Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 28000 del 31/10/2019

Cassazione civile sez. III, 31/10/2019, (ud. 13/06/2019, dep. 31/10/2019), n.28000

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28955-2018 proposto da:

C.M.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

DELLE MILIZIE 138, presso lo studio dell’avvocato MARIA MARTIGNETTI,

che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

B.R.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PAOLO EMILIO

7, presso lo studio dell’avvocato PIETRO LODOLI, che la rappresenta

e difende unitamente all’avvocato STEFANO SERGIO CASTELVETERE;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3995/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 16/07/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

13/06/2019 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Roma, con sentenza in data 16.7.2018 n. 3995, ha rigettato l’appello proposto da C.M.A. e confermato la decisione del Tribunale di Roma n. 8545/2014 che aveva dichiarato cessato, alla data 13.5.2009, il rapporto di comodato relativo all’immobile ad uso abitativo sito in (OMISSIS), condannando la comodataria al rilascio dell’immobile, in favore della comodante B.R.L., entro il termine del 30.9.2014.

Il Giudice territoriale riteneva non provata la detenzione ad altro titolo dell’immobile da parte della C., che neppure aveva fornito prova delle modalità – diverse dalla immissione nel bene a titolo di comodato – con le quali era entrata nell’asserito possesso del bene, non risultando dimostrata la qualità di socia della Cooperativa Montecavallo originaria proprietaria dell’immobile; riteneva irrilevante accertare quale fosse il titolo legittimante la R. alla concessione in comodato del bene, alla stregua del principio secondo cui era sufficiente la prova che la stessa avesse la disponibilità del bene, nella specie dimostrata dalla materiale consegna dell’immobile alla C. e dalle risultanze istruttorie che attestavano l’assegnazione provvisoria dell’immobile disposta dalla Cooperativa a favore della B.R.; rilevava che, in difetto di diversa pattuizione delle parti ed in difetto di prova da parte della C. di elementi circostanziali ai quali far riferimento per la individuazione di un termine di efficacia del contratto, il rapporto doveva qualificarsi come comodato precario, risolvibile “ad nutum”.

La sentenza di appello, notificata in data 17.9.2018, è stata impugnata da C.M.A. con ricorso per cassazione affidato a sei motivi illustrati da memoria ex art. 380 bis.1 c.p.c.

Resiste con controricorso B.R.L..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo ed il secondo motivo la ricorrente impugna la sentenza di appello deducendo, in via alternativa:

– il vizio di nullità processuale, per violazione dell’art. 112 c.p.c., avendo omesso il Giudice di appello di pronunciare sulla eccezione di difetto di “legittimazione, titolarità ed interesse” della parte appellata;

– la violazione degli artt. 81 e 100 c.p.c., qualora dovesse ravvisarsi nella sentenza impugnata un’implicita pronuncia affermativa della “legittimazione, titolarità ed interesse” della parte appellata.

Assume la ricorrente a supporto delle censure che, avendo S.M. acquistato l’immobile dalla Cooperativa, con rogito in data 24.3.2005, doveva ritenersi venuta meno la legittimazione della B.R. ad agire per il rilascio dell’immobile concesso in comodato.

La tesi è manifestamente infondata in quanto:

a) non risulta che con l’atto di cessione della proprietà il nuovo acquirente sia stato immesso nel possesso del bene e la B.R. abbia perduto la detenzione dell’immobile, detenzione che, al contrario, bene potrebbe essere stata mantenuta dall’originaria comodante o finanche concessa a vario titolo (anche al solo fine della gestione del contratto di comodato) alla B.R. dal nuovo proprietario: è bene vero che il comodato – tanto più se precario – non è opponibile al terzo acquirente la proprietà dell’immobile, ma ciò vale, nel caso in cui il bene venduto continui ad essere occupato dal comodatario, se ed in quanto il proprietario intenda fare valere il suo diritto, manifestando inequivocamente la volontà di recuperare la disponibilità materiale dell’immobile, richiedendo all’alienante (nella specie anche comodante) l’adempimento della obbligazione di consegna del bene ex art. 1476 c.c., comma 1, n. 1) c.c., ovvero esercitando l’azione di rivendicazione ex art. 948 c.c. nei confronti del possessore o del detentore; diversamente non potendo escludersi che il nuovo proprietario acconsenta al mantenimento del contratto di comodato, subentrando direttamente nel rapporto preesistente, ovvero autorizzando l’originario comodante a continuare a disporre del bene;

b) risulta, peraltro, dalla sentenza di appello che il S., quale proprietario, aveva anch’egli agito per il rilascio dell’immobile nei confronti della C., ma il Tribunale di Roma, con sentenza n. 24077/2007, aveva rigettato la domanda, sul presupposto – accertato da quel Giudice – che in seguito all’acquisto della proprietà non era intervenuta alcuna successione nel rapporto di comodato, ed aveva quindi riconosciuta come unica legittimata all’esperimento delle azioni contrattuali la B.R.: tale sentenza non risulta sia stata impugnata da alcuna delle parti, evidenziando la condotta processuale tenuta dalla C. una piena acquiescenza rispetto all’accertamento negativo della titolarità del diritto ad agire per la cessazione di efficacia del contratto di comodato in capo al nuovo proprietario, non essendo pertanto consentito, successivamente, alla C. contraddire tale acquiescenza, contestando, nel diverso processo introdotto nei suoi confronti dalla parte indicata quale effettiva titolare, il difetto di legittimazione ed interesse ad agire sul presupposto -oggettivamente incompatibile con la indicata condotta – della asserita titolarità del medesimo rapporto obbligatorio, in capo al soggetto al quale tale titolarità era stata disconosciuta dalla precedente sentenza del Tribunale.

Tale nuova condotta contestativa esercitata nel processo -pur non potendo esplicare il primo accertamento efficacia di giudicato nel presente giudizio, difettando la coincidenza soggettiva delle parti- realizza una evidente inversione antinomica rispetto alla pregressa condotta processuale tenuta dalla medesima parte, che non appare tuttavia esaurirsi nell’ambito – legittimo – della scelta tra possibili strategie difensive, spiegando invece diretto riflesso sul piano del diritto sostanziale della prova, non essendo consentito alla stessa prima disconoscere (prestando acquiescenza all’accertamento negativo contenuto nella sentenza a sè favorevole) e poi ammettere la titolarità della identica posizione contrattuale in capo al medesimo soggetto, venendo altresì ad integrare tale condotta contraddittoria un – inammissibile – abuso nell’impiego dello strumento processuale, in quanto diretta esclusivamente ad eludere che il processo possa assolvere effettivamente alla sua funzione e pervenire alla definitiva statuizione di merito sulla effettiva titolarità del rapporto controverso (nel primo giudizio nego che Tizio possa agire nei miei confronti, in quanto affermo che il titolare del rapporto è Caio; nel secondo giudizio nego che Caio possa agire nei miei confronti, in quanto contraddittoriamente- affermo che titolare è Tizio).

In conseguenza, esclusa la dedotta omissione di pronuncia del Giudice di merito avendo questi accertato la legittimazione della B.R. ad agire per il rilascio dell’immobile – anche alla stregua del riferito accertamento negativo compiuto nel precedente giudizio – implicitamente ritenendo destituiti di fondamento le eccezioni della C., ritiene il Collegio che, avuto riguardo ad entrambi i rilievi svolti sopra, vada esente da censura la statuizione della Corte d’appello secondo cui, la mera disponibilità materiale dell’immobile dimostrata con la consegna e la immissione della comodataria nella detenzione del bene – è sufficiente a riconoscere la titolarità del rapporto di comodato in capo alla B.R., essendosi conformato il Giudice di merito al principio di diritto enunciato da questa Corte secondo cui chiunque abbia la disponibilità di fatto di una cosa, in base a titolo non contrario a norme d’ordine pubblico, può validamente concederla in locazione, comodato o costituirvi altro rapporto obbligatorio ed è in conseguenza legittimato a richiederne la risoluzione, nell’ipotesi in cui sussista l’inadempimento del conduttore, ovvero la restituzione, allorchè il rapporto venga a cessare (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 7422 del 13/07/1999; id. Sez. 2, Sentenza n. 14395 del 29/07/2004; id. Sez. 3, Sentenza n. 4764 del 04/03/2005; id. Sez. 3, Sentenza n. 8411 del 11/04/2006 – secondo cui è sufficiente a ravvisare la legittimazione a concedere in locazione il bene la mera disponibilità di fatto dello stesso -, cui adde Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 12976 del 27/05/2010; id. Sez. 3, Sentenza n. 15443 del 14/07/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 22346 del 22/10/2014).

Con il terzo motivo la ricorrente deduce la violazione degli artt. 1344,1803 e 2697 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè del TU edilizia economica e popolare, approvato con R.D. 28 aprile 1938, n. 1165, art. 59 e ss. e succ. mod., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Sostiene la ricorrente che la B.R. non poteva disporre legittimamente dell’immobile in quanto l’assegnazione provvisoria avrebbe dovuto essere considerata illegittima essendo la comodante già assegnataria di altro alloggio nello stesso edificio.

Il motivo è infondato, occorrendo tuttavia correggere la motivazione della sentenza impugnata.

La Corte d’appello ha ritenuto irrilevante la questione della legittimità o meno della assegnazione provvisoria disposta a favore della B.R., in quanto ciò che rilevava era soltanto la effettiva disponibilità dell’immobile da parte della comodante, circostanza comprovata dalle risultanze istruttorie.

L’affermazione è esatta in quanto, come si è visto, risponde al principio ripetutamente affermato da questa Corte secondo cui, chiunque abbia la disponibilità di fatto di una cosa, in base a titolo non contrario a norme di ordine pubblico, può validamente concederla in locazione, comodato, o costituirvi altro rapporto obbligatorio ed è, in conseguenza, legittimato a richiederne la restituzione allorchè il rapporto venga a cessare (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 8840 del 13/04/2007; id. Sez. 3, Sentenza n. 13204 del 31/05/2010; id. Sez. 3, Sentenza n. 20371 del 05/09/2013; id. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 30550 del 20/12/2017).

La statuizione della Corte d’appello deve essere, tuttavia, meglio esplicitata quanto al presupposto della esistenza in capo alla B.R. di un titolo detentivo non contrario alla disciplina normativa imperativa -nella specie relativa al settore della edilizia economico e popolare-, specificando che, laddove la detenzione dell’immobile sia esercitata in base ad atto amministrativo sia pure illegittimo (tale dovendo qualificarsi, secondo la tesi svolta dalla ricorrente, l’atto di assegnazione provvisoria dell’alloggio alla B.R., adottato in data 5.4.1982), la disponibilità materiale del bene non può considerarsi esercitata “non jure” fintanto che il provvedimento di assegnazione non venga caducato, all’esito di un formale procedimento di revoca o di decadenza, ovvero risulti incompatibile con altro titolo di assegnazione legittimamente conferito ad un terzo.

E’ stato infatti affermato, al riguardo, che qualora l’assegnatario di un alloggio, costruito a carico dello Stato in conseguenza di terremoti, abbia dato in comodato il bene medesimo ad un terzo, ancorchè con eventuale violazione delle norme disciplinanti tale assegnazione, il predetto terzo, in applicazione analogica del principio codificato dall’art. 1779 c.c., può opporsi alla pretesa di rilascio, avanzata dal comodante, nel caso in cui, in qualità di detentore del bene in via continuativa e per durevoli esigenze di abitazione, abbia presentato e visto accogliere l’istanza di cessione in proprietà dell’alloggio stesso (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 1355 del 27/02/1980), ed è stato ancora più specificamente affermato che, nella controversia promossa dall’assegnatario di un alloggio di edilizia residenziale pubblica per conseguirne il rilascio da parte dell’occupante senza titolo, l’emanazione del provvedimento di decadenza o revoca dell’assegnazione per abusiva cessione del godimento dell’immobile ad un terzo, L. 8 agosto 1977, n. 513, ex art. 26 non comporta il venir meno della legittimazione ad agire dell’assegnatario finchè il detto provvedimento non gli venga notificato (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 3196 del 15/05/1986; id. Sez. 1, Sentenza n. 5159 del 29/04/1992). Pertanto, il terzo occupante di alloggio economico e popolare in virtù della stipula di contratto attributivo del diritto di godimento del bene immobile, in tanto può – dunque – opporsi al titolo detentivo del suo dante causa, in quanto sussista la duplice e contemporanea condizione che quest’ultimo risulti privato (a seguito di revoca o decadenza disposta dalla autorità competente) del proprio titolo di assegnazione, e che il terzo vanti un proprio titolo di assegnazione incompatibile con la altrui disponibilità materiale dell’immobile.

Nella specie la allegazione di parte ricorrente secondo cui la B.R. non avrebbe potuto – se non in frode alle norme imperative che regolano l’assegnazione degli alloggi di edilizia economica e popolare – detenere contemporaneamente di due distinti alloggi, quello cioè condotto in comodato dalla C. ((OMISSIS)), oggetto del provvedimento 5.4.1982 di assegnazione provvisoria alla B.R. ed adottato dall’autorità competente, successivamente definitivamente assegnato al figlio di quella S.M. che lo ha acquistato con rogito in data 24.3.2005, ed inoltre altro alloggio sito nello stesso stabile al piano V int. (OMISSIS), indicato nella certificazione del presidente della Cooperativa in data 1.2.2005, non è questione dirimente ai fini dell’invalido acquisto del titolo detentivo dell’immobile in capo alla comodante, se non altro in quanto, da un lato, la censura si palesa carente sul piano allegatorio difettando la prova – neppure allegata dalla ricorrente – della coesistenza dei titoli di assegnazione degli alloggi al tempo in cui è stato stipulato il contratto di comodato ed in particolare che l’assegnazione provvisoria dell’alloggio concesso in comodato era stata disposta essendo la B.R. già assegnataria dell’altro alloggio; dall’altro dovendo rilevarsi che, intervenuto l’acquisto dell’immobile da parte del S. nel 2005, la asserita illegittimità – per contrasto con norma imperativa – del titolo detentivo della comodante è comunque venuta meno, essendo cessata a tale data la allegata duplicità, in capo al medesimo soggetto, dei provvedimenti di assegnazione dei due alloggi di edilizia economica e popolare. Dovendo, inoltre, aggiungersi che la C. non ha neppure allegato di occupare l’immobile in base ad un proprio legittimo titolo di assegnazione dell’alloggio, incompatibile con la persistenza del rapporto di comodato avente ad oggetto l’alloggio, da opporre alla B.R..

Con il quarto motivo viene censurata la violazione dell’art. 1803 c.c., art. 2697 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La ricorrente impugna la valutazione delle risultanze istruttorie compiuta dalla Corte distrettuale in ordine alla prova della effettiva disponibilità del bene da parte della B.R. e della consegna materiale dell’immobile alla comodataria. Sostiene che dal complesso indiziario non poteva desumersi che la attuale resistente fisse entrata in possesso dell’immobile fin dal 1982, in quanto il documento prodotto (atto di assegnazione provvisoria dell’immobile in data 5.4.1982) era stato tempestivamente disconosciuto ai sensi dell’art. 2719 c.c..

Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.

Il motivo è inammissibile nella parte in cui attraverso il vizio di violazione di norma di diritto viene a veicolare la richiesta di un riesame del materiale probatorio, onde pervenire ad una nuova e diversa ricostruzione della fattispecie concreta, riesame precluso a questa Corte dal carattere tassativo dei vizi della sentenza deducibili in sede di legittimità.

Premesso che la nuova formulazione del testo normativo, introdotta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134 (recante “Misure urgenti per la crescita del Paese”), che ha sostituito il n. 5 dell’art. 360 c.p.c., comma 1 (con riferimento alle impugnazioni proposte avverso le sentenze pubblicate successivamente alla data dell’11 settembre 2012: D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 3 cit.), ha, infatti, limitato la impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado, per vizio di motivazione, alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, escludendo il sindacato sulla inadeguatezza del percorso logico posto a fondamento della decisione e condotto alla stregua di elementi extratestuali (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014; id. Sez. U, Sentenza n. 19881 del 22/09/2014; id. Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016), osserva il Collegio che non è – evidentemente – consentito riproporre sotto altra forma paradigmatica, attraverso la denuncia del combinato disposto dell’art. 116 c.p.c. e art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), la medesima censura diretta a veicolare quegli stessi “vizi di logicità” che la norma ha inteso esplicitamente eliminare dall’attuale testo normativo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), atteso che – indipendentemente dal carattere manifestamente elusivo della riforma processuale riconoscibile in tale operazione – la denuncia di asserita violazione del corretto esercizio del principio del “libero convincimento” ex art. 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento delle risultanze istruttorie, riservato in via esclusiva al Giudice di merito, ed in quanto tale è insindacabile in sede di legittimità: deve ritenersi, infatti, assolutamente pacifico in giurisprudenza che la denuncia di violazione dell’art. 115 c.p.c., comma 1 e dell’art. 116 c.p.c., solo apparentemente veicola un vizio di “violazione o falsa applicazione di norme di diritto” (processuali), traducendosi, invece, nella denuncia di “un errore di fatto” che deve essere fatta valere attraverso il corretto paradigma normativo del vizio motivazionale, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) (cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 2707 del 12/02/2004; id. Sez. 3, Sentenza n. 12912 del 13/07/2004; id. Sez. 1, Sentenza n. 14267 del 20/06/2006; id. Sez. 3, Sentenza n. 19064 del 05/09/2006; id. Sez. 3, Sentenza n. 15107 del 17/06/2013), essendo esclusa, in ogni caso, una nuova rivalutazione dei fatti da parte della Corte di legittimità (cfr. (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 13045 del 27/12/1997; id. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 5024 del 28/03/2012; id. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 91 del 07/01/2014).

Del tutto inconferente è poi l’asserita violazione dell’art. 2697 c.c..

Eventuali errori concernenti la valutazione della prova non possono ridondare mai nella applicazione e violazione della norma che regola il riparto dell’onere probatorio ex art. 2697 c.c. e la relativa censura risulta pertanto “ictu oculi” inammissibile atteso che, come più volte ribadito da questa Corte “La violazione dell’art. 2697 c.c. si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni, mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato alla “valutazione delle prove”….” (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 16598 del 05/08/2016, in motivazione paragr. p. 14; già in precedenza: Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 11949 del 02/12/1993; id. Sez. 3, Sentenza n. 2155 del 14/02/2001; id. Sez. 2, Sentenza n. 3642 del 24/02/2004; id. Sez. 5, Sentenza n. 2935 del 10/02/2006; id. Sez. 3, Sentenza n. 19064 del 05/09/2006; id. Sez. 3, Sentenza n. 15107 del 17/06/2013; id. Sez. L, Sentenza n. 13960 del 19/06/2014; id. Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016).

Il motivo è poi infondato, quanto alla dedotta contestazione ex art. 2719 c.c. intesa a disconoscere la conformità della copia dell’atto prodotto in giudizio all’originale, e la statuizione impugnata va esente da censura in quanto conforme al principio di diritto secondo cui in tema di prova documentale, il disconoscimento, ai sensi dell’art. 2719 c.c., della conformità tra una scrittura privata e la copia fotostatica, prodotta in giudizio non ha gli stessi effetti di quello della scrittura privata, previsto dall’art. 215 c.p.c., comma 1, n. 2, in quanto, mentre quest’ultimo, in mancanza di verificazione, preclude l’utilizzabilità della scrittura, la contestazione di cui all’art. 2719 c.c. non impedisce al giudice di accertare la conformità della copia all’originale anche mediante altri mezzi di prova, comprese le presunzioni (cfr. Corte cass. Sez. 3, Sentenza n. 24456 del 21/11/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 16998 del 20/08/2015; id. Sez. 5 -, Sentenza n. 14950 del 08/06/2018) e nella specie non vi è dubbio che la Corte d’appello abbia formato il proprio convincimento sulla scorta non soltanto del predetto documento ma anche delle altre prove orali assunte in giudizio (testi S. e Ca.).

Con il quinto motivo si deduce il vizio di omesso esame di fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 consistente, a dire della ricorrente, nella dichiarazione, contenuta nella comparsa di costituzione e risposta depositata dalla B.R. in altro precedente giudizio possessorio, secondo cui l’immobile sarebbe stato comodato al figlio S.L. fin dal 2003, circostanza da cui avrebbe dovuto desumersi che, già a quella data, la B.R. aveva cessato di detenere l’immobile.

Il motivo è inammissibile.

La ricorrente non trascrive compiutamente il contenuto del documento asseritamente decisivo, rendendolo inintelligibile, con conseguente violazione dei requisiti di ammissibilità prescritti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 6; inoltre, da un lato, non viene fornito alcun chiarimento al rilievo della controricorrente secondo cui, avendo il figlio soltanto otto anni nell’anno 2003, ben difficilmente lo stesso, in quanto ancora incapace di agire, avrebbe potuto rivestire la qualità di parte contraente; dall’altro neppure è evidenziato se e quando tale circostanza di fatto sia stata effettivamente valorizzata e discussa nei precedenti gradi di merito, atteso che il mero inserimento in elenco, in un proprio atto processuale, di un documento, non determina per ciò stesso la acquisizione dello stesso al rilevante probatorio, ove i fatti – che in tale documento trovano rappresentazione – non siano stati puntualmente allegati e valorizzati dalle parti negli argomenti svolti nei loro atti difensivi, solo in tal caso potendo assurgere ad elementi del “thema probandum” sul quale il Giudice di merito è chiamato e tenuto a decidere, non potendo essere demandata al Giudice la ricerca “ex officio”, tra l’indifferenziato materiale documentale allegato agli atti di parte, del documento ritenuto utile a fornire la prova rappresentativa dei fatti principali o secondari rilevanti ai fini della decisione.

Anche il sesto motivo con il quale la ricorrente censura la violazione degli artt. 1803-1809 c.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c., dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, contestando la valutazione del rapporto compiuta dalla Corte territoriale che ha qualificato il contratto come comodato “precario”, va incontro ad inammissibilità per le stesse ragioni evidenziate nell’esame del quarto motivo.

La ricorrente richiede una nuova valutazione delle prove che dimostrerebbero, secondo la tesi difensiva, la peculiare funzionalità della concessione dell’immobile in comodato, in quanto volta a consentire alla C. di andarvi ad abitare con il proprio nucleo familiare: sicchè il contratto avrebbe dovuto essere qualificato come comodato “a termine”, stabilito “per relationem” alla durata delle esigenze abitative della famiglia.

La questione di fatto, la cui soluzione precede evidentemente la fase di sussunzione della fattispecie concreta nelle norme di diritto sostanziale indicate in rubrica, è stata espressamente oggetto di esame della Corte d’appello che, con valutazione di merito, non sindacabile in sede di legittimità – se non nei ristretti limiti del vizio di motivazione descritto nel novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 -, ha escluso che il comodato fosse funzionale alle esigenze abitative della famiglia della C. – ritenendo pienamente condivisibile la decisione adottata dal primo Giudice -, in quanto oltre alla assenza di pattuizioni espresse delle parti, difettavano del tutto elementi indiziari significativi che deponessero per la prova di una concordata destinazione dell’immobile all’asservimento ad uno scopo specifico, ulteriore e diverso da quello dell’assegnazione del diritto di godimento dell’immobile da parte del comodatario.

In conclusione il ricorso deve essere rigettato, e la parte soccombente va condannata alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità liquidate in dispositivo.

Rilevato che risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere stata ammessa al Patrocinio a spese dello Stato (delibera Consiglio Ordine degli Avvocati di Roma in data 20.12.2018 n. 11739), non si applica il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 13 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2019

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