebbero state incise dalla sentenza impugnata le numerose norme indicate nell’intestazione, in spregio alla prescrizione di specificità dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, che esige che il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, debba essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle disposizioni asseritamente violate, ma anche con specifiche argomentazioni intese a dimostrare in quale modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi in contrasto con le disposizioni regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (cfr., Cass., Sez. VI, ord. nn. 187/2014; 635/2015; Cass. nn. 19959/2014; 18421/2009).

Peraltro, le doglianze contenute nel motivo si risolvono in una inammissibile richiesta di rivalutazione delle risultanze istruttorie così come valutate dai giudici di merito.

La Corte d’appello, sulla scorta delle risultanze della ctu e della perizia redatta nell’ambito del procedimento penale, ha ritenuto provato il corretto adempimento della prestazione da parte dei sanitari, evidenziando che nel caso concreto non vi era alcun indice (ivi compreso il peso fetale) che facesse deporre per il possibile verificarsi di una distocia di spalla – peraltro evento non prevedibile né prevenibile – o che comunque portasse a ritenere indicato il parto cesareo in luogo di quello naturale. Inoltre, ha escluso che la condotta di assistenza al parto prestata dalle convenute fosse stata inadeguata sulla base di quanto rilevato dai consulenti, in particolare circa la rapidità dell’espulsione del feto e le condizioni della partoriente e della neonata a seguito del parto.

Contrariamente a quanto sostengono i ricorrenti, il giudice di secondo grado ha tenuto debitamente conto delle critiche espresse dal consulente di parte alle conclusioni del ctu, ma le ha disattese con adeguata motivazione, contestandole specificamente ed evidenziando che le stesse si fondavano su dichiarazioni rese dalla ricorrente circa la percezione che la stessa aveva avuto della durata del parto, nonché su deduzioni ex post basate sul riscontro della lesione.

A fronte della sussistenza di elementi positivi a sostegno della correttezza dell’operato dei sanitari, la Corte ha correttamente escluso la rilevanza delle omissioni nella tenuta della cartella clinica.

E comunque le relative censure sarebbero infondate. Occorre infatti dare continuità al principio affermato (tra altre) da Cass. n. 27561/2017, secondo cui “in tema di responsabilità professionale sanitaria, l’eventuale incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l’esistenza di un valido nesso causale tra l’operato del medico e il danno patito dal paziente soltanto quando proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l’accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno”.

Inoltre il caso di specie non è sovrapponibile a quello sottoposto all’esame di questa Corte con la sentenza 26428/2020, che si è occupata di fattispecie analoga a quella del presente giudizio, deducendo la prova del nesso causale proprio dalla incertezza della cartella clinica. In quel caso, in cui è stato attribuita rilevanza alla carenza della cartella clinica in funzione dell’accertamento del nesso causale, era stata rilevata la mancata descrizione, non delle manovre, ma degli ematomi e delle altre condizioni fattuali che potevano incidere sulla individuazione della tecnica espulsiva utilizzata. Nel caso in esame la ricostruzione degli ematomi e comunque delle condizioni della bambina erano chiare al punto tale che la ricostruzione dei fatti e la esclusione della sussistenza del nesso causale è avvenuta a cura dei c.t.u. senza incertezze, con conseguente irrilevanza, nel caso in esame, dell’incompletezza della cartella clinica, alla luce del principio, cui il collegio intende dare continuità, secondo cui la carenza della cartella clinica non rileva di per, sé ma rileva solo quando si possa affermare che siano state le lacune ivi riscontrate ad aver impedito una ricostruzione soddisfacente ai fini del nesso causale.

In conclusione, l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove malattie possono non dipendere dalla violazione delle leges artis ed avere una diversa eziologia. E’ onere quindi del creditore, nel caso di specie il paziente danneggiato, provare, anche attraverso presunzioni, la sussistenza del nesso causale tra inadempimento (condotta del sanitario in violazione delle regole di diligenza) ed evento dannoso (aggravamento della situazione patologica o insorgenza di nuova malattia, cioè la lesione della salute). Una volta che il creditore (paziente) abbia soddisfatto detti oneri, è successivo onere del debitore (sanitario e struttura) provare o di avere esattamente adempiuto, ovvero che l’inadempimento sia dipeso da causa a lui non imputabile.

5.2. Il terzo motivo è inammissibile per le medesime ragioni indicate in relazione ai precedenti motivi.

In ogni caso, lo stesso motivo appare infondato.

Al riguardo, si osserva che, in materia di responsabilità sanitaria, l’inadempimento dell’obbligo di acquisire il consenso informato del paziente assume diversa rilevanza causale a seconda che sia dedotta la violazione del diritto all’autodeterminazione o la lesione del diritto alla salute posto che, se nel primo caso l’omessa o insufficiente informazione preventiva evidenzia ex se una relazione causale diretta con la compromissione dell’interesse all’autonoma valutazione dei rischi e dei benefici del trattamento sanitario, nel secondo l’incidenza eziologica del deficit informativo sul risultato pregiudizievole dell’atto terapeutico correttamente eseguito dipende dall’opzione che il paziente avrebbe esercitato se fosse stato adeguatamente informato ed configurabile soltanto in caso di presunto dissenso, con la conseguenza che l’allegazione dei fatti dimostrativi di tale scelta costituisce parte integrante dell’onere della prova, che grava sul danneggiato, del nesso eziologico tra inadempimento ed evento dannoso. Ciò peraltro non comporta che, nel caso in cui venga allegata la violazione del diritto alla autodeterminazione, l’onere probatorio del danneggiato possa ritenersi esaurito, in quanto, non essendo dato confondere la lesione del diritto con le conseguenze pregiudizievoli che in concreto da esso derivano, è indispensabile allegare specificamente quali altri pregiudizi, diversi dal danno alla salute eventualmente derivato, il danneggiato abbia subito (Cass. civ., Sez. III, Ord., 04/11/2020, n. 24471), stante l’impredicabilità, nell’attuale sistemza della responsabilità civile, di danni cd. in re ipsa (Cass., SU 27642/2008).

Ebbene, nel caso di specie, i ricorrenti non hanno provato che, ove la partoriente fosse stata preventivamente informata della possibile verificazione di un evento di distocia della spalla (peraltro non prevedibile nel caso concreto) e della conseguente necessità di attuare le manovre previste per affrontare tale difficoltà, essi avrebbero potuto esercitare un’opzione alternativa al parto naturale. Ne’, ove si consideri la mancata acquisizione del consenso informato quale violazione del diritto all’autodeterminazione della paziente, risultano allegati i danni che sarebbero conseguiti a tale lesione.

6. In conclusione, il ricorso deve essere respinto. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

7. Infine, poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è dichiarato inammissibile, sussistono i presupposti processuali (a tanto limitandosi la declaratoria di questa Corte: Cass. Sez. U. 20/02/2020, n. 4315) per dare atto – ai sensi della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater (e mancando la possibilità di valutazioni discrezionali: tra le prime: Cass. 14/03/2014, n. 5955; tra le innumerevoli altre successive: Cass. Sez. U. 27/11/2015, n. 24245) – della sussistenza dell’obbligo di versamento, in capo a parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per la stessa impugnazione.

PQM

la Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità in favore della controricorrente che liquida in complessivi Euro 5.200,00 di cui Euro 200 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso principale, a norma del citato art. 13, comma 1-bis.

In caso di diffusione del presente provvedimento si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 16 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2021

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