Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28011 del 31/10/2019

Cassazione civile sez. III, 31/10/2019, (ud. 27/06/2019, dep. 31/10/2019), n.28011

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14581-2018 proposto da:

C.M.C., in proprio e quale titolare della Ditta

SPORTLAND DI M.C.C., elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA CHIUSI 31, presso lo studio dell’avvocato PIO CORTI, che

la rappresenta e difende unitamente all’avvocato FELICE BRUSATORI;

– ricorrente –

contro

M.A., LA PIEVE SRL in persona del legale

rappresentante Dott. M. R., elettivamente domiciliati in ROMA,

P.LE CLODIO, 14, presso lo studio dell’avvocato ANDREA GRAZIANI,

rappresentati e difesi dall’avvocato ENZA BRICCHETTI;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 4262/2017 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 07/11/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

27/06/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con pronunce conformi, il Tribunale di Varese, con sentenza in data 30.10.2016 n. 1201, e la Corte d’appello di Milano, con sentenza emessa ai sensi dell’art. 437 c.p.c., comma 1 e depositata in data 7.11.2017 n. 4262, hanno accolto la eccezione di clausola per arbitrato irrituale proposta dai convenuti-appellati La Pieve s.r.l. ed M.A. e dichiarato improponibile la domanda di condanna al risarcimento dei danni formulata da C.M.C. quale titolare della ditta individuale Sportland, in quanto fondata sulla contestazione di condotte di inadempimento delle obbligazioni, gravanti sui concedenti La Pieve s.r.l. ed M.A., derivanti dal contratto di affitto di azienda, stipulato tra le parti in data 25.2.2005, avente ad oggetto l’esercizio di un centro sportivo e del parco acquatico, nonchè di connessa attività di ristorazione bar pizzeria.

La Corte territoriale, esaminata la domanda introduttiva del giudizio, rilevava come il C.C. avesse espressamente richiamato a sostegno della richiesta risarcitoria il contratto in questione, allegando presunti inadempimenti delle controparti (mancato ampliamento del parco acquatico, mancata erogazione di acqua, sviamento clientela, omessa restituzione di attrezzature, mancato indennizzo migliorie, danno da lucro cessante per anticipata cessazione della attività), mentre non aveva formulato alcuna ulteriore e distinta domanda concernente la liquidazione della quota ad esso spettante in qualità di socio per il recesso dalla società La Pieve a r.l., sicchè la controversia ricadeva nella clausola compromissoria che, non prevedendo specifiche limitazioni per materia od oggetto, doveva ritenersi estesa a tutte le controversie comunque derivanti dal contratto di affitto di azienda. Dichiarava assorbite le altre questioni concernenti la scelta del rito, trasformato da ordinario a speciale ex art. 426 c.p.c. dal Tribunale.

La sentenza non notificata è stata impugnata da C.M.C., in proprio e nella qualità di titolare della ditta Sportland, con ricorso per cassazione affidato a tre motivi.

Resistono con un unico controricorso La Pieve s.r.l. ed M.A..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente deduce il vizio di violazione degli artt. 808 ter, 808 quater c.p.c. e degli artt. 1362 c.c. e ss. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Con il secondo motivo censura la sentenza di appello per violazione e falsa applicazione dell’art. 808 ter c.p.c., art. 1362 c.c. e ss., nonchè degli artt. 112,164 e 183 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4.

Sostiene il ricorrente che la Corte d’appello aveva erroneamente rilevato il contenuto della domanda introduttiva, che era stata proposta non soltanto nei confronti della parte La Pieve s.r.l., che aveva stipulato il contratto di affitto di azienda nel quale era inserita la clausola compromissoria – interamente ritrascritta alla pag. 10 del ricorso -, ma anche nei confronti del M. e della società per differenti titoli, integranti illeciti di rilievo anche penale, in relazione ai quali il Giudice di appello aveva affermato inesattamente di non potere effettuare accertamenti. In ogni caso la clausola arbitrale non poteva ricomprendere anche quelle domande che trovavano nel contratto solo un mero antecedente storico, ed una diversa interpretazione estensiva, fondata sull’art. 808 quater c.p.c. – norma inerente l’arbitrato “rituale”-, si poneva in violazione della precedente norma di cui all’art. 808 ter c.p.c. che disciplinava espressamente l’arbitrato “irrituale” come scelta eccezionale delle parti di operare in deroga alle norme legali.

I motivi debbono ritenersi fondati con riferimento alla censura di violazione delle norme del codice di procedura civile introdotte con il D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 e della violazione della norma di cui all’art. 112 c.p.c. che impone la corrispondenza tra la pronuncia del Giudice e la domanda formulata dalla parte.

Occorre premettere che non è stata contestata dalle parti, nei gradi di merito, la qualificazione attribuita dal Tribunale alla clausola compromissoria, come clausola devolutiva delle controversie ad un “arbitrato irrituale”, e dunque non è oggetto di esame tale questione, dovendo ritenersi accertato che le parti contraenti abbiano inteso affidare agli arbitri la soluzione di controversie (insorte o che possano insorgere in relazione a determinati rapporti giuridici) soltanto attraverso lo strumento negoziale, mediante una composizione amichevole o un negozio di accertamento riconducibile alla volontà delle parti stesse, le quali si impegnano a considerare la decisione degli arbitri come espressione della loro volontà.

Ne segue che la indagine concernente la portata della clausola compromissoria per arbitrato “irrituale”, non integra una questione di “competenza”, bensì di merito, la cui soluzione richiede pertanto l’interpretazione della clausola secondo gli ordinari canoni ermeneutici dettati per l’interpretazione dei contratti (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 4526 del 08/03/2016).

Vengono a tal fine in rilievo le censure formulate dal ricorrente e fondate su due distinti argomenti:

l’atto di citazione introduttivo del giudizio in primo grado conteneva un cumulo di domande rivolte contro distinti convenuti, solo alcune delle quali “derivanti dal contratto di affitto di azienda” e quindi devolute all’arbitrato irrituale, mentre altre prescindevano dal titolo contrattuale e dunque avrebbero dovuto essere sottratte alla pronuncia di improponibilità la clausola compromissoria, inserita nel contratto, derogava alla giurisdizione dell’AGO con riferimento ad “ogni controversia relativa all’interpretazione e/o esecuzione e/o risoluzione del presente incarico o comunque da esso derivante” (cfr. clausola compromissoria, riportata a pag. 10 ricorso), ed alcune domande, pur trovando il loro antefatto nel contratto di affitto di azienda, erano però fondate su altri titoli di responsabilità extracontrattuale, e non potevano, pertanto, essere incluse nella generica previsione contrattuale, dovendo adottarsi nella incertezza della portata della clausola una interpretazione ristrettiva della volontà pattizia, desumendosi tale regola dalla considerazione dell’arbitrato libero, da parte del Legislatore, come eccezionale deroga all’arbitrato rituale, che non consentiva pertanto l’applicazione analogica dell’art. 808 quater c.p.c..

Orbene occorre preliminarmente rilevare che la clausola compromissoria è inserita nel contratto stipulato dalle parti in data 25.2.2005 e che il D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, ha riformato le norme del libro IV, titolo VIII, capi da I a VI del codice di procedura civile, introducendo la nuova disciplina dell’arbitrato, disponendo all’art. 27 che le norme del capo I (artt. 806-808 quinquies c.p.c.) trovano applicazione “alle convenzioni di arbitrato stipulate dopo la data di entrata in vigore del presente decreto” (comma 3), mentre le altre norme (artt. 809-832 c.p.c.) trovano diretta applicazione “ai procedimenti arbitrali, nei quali la domanda di arbitrato è stata proposta successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto” (comma 4), operando tuttavia tale disciplina transitoria esclusivamente per gli “arbitrati rituali”, giusta la interpretazione della predetta norma transitoria fornita, in materia di regolamento di competenza, da questa Corte, secondo cui deve “ritenersi che il legislatore abbia attuato la delega nel senso di prevedere che la pattuizione dell’arbitrato irrituale come tale comporti l’esclusione dell’applicazione di tutte le norme successive, dettate per l’arbitrato rituale e, quindi, anche dell’art. 819 ter c.p.c.. Con la conseguenza che la decisione dell’a.g.o. affermativa o negativa della esistenza e/o validità di un arbitrato irrituale e che, dunque, nel primo caso non pronuncia sulla controversia dichiarando che deve avere luogo l’arbitrato irrituale e nel secondo dichiari invece che la decisione dell’a.g.o. può invece avere luogo, non è suscettibile di impugnazione con il regolamento di competenza” (cfr. Corte cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 1158 del 17/01/2013; id. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 19060 del 31/07/2017; id. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 21942 del 10/09/2018).

Pertanto, errata deve ritenersi la statuizione della Corte d’appello, che ritiene di applicare direttamente alla convenzione, stipulata anteriormente al 2006, il criterio legale interpretativo dell’oggetto della clausola compromissoria, dettato dall’art. 808 quater c.p.c., secondo cui “nel dubbio” la convenzione deve intendersi estesa “a tutte le controversie che derivano dal contratto o dal rapporto cui la convenzione si riferisce”.

Altrettanto errato deve ritenersi, per lo stesso motivo, l’argomento svolto dal ricorrente, nel primo motivo, secondo cui la interpretazione restrittiva del contenuto della clausola compromissoria dovrebbe desumersi dall’art. 808 ter c.p.c., trattandosi di norma anch’essa inapplicabile alla fattispecie per le medesime ragioni sopra esposte.

Inapplicabile, dunque, alla fattispecie in esame la disciplina normativa riformata dell’arbitrato rituale, osserva il Collegio che, nel regime precedente alla riforma del D.Lgs. n. 40 del 2006, la clausola compromissoria deve, in mancanza di espressa volontà contraria, essere interpretata nel senso che rientrano nella competenza arbitrale tutte le controversie che si riferiscono a pretese aventi la loro “causa petendi” nel contratto medesimo (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 28485 del 22/12/2005) e che la dizione generica di deferimento in arbitri di tutte le controversie in materia di interpretazione o di applicazione del contratto, va intesa in senso estensivo, come riferita non solo alle questioni di validità e di esecuzione del contratto ma anche alla fase patologica del rapporto -inadempimento, risoluzione e risarcimento dei danni-(cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 13531 del 20/06/2011; id. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 15068 del 10/09/2012), fermo restando sempre il diretto collegamento della domanda al rapporto contrattuale, nel senso che rientrano nella competenza arbitrale tutte e solo le controversie aventi “causa petendi” nel contratto medesimo, con esclusione, quindi, delle controversie che in quel contratto hanno unicamente un presupposto storico (cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 1674 del 03/02/2012 – con riferimento all’art. 1669 c.c., ritenuto dalla giurisprudenza un illecito aquiliano autonomo rispetto alla responsabilità ex contractu -; id Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 20673 del 13/10/2016 -con riferimento all’illecito concorrenziale -; id. Sez. 1, Sentenza n. 23675 del 18/10/2013 – che ricomprende invece nella “controversia derivante dal contratto” anche la domanda risarcitoria per lesione della immagine, in quanto la prescrizione di condotta violata era riconducibile ad una specifica obbligazione contrattuale -). In relazione a tali criteri deve dunque essere verificata la legittimità della pronuncia della Corte d’appello, risultando del tutto inconferente, rispetto alla verifica della corretta individuazione, da parte del Giudice di appello, della esatta estensione del contenuto della clausola compromissoria, dovendo ritenersi definitivamente accertata la natura irrituale dell’arbitrato previsto dalla clausola compromissoria, il precedente giurisprudenziale di questa Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 6909 del 07/04/2015, richiamato dal ricorrente, che, nella massima tratta dal CED della Corte di cassazione, risolve la diversa questione della interpretazione della clausola dubbia, non per il suo oggetto, ma in relazione alla volontà delle parti di deferire la controversia ad un arbitrato “rituale” ovvero “irrituale”, avendo statuito tale sentenza che “in tema di interpretazione del patto compromissorio, anche con riferimento alla disciplina applicabile prima della introduzione dell’art. 808 ter c.p.c. ad opera del D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, il dubbio sull’interpretazione dell’effettiva volontà dei contraenti va risolto nel senso della ritualità dell’arbitrato, tenuto conto della natura eccezionale della deroga alla norma per cui il lodo ha efficacia di sentenza giudiziaria”.

Tanto premesso, l’errato riferimento alla disciplina normativa introdotta dal D.Lgs. n. 40 del 2006, non determina per ciò stesso la illegittimità della sentenza impugnata, ove si consideri che la Corte territoriale si è limitata a richiamare l’art. 808 quater c.p.c. “ad abundantiam” (“…Nel contesto così delineato va inoltre evidenziato che….”), soltanto per attribuire anche in prospettiva ulteriore conferma alle conclusioni raggiunte sulla interpretazione della clausola, dovendo quindi essere sottoposta a verifica la tenuta delle altre ragioni poste a sostegno del “decisum”.

Osserva il Collegio, che il Giudice di appello ha ritenuto:

a) che il giudizio avesse ad oggetto esclusivamente controversie attinenti le conseguenze dannose derivate da inadempimenti riconducibili tutti al contratto di affitto di azienda e che le domande non fossero rivolte anche nei confronti di soggetti estranei a tale accordo e diversi dai sottoscrittori della clausola compromissoria;

b) che alcuna domanda fosse stata formulata dal C.C., in qualità di socio di La PIEVE s.r.l., nè per quanto concerneva la liquidazione della quota, nè per quanto concerneva la pretesa di restituzione di somme, avendo chiesto il predetto soltanto la condanna al risarcimento dei danni.

La verifica della correttezza delle statuizioni del Giudice di appello va condotta alla stregua del principio di diritto secondo cui “l’interpretazione e la qualificazione dell’eccezione (come della domanda) rientra tra i poteri del giudice di merito, il quale non è condizionato in tale compito dalla formula adottata dalla parte, dovendo tener conto del contenuto sostanziale dell’eccezione (o della pretesa), così come desumibile dalla situazione dedotta in causa: la suddetta interpretazione non è censurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata, tuttavia le censure concernenti il difetto motivazionale non possono risolversi in una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice, ma devono indicare quale sia il vizio logico del ragionamento decisorio” (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 5945 del 10/05/2000).

La censura concernente la interpretazione della volontà processuale espressa nell’atto di citazione deve, pertanto, evidenziare un vizio consistente nella alterazione del senso letterale o del contenuto sostanziale dell’atto, in relazione alle finalità che la parte intende perseguire (cfr. Corte cass. Sez. L, Sentenza n. 2148 del 05/02/2004), venendo in applicazione quindi, esclusivamente, il criterio ermeneutico volto ad indagare il significato che emerge dal testo dell’atto, secondo il significato fatto palese dalle parole secondo la loro connessione logica, ed evincibile dalla complessiva lettura del contenuto dell’atto, dovendo aversi riguardo anche alla situazione dedotta in giudizio ed allo scopo pratico perseguito dall’istante con il ricorso all’autorità giudiziaria (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 10840 del 10/07/2003; id. Sez. U, Sentenza n. 3041 del 13/02/2007), e restando, invece, esclusi tutti gli altri criteri ermeneutici – soggettivi ed oggettivi – previsti per la interpretazione degli atti negoziali, che implicano la ricerca della “comune” intenzione delle parti (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 4754 del 09/03/2004; id. Sez. 1, Sentenza n. 24847 del 24/11/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 25853 del 09/12/2014).

Il ricorrente ha trascritto nei motivi di ricorso le “conclusioni” rassegnate con l’atto introduttivo del giudizio (ricorso pag. 14-15), che si risolvono nella indicazione di un mero elenco di danni, riportati alle lettere da a) ad i), che tuttavia non consentono di individuare quali siano i rispettivi fatti costitutivi delle elencate conseguenze pregiudizievoli di natura patrimoniale, le quali peraltro- appaiono ex se non incompatibili con la derivazione dalle contestate condotte di inadempimento contrattuale (rimanendo al più da definire, ai sensi dell’art. 1223 c.c., la natura diretta ed immediata ovvero indiretta degli indicati effetti dannosi. Anche la allegata violazione della ditta o del marchio Sportland, non può essere apprezzata – come fatto illecito autonomo o invece come violazione delle obbligazioni scaturenti dal contratto – in difetto di riferimenti cronologici e soprattutto della omessa descrizione delle obbligazioni convenute nel contratto di affitto di azienda, indispensabile a verificare se la condotta contestata integrasse o meno violazione degli accordi contrattuali).

La descrizione dei fatti viene ad essere integrata, dal ricorrente, nel prosieguo della esposizione relativa al secondo motivo di ricorso, con la illustrazione delle altre pretese formulate nell’atto di citazione, essendo dato evincere che il C.C. aveva allegato di essere socio di La PIEVE s.r.l., di aver versato alla società a titolo di finanziamento la somma di Euro 159.000,00 e di avere diritto alla liquidazione del valore della propria quota sociale – pari al 6% – quantificata in Euro 150.000,00 venendo poi, nelle conclusioni (alla lett. “m”), a richiedere espressamente il pagamento di tali somme, inserite anche nella quantificazione finale della pretesa a titolo sia risarcitorio che restitutorio, precisata al punto 22) dell’atto di citazione (cfr. ricorso pag. 25-27), allegazioni e domande queste – ulteriori e distinte da quella di inadempimento del contratto di affitto di azienda – che trovavano chiaro riscontro anche nelle stesse difese svolte dai convenuti i quali, nella comparsa di risposta, contestavano espressamente tali -ulteriori- pretese (ricorso pag. 5 e 28).

Dal tenore dell’atto di citazione, per come trascritto nel ricorso, in ottemperanza all’onere di chiara esposizione del fatto processuale ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3 (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 8077 del 22/05/2012), emerge – quindi – che C.M.C., oltre alle domande risarcitorie e restitutorie derivanti dal contratto di affitto di azienda aveva proposto anche la controversia societaria relativa alla liquidazione della propria quota di partecipazione della società di capitali nonchè un’altra azione di condanna avente ad oggetto la restituzione della somme mutuate, fondata sul rapporto di finanziamento intrattenuto con la medesima società: trattasi di due domande aventi “causa petendi” e “petitum” oggettivamente diversi rispetto alle domande proposte in relazione ai fatti di inadempimento del contratto di affitto di azienda, essendo la prima fondata sul contratto di società e la seconda su un autonomo contratto con causa di finanziamento.

Tanto è sufficiente ad evidenziare l’errore di lettura commesso dalla Corte distrettuale quando ha affermato che l’appellante “non ha agito in qualità di socio non ha rappresentato gli elementi fattuali originanti il preteso pagamento…..per la liquidazione pari al valore della quota…. nè ha formulato alcuna specifica domanda in tal senso” (sentenza appello, in motiv. pag. 6), ed il conseguente errore processuale in cui tale Giudice è incorso laddove ha ritenuto esaurito l’oggetto del giudizio con la sola domanda risarcitoria fondata sulle condotte di inadempimento contrattuale, ritenendo l’intera controversia devoluta agli arbitri.

Alcuna indicazione, sufficiente a supportare la censura, ha invece fornito il ricorrente in ordine alle asserite ulteriori ed autonome domande proposte nei confronti di M.A. – neppure viene specificato se lo stesso sia stato convenuto in giudizio in proprio o quale rappresentante legale della società di capitali -, essendosi limitato il ricorrente ad allegare che, nelle conclusioni all’atto di citazione, erano state richiamate anche le norme di cui agli artt. 2043, 1176, ed agli artt. 65,67,646 e 338 c.p., senza fornire alcuna descrizione delle condotte illecite, non essendo stata, pertanto, in alcun modo smentita dal ricorrente la statuizione della Corte d’appello secondo cui i fatti indicati in citazione si riferivano tutti (con eccezione evidentemente delle altre domande proposte contro la società e non rilevate dal Giudice di appello) a condotte inerenti la fase esecutiva e patologica del contratto di affitto di azienda di rilievo, quindi, esclusivamente privatistico.

Pertanto la sentenza impugnata deve essere cassata, in parte qua, avendo dichiarato improponibili alla stregua della clausola arbitrale inserita nel contratto di affitto di azienda anche controversie estranee a quelle inerenti detto contratto o da esso derivate, non operando la clausola arbitrale alcuna “vis actractiva” in ordine alle altre domande anche se connesse. In ordine alla separazione ed autonomia delle cause devolute agli arbitri e di quelle devolute alla competenza AGO, va, infatti, ribadito il principio di diritto secondo cui, nel caso in cui vengano proposte contestualmente dinanzi al Giudice più domande connesse, alcune di sua competenza ed altre rientranti nella competenza degli arbitri non si verifica, nel caso di arbitrato irrituale, alcuna attrazione della causa di competenza arbitrale in quella, connessa, di competenza del Giudice, in quanto l’arbitrato irrituale comporta per sua natura la rinuncia delle parti ad avvalersi della tutela giurisdizionale e determina l’improponibilità al Giudice ordinario della domanda sottomessa agli arbitri anche quando sia connessa con altra domanda di competenza del detto Giudice (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 231 del 18/01/1990; id. Sez. 3, Sentenza n. 12859 del 02/12/1992; id. Sez. 3, Sentenza n. 21139 del 04/11/2004; id. Sez. 1, Sentenza n. 7551 del 12/04/2005), principio che ha trovato definitiva collocazione legislativa, successivamente alla riforma del D.Lgs. n. 40 del 2006, anche in relazione all'”arbitrato rituale” nell’art. 819 ter c.p.c., comma 1, (cfr. Corte cass. Sez. 1, Ordinanza n. 3826 del 15/02/2013; id. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 307 del 10/01/2017; id. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 26553 del 22/10/2018).

In conseguenza, la sentenza impugnata va cassata in relazione alla errata individuazione del contenuto delle domande formulate con l’atto introduttivo, rimanendo sottratte alla applicazione della clausola compromissoria, inserita nel contratto di affitto di azienda, la controversia societaria relativa alla liquidazione della quota di partecipazione della società di capitali nonchè la controversia tra il C. e la società concernente il rapporto di finanziamento.

Terzo motivo: vizio di omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c. sul motivo di gravame concernente la dedotta errata applicazione da parte del Tribunale di Varese degli artt. 426 e 447 bis c.p.c. sul mutamento del rito da ordinario a speciale, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, nonchè omessa motivazione.

Il ricorrente si duole che la Corte d’appello ha dichiarato assorbita la questione oggetto del motivo di gravame con cui si deduceva la violazione del diritto di difesa e del principio del contraddittorio, per avere mutato il Tribunale il rito da ordinario in speciale, ritenendo che la causa, in quanto avente ad oggetto “esclusivamente” il contratto di affitto di azienda, ricadesse nella previsione dell’art. 447 bis c.p.c..

La dichiarazione di assorbimento pronunciata dalla Corte d’appello sul motivo di gravame in questione è da ricondurre alla categoria dell’assorbimento cd. improprio, in quanto la decisione assorbente sulla improponibilità escludeva la necessità di provvedere sulle altre questioni, tra cui la censura relativa alla applicazione del rito, con la conseguenza che l’assorbimento non comporta un’omissione di pronuncia (se non in senso formale) in quanto, in realtà, la decisione assorbente permette di ravvisare la decisione implicita (di rigetto oppure di accoglimento) anche sulle questioni assorbite, la cui motivazione è proprio quella dell’assorbimento, per cui, ove si escluda, rispetto ad una certa questione proposta, la correttezza della valutazione di assorbimento, avendo questa costituito l’unica motivazione della decisione assunta, il ricorrente deve impugnare tale statuizione indicando le ragioni per le quali nella specie il Giudice non avrebbe dovuto o potuto dichiarare la questione assorbita, ovvero per cui nella specie non poteva operare il criterio dell’assorbimento (cfr. Corte cass. Sez. 1 -, Ordinanza n. 28995 del 12/11/2018).

Orbene la censura non viene svolta in relazione a tale aspetto e dunque la statuizione di assorbimento non viene investita dal motivo di impugnazione in esame.

Laddove poi si volesse intendere la censura come contestazione dell’ordine di trattazione delle questioni (il “primo” motivo di gravame concerneva la violazione del rito processuale ed avrebbe quindi dovuto essere esaminato prioritariamente), vale osservare che l’errore sul mutamento del rito (da quello speciale a quello ordinario e viceversa) non determina “ipso iure” l’inesistenza o la nullità della sentenza, in quanto il rito non costituisce condizione necessaria perchè il giudice possa decidere nel merito la causa, ma assume rilevanza invalidante soltanto se la parte che se ne dolga in sede di impugnazione indichi lo specifico pregiudizio processuale concretamente derivatole dalla mancata adozione del rito diverso, quali una precisa e apprezzabile lesione del diritto di difesa, del contraddittorio e, in generale, delle prerogative processuali protette della parte (cfr. Corte cass. Sez. L, Sentenza n. 1229 del 13/02/1985; id. Sez. 1, Sentenza n. 13751 del 18/09/2003; id. Sez. 3, Sentenza n. 1222 del 23/01/2006; id. Sez. U, Sentenza n. 3758 del 17/02/2009; id. Sez. 2, Sentenza n. 22075 del 17/10/2014; id. Sez. 3, Sentenza n. 22325 del 22/10/2014; id. Sez. 3, Sentenza n. 1448 del 27/01/2015).

Nella specie il ricorrente ha esplicitato di aver dedotto on il motivo di gravame tale specifica lesione del diritto di difesa, consistita nella mancata possibilità di depositare comparse conclusionali ai sensi dell’art. 190 bis c.p.c. ed inoltre nella compressione del contraddittorio, essendo tale attività difensiva esclusa dall’art. 429 c.p.c. (cfr. anche sentenza appello in motiv. pag. 3 ove si riporta il contenuto dell’atto di appello).

Premesso che è rimasta del tutto inesplicata la ipotizzata compromissione del principio del contraddittorio, non emerge -in ogni caso- quale sia il concreto pregiudizio subito alle ragioni del diritto difesa, non essendo individuate le ulteriori ragioni a supporto della domanda che il C.C. avrebbe addotto nelle difese conclusive per contrastare la eccezione di clausola arbitrale proposta dalle controparti (vedi al riguardo: Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 4340 del 23/02/2010), tanto più considerando che gli argomenti eventualmente non potuti spendere nelle comparse conclusionali in primo grado bene avrebbero potuto essere svolti e sviluppati con la deduzione dei motivi di appello.

Del tutto dirimente rispetto alle precedenti considerazione deve ritenersi, peraltro, il rilievo per cui la nullità processuale dedotta non rientra in alcuno dei casi di rimessione della causa al primo giudice ai sensi dell’art. 353 e dell’art. 354 c.p.c., sicchè la censura si palesa “ictu oculi” inammissibile alla stregua del consolidato principio di diritto per cui “è inammissibile, per difetto di interesse, il motivo di ricorso in cassazione avverso la sentenza di appello che abbia omesso di dichiarare la nullità della sentenza di primo grado, qualora il vizio di questa, laddove esistente, non avrebbe comportato la rimessione della causa al primo giudice, in quanto estraneo alle ipotesi tassative degli artt. 353 e 354 c.p.c. ed il giudice di appello abbia deciso nel merito su tutte le questioni controverse, senza alcun pregiudizio per il ricorrente conseguente alla omessa dichiarazione di nullità” (cfr. Corte cass. Sez. L, Sentenza n. 13781 del 07/11/2001; id. Sez. L, Sentenza n. 10869 del 11/05/2006; id. Sez. 1, Sentenza n. 27777 del 21/11/2008; id. Sez. 3, Sentenza n. 5659 del 09/03/2010).

In conclusione il ricorso trova accoglimento relativamente al primo e secondo motivo, inammissibile il terzo; la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio della causa alla Corte d’appello di Milano in altra composizione che procederà a nuovo giudizio attenendosi ai principi di diritto richiamati nell’esame dei primi due motivi di ricorso, e liquidando all’esito anche le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie il primo ed il secondo motivo di ricorso; dichiara inammissibile il terzo motivo di ricorso; cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti; rinvia alla Corte di appello di Milano in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 27 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2019

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