Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28021 del 31/10/2019

Cassazione civile sez. III, 31/10/2019, (ud. 12/09/2019, dep. 31/10/2019), n.28021

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. D’ARRIGO Cosimo – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giacomo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11013-2017 proposto da:

AZIENDA USL TOSCANA CENTRO, in persona del Direttore Generale Dott.

G.E., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZALE CLODIO 61,

presso lo studio dell’avvocato ANNA MATTIOLI, rappresentata e difesa

dall’avvocato ANDREA GHELLI;

– ricorrente –

contro

BANCA FARMAFACTORING SPA, in persona del Dirigente Dott.

S.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI GRACCHI 128, presso

lo studio dell’avvocato PAOLO PONTECORVI, che la rappresenta e

difende unitamente agli avvocati ALBERTO SCIUME’, MARISA OLGA

MERONI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4067/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 02/11/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/09/2019 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PATRONE Ignazio, che ha concluso per il rigetto;

udito l’Avvocato ANNA MATTIOLI per delega orale.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con decreto ingiuntivo n. 6162/2012 il Tribunale di Milano ordinava ad Azienda Usl n. 3 Pistoia di pagare a Farmafactoring S.p.A. la somma di Euro 860.000,70, oltre interessi, in relazione a crediti ad essa ceduti. L’Azienda si opponeva; l’opposta – poi divenuta Banca Farmafactoring S.p.A. – si costituiva insistendo in parte nelle sue pretese. Il Tribunale, con sentenza del 5 dicembre 2013, condannava l’opponente a pagare all’opposta la somma di Euro 316.543,93, oltre a interessi e spese.

Avendo proposto appello l’Azienda, ed essendosi controparte costituita resistendo, la Corte d’appello di Milano, con sentenza del 2 novembre 2016, accoglieva parzialmente il gravame, condannando l’appellante a pagare a controparte la somma di Euro 277.774,96, oltre interessi, nonchè a rifonderle i cinque sesti delle spese di lite, compensato l’ultimo sesto.

2. Ha presentato ricorso l’Azienda, divenuta Azienda Usl Toscana Centro. Banca Farmafactoring S.p.A. si è difesa con controricorso. Depositate memorie da ambo le parti, la causa è stata rimessa in pubblica udienza ex art. 380 bis c.p.c. con ordinanza del 6 dicembre 2018; la ricorrente ha depositato ulteriore memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

3. Il ricorso si articola in dieci motivi.

3.1 Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1218,1260,2697 c.c., artt. 112,115,132,167,183 e 633 c.p.c. nonchè nullità della sentenza e/o del procedimento.

In ordine al secondo motivo d’appello, commettendo lo stesso errore in cui sarebbe caduto il Tribunale, la corte territoriale avrebbe ritenuto che “l’Azienda avesse formulato tardivamente l’eccezione relativa alla mancata produzione della prova delle cessioni del credito”, e ciò per erronea applicazione delle norme invocate in rubrica. Si adduce quindi che il cessionario non è legittimato ad agire se non prova la cessione del credito, la cessione facendo parte della titolarità del diritto controverso. La titolarità della posizione soggettiva è elemento costitutivo della domanda, per cui l’attore deve allegarla e provarla, e il convenuto può limitarsi a negare, proponendo così mere difese che possono essere presentate in ogni fase del giudizio.

Nel caso in esame, nell’atto di opposizione si sarebbe rilevato che nessun atto di cessione era stato depositato in sede monitoria; allegati alla comparsa di risposta sarebbero stati dunque depositati atti di cessione di credito, e nella memoria di cui all’art. 183 c.p.c., comma 6, n. 1 l’opponente avrebbe dato atto del deposito, insistendo peraltro per il difetto della prova della cessione per alcuni determinati crediti. La Corte avrebbe errato per avere presupposto che la contestazione sulla legittimazione (rectius: sulla titolarità del diritto controverso) vada proposta “nella prima difesa utile”, in contrasto con S.U. 16 febbraio 2016 n. 2951; inoltre non avrebbe tenuto conto che nell’atto di citazione in opposizione l’attuale ricorrente avrebbe “espressamente posto in discussione la questione della titolarità dei crediti”.

3.2 Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, art. 70, comma 3, e L. 20 marzo 1865 n. 2248, all. E, art. 9.

L’attuale ricorrente col terzo motivo d’appello avrebbe impugnato la sentenza di primo grado quanto al rigetto dell’eccezione di invalidità e di inefficacia della cessione di credito per violazione del R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, art. 70 in connessione con la L. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, art. 9. Si rimanda alle pagine 13-16 dell’atto d’appello, allegato n. 5 del ricorso. Al riguardo la corte territoriale avrebbe ritenuto che il R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, artt. 69 e 70 siano di stretta interpretazione e si applichino soltanto alla Amministrazione statale. La corte avrebbe operato un riferimento apparente alla giurisprudenza di legittimità, giurisprudenza che peraltro non sarebbe conforme alla sua decisione: ha citato infatti la corte “una pronuncia relativa soltanto al R.D. 18 novembre 1923, n. 2440, art. 69, comma 3, che richiede la forma scritta per la cessione dei crediti nei confronti degli enti pubblici”, ma pure “ha completamente omesso” di confrontarsi con la specifica giurisprudenza di legittimità riguardante le norme richiamate in rubrica. E viene quindi invocata giurisprudenza di questa Suprema Corte che avrebbe affermato l’applicabilità anche ad enti pubblici diversi dallo Stato del principio, espresso appunto dalle norme di cui in rubrica, che la cessione del credito presuppone adesione dell’ente pubblico ceduto. Inoltre (tranne un isolato arresto citato dal giudice d’appello) questa Suprema Corte avrebbe sempre ritenuto applicabile la L. n. 2248 del 1865 anche alle Aziende sanitarie. Tali norme avrebbero dovuto poi applicarsi, “trattandosi di rapporti non esauriti ma in corso di esecuzione al momento dell’ingiunzione”, come avrebbe riconosciuto la stessa controparte.

3.3 Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2934,2936,2944 e 2945 c.c. nonchè nullità della sentenza per mancanza di motivazione.

Mediante il quarto motivo d’appello si sarebbe impugnata la sentenza del Tribunale “per non aver rilevato, nonostante specifica eccezione, l’intervenuta prescrizione di alcuni crediti per i quali non era stato compiuto alcun atto interruttivo della prescrizione o era stato compiuto tardivamente”: si rimanda alle pagine 16-19 dell’atto d’appello. Al riguardo la corte territoriale avrebbe affermato che l’eccezione della prescrizione si doveva disattendere perchè “in contrasto con il comportamento tenuto dall’appellante che, pagando una parte dei crediti, ha implicitamente rinunciato ad avvalersi dell’eccezione”.

Il motivo indica le fatture per cui si sarebbe eccepita la prescrizione, e qualifica “pacifico” (richiamando l’all. A alla comparsa conclusionale d’appello di controparte, a sua volta allegato al ricorso) che per le prime fatture indicate “erano stati effettuati pagamenti parziali”, e che nulla sarebbe stato pagato per le altre. Visto “tale inequivoco quadro fattuale”, avrebbe errato la Corte d’appello nel ritenere che fosse stata rinunciata l’eccezione di prescrizione, poichè il pagamento parziale non rappresenta per legge rinuncia a prescrizione, neppure interrompendola perchè non comporta il riconoscimento dell’entità del debito residuo. La corte avrebbe quindi errato nel ritenere il pagamento parziale incompatibile con la eccezione di prescrizione, e sul punto la sua pronuncia sarebbe totalmente priva di motivazione. Inoltre il giudice d’appello, quanto a determinati crediti (sempre tra quelli elencati laddove sono state indicate le fatture per cui sarebbe stata eccepita la prescrizione) avrebbe ritenuto che il pagamento parziale, incompatibile con la rinuncia alla prescrizione, “fosse individuabile nell’avvenuto pagamento di un credito diverso, in quanto portato da distinte fatture”.

4.4 Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1218,1453,1460 e 2697 c.c.

Mediante il quinto motivo d’appello si sarebbe lamentata la violazione delle regole attinenti all’onere della prova da parte del Tribunale. Infatti “già in I grado” l’attuale ricorrente “aveva svolto puntuali contestazioni in relazione a ciascuna delle numerose fatture poste a base delle pretese” di controparte, adducendo che “in taluni casi erano stati applicati prezzi difformi rispetto a quelli pattuiti ovvero l’applicazione di voci non dovute in base alle pattuizioni contrattuali”, mentre, “in altri casi, era mancata la consegna della merce fatturata” e, “in altri casi” ancora, si era consegnata “merce non ordinata”. “Tali specifiche deduzioni relative alle singole fatture “sarebbero state “espressamente riproposte in appello” – si rinvia alle pagine 22-31 dell’atto di citazione in appello “per le articolate contestazioni dei singoli crediti” -, ma la corte territoriale, rigettando il motivo d’appello, avrebbe affermato che la opponente aveva soltanto contestato in modo generico la difformità dei prezzi pattuiti e la mancata esecuzione di prestazioni, senza “offrire alcuna specifica dei fatti estintivi o modificativi” del credito. In tal modo avrebbe violato le regole sulla ripartizione dell’onere della prova per cui avrebbe dovuto essere controparte a dimostrare (e ciò sarebbe stato reso necessario dalle contestazioni dell’attuale ricorrente) le “circostanze rilevanti ai fini della sua pretesa”. Controparte avrebbe quindi dovuto provare la fonte negoziale; e le contestazioni in ordine alla consegna delle merci avrebbero integrato eccezione di inadempimento ai sensi dell’art. 1460 c.c., onde controparte avrebbe dovuto provare l’adempimento.

3.5 Il quinto motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 132 c.p.c. nonchè nullità della sentenza per omessa pronuncia.

Mediante il settimo motivo d’appello si sarebbe riproposta eccezione fondata sulla parziale rinuncia al credito effettuata da controparte; si riporta il contenuto di tale censura.

3.6 Il sesto motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 132 c.p.c., omesso esame di fatti discussi e decisivi nonchè nullità della sentenza per omessa pronuncia e mancanza di motivazione.

Mediante l’ottavo motivo d’appello si sarebbe riproposta l’eccezione di pagamento parziale del credito che sarebbe stato oggetto del decreto ingiuntivo; si riporta il contenuto di tale censura da pagina 21 a pagina 24 del ricorso, riportando altresì, poi, un passo (non completo, peraltro) del giudice d’appello per dedurne che sussisterebbe soltanto pronuncia parziale, riguardante unicamente il terzo dei tre profili di censura addotti come sintesi della trascrizione del motivo d’appello a pagina 24 del ricorso.

3.7 Il settimo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 132 c.p.c. nonchè nullità della sentenza per omessa pronuncia.

Mediante il nono motivo d’appello si sarebbe riproposta l’eccezione di parziale estinzione del credito di controparte; se ne riporta il contenuto nelle pagine 26-27 del ricorso e si asserisce che la corte territoriale ha omesso completamente di pronunciarsi al riguardo. Si aggiungono poi ulteriori argomenti che dovrebbero dimostrare “il carattere decisivo della violazione denunciata” (a pagina 28 del ricorso).

3.8 L’ottavo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 132 c.p.c. nonchè nullità della sentenza per omessa pronuncia.

Mediante il decimo motivo d’appello si sarebbe riproposta l’eccezione riguardante la mancata produzione di alcune fatture, ciò riportando nelle pagine 28-30 del ricorso; e su questo il giudice di secondo grado avrebbe omesso totalmente di pronunciarsi.

3.9 Il nono motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., art. 1282 c.c. e ss. e D.Lgs. n. 9 ottobre 2002, n. 231, art. 3 nonchè nullità della sentenza per difetto di motivazione.

Mediante l’undicesimo motivo d’appello si sarebbe censurato il fatto che non sarebbe stata considerata “come somma capitale ai fini del calcolo degli interessi una somma diversa e superiore a quella oggetto di condanna” – si rimanda alle pagine 40-41 dell’atto di citazione in appello -. La corte territoriale avrebbe accolto “in misura minima”, “decurtando dalla base di calcolo degli interessi” soltanto Euro 8840,34, “ma continuando incomprensibilmente a determinare gli interessi sull’importo complessivo di Euro 851.161,36 anzichè su quello di Euro 277.774,96 oggetto di condanna”: pertanto avrebbe violato l’art. 1282 c.c. e ss. e D.Lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, art. 3 in forza del principio per cui alla condanna al pagamento di un importo inferiore a quello ingiunto consegue che gli interessi debbano essere calcolati sulla differenza.

3.10 Il decimo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., sostenendo che dalla cassazione della sentenza impugnata deriva la condanna di controparte a rifondere all’attuale ricorrente le spese di tutti e tre i gradi.

4.1 Superata ogni questione di improcedibilità per il sopravvenuto intervento nomofilattico di cui alla sentenza 25 marzo 2019 n. 8312, il ricorso cade, peraltro, in evidente inammissibilità.

Il ricorso, infatti, presenta una premessa, la quale, ovviamente, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, dovrebbe contenere “l’esposizione sommaria dei fatti della causa”, nel senso di consentire al ricorso di godere di una adeguata autosufficienza nella ricostruzione di quanto processualmente è accaduto prima del ricorso stesso; requisito di autosufficienza cui si affianca quello di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, che esige una autosufficienza logicamente posteriore, in quanto attinente al contenuto delle doglianze proposte con il ricorso.

Nel caso in esame, la premessa, dopo una scheletrica rappresentazione dell’origine della causa, nulla indica in ordine al contenuto della sentenza di primo grado e quindi delle ragioni adottate dal Tribunale per condannare l’opponente a pagare una somma – e una somma di importo assai differente rispetto a quella del decreto ingiuntivo – a controparte; nulla indica, parimenti, in ordine al contenuto dell’atto d’appello e tantomeno in ordine agli argomenti di difesa dell’appellata. E se è vero che la ricostruzione della vicenda processuale può essere effettuata anche senza avvalersi di una formale struttura costituente premessa (v. p.es. Cass. sez. 1, 20 agosto 2004 n. 16360), ciò tuttavia non significa che il giudice di legittimità sia obbligato a radunare i vari dati reperibili in tutto il corpo del ricorso, collazionando e posizionando le tessere di un mosaico così da assumere egli stesso l’onere ricostruttivo che il legislatore ha invece assegnato, come requisito di contenuto-forma, al ricorrente (cfr., da ultimo, Cass. sez.5, 13 novembre 2018 n. 29093).

Al contrario, “per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3), il ricorso per cassazione deve contenere la chiara esposizione dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le posizioni processuali delle parti con l’indicazione degli atti con cui sono stati formulati “causa petendi” e “petitum”, nonchè degli argomenti dei giudici dei singoli gradi, non potendo tutto questo ricavarsi da una faticosa o complessa opera di distillazione del successivo coacervo espositivo dei singoli motivi, perchè tanto equivarrebbe a devolvere alla S.C. un’attività di estrapolazione della materia del contendere, che è riservata invece al ricorrente.” (così ben si esprime Cass. sez. 6-3, ord. 28 maggio 2018 n. 13312); infatti è ormai del tutto consolidata la giurisprudenza per cui, appunto, “per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3 il ricorso per cassazione deve contenere l’esposizione chiara ed esauriente, sia pure non analitica o particolareggiata, dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, lo svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni, le argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si richiede alla Corte di cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione giuridica diversa da quella asseritamene erronea, compiuta dal giudice di merito. Il principio di autosufficienza del ricorso impone che esso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa.” (così già Cass. sez. 2, 4 aprile 2006 n. 7825; sulla stessa linea, più recentemente, v. p. es. Cass. sez. 6-3, ord. 3 febbraio 2015 n. 1926, Cass. sez. 1, 31 luglio 2017 n. 19018 e Cass. sez. 5, ord. 4 ottobre 2018 n. 24340).

4.2 Nel ricorso in esame, allora, in quella parte che viene offerta formalmente come premessa, anche a prescindere dalle posizioni assunte dalle parti nel primo grado, si deve constatare l’assenza totale del contenuto della sentenza del Tribunale e del contenuto dell’atto d’appello nonchè della difesa della parte appellata. Nella successiva esposizione dei primi quattro motivi, poi, vengono riproposti quelli che vengono definiti motivi d’appello – precisamente, il secondo motivo d’appello viene invocato nel primo motivo di ricorso, il terzo motivo d’appello nel secondo motivo di ricorso, il quarto motivo d’appello nel terzo motivo di ricorso e il quinto motivo d’appello nel quarto motivo di ricorso -, senza peraltro riportarne una adeguata illustrazione, neppure sintetica, del contenuto, ma al contrario il più delle volte invitando, in parole semplici, il giudice di legittimità ad andare a leggersi l’atto d’appello laddove sarebbe presente tale doglianza (così nel secondo motivo di ricorso si “rimanda” a leggere le pagine 1316 dell’appello, nel terzo motivo a leggere susseguentemente le pagine 16-19 dell’atto d’appello e nel quarto motivo a leggere le pagine 22-31 dell’atto d’appello).

Tutto questo, ictu oculi, conduce a ritenere sussistenti nel ricorso l’assenza dei requisiti di autosufficienza imposti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 6″ “a pena di inammissibilità”. Non è certo sufficiente a “recuperare” l’ammissibilità del ricorso il fatto che nei successivi motivi di ricorso dal quinto al nono (il decimo non è propriamente un motivo, bensì la indicazione della conseguenza sulle spese di lite nell’eventuale caso dell’accoglimento del ricorso) i motivi d’appello richiamati vengono trascritti, occorrendo naturalmente (e a prescindere, ancora, dalla carenza di un’adeguata informazione in ordine al contenuto della sentenza di primo grado) che il ricorso sia conformato in modo corretto e adeguato nella sua inscindibile integrità.

5. In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna della ricorrente a rifondere a controparte le spese processuali, liquidate come da dispositivo.

Sussistono D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, ex art. 13, comma 1 quater i presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art., comma 1 bis.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente a rifondere a controparte le spese processuali, liquidate in un totale di Euro 10.200, oltre a Euro 200 per esborsi e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 12 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2019

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