Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27991 del 31/10/2019

Cassazione civile sez. III, 31/10/2019, (ud. 03/06/2019, dep. 31/10/2019), n.27991

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 13714-2015 proposto da:

L.M.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PILO

ALBERTELLI 1 (FAX 0698933754-TEL 0644233842), presso lo studio

dell’avvocato LUCIA CAMPOREALE, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

P.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE G.

MAZZINI 6, presso lo studio dell’avvocato ELIO VITALE, che lo

rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1670/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 12/03/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/06/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE CRICENTI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato CAMPOREALE LUCIA;

udito l’Avvocato VITALE ELIO;

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto del 6 marzo 2006, D.I.F. ha promesso in vendita un appartamento di sua proprietà, sito in (OMISSIS) a L.M.L., che si è contestualmente impegnata ad acquistarlo.

Con un diverso atto, del 13 luglio del 2006, B.R., marito della L., promissaria acquirente nel precedente atto, ha stipulato un atto di apparente vendita di tale immobile ad P.A..

Quest’ultimo è stato citato in giudizio dalla L., la quale gli ha contestato di non aver adempiuto agli obblighi nascenti dalla scrittura stipulata con il marito. Il Tribunale ha ritenuto che la seconda scrittura, quella ossia fatta valere dalla L. nei confronti del P., non avesse gli elementi indispensabili per integrare un contratto traslativo del bene immobile, e dunque ha ritenuto che non vincolasse le parti.

Il Giudice di appello ha confermato questa decisione, ma con una motivazione diversa, ossia ritenendo che il B., marito della L., non aveva alcun potere di vendere al P. un bene che ancora non era entrato nel patrimonio della moglie.

Avverso tale decisione la L. ricorre con cinque motivi.

V’è costituzione del P. che chiede il rigetto del ricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.- La ratio della decisione impugnata è diversa da quella del primo grado. Il Tribunale aveva negato azione alla L. ritenendo che l’accordo stipulato dal marito non fosse impegnativo, per difetto degli elementi essenziali a costituire un contratto: si trattava, al più, di una puntuazione, e dunque di una stipulazione preliminare non idonea ad effetti traslativi.

La corte di appello ha confermato la decisione del primo grado ma cambiando del tutto la motivazione, facendo leva sul difetto di legittimazione del B., marito della L., a vendere a terzi un bene asseritamente della moglie.

Ciò si dice in quanto è principio affermato da questa corte che “la sentenza d’appello, anche se confermativa, si sostituisce totalmente a quella di primo grado, sicchè il giudice del gravame che confermi la decisione impugnata, la cui conclusione sia conforme a diritto, sulla base di ragioni ed argomentazioni diverse da quelle addotte dal giudice di prime cure, non viola alcun principio di diritto; la portata della decisione va, quindi, interpretata secondo i criteri ed i limiti della nuova motivazione della sentenza di appello.” (Cass. 352/ 2017; Cass. 15185/ 2003).

1.1.- La ricorrente, nei cinque motivi di ricorso, mescola censure rivolte alla decisione di appello con censure rivolte alla decisione di primo grado.

Tra queste v’è la violazione dell’art. 112 c.p.c. (contenuta confusamente insieme a tante altre censure nel primo motivo).

La ricorrente sostiene che la corte di appello avrebbe dovuto decidere sulla questione della qualificazione dell’accordo, se esso, cioè, fosse da ritenersi puntuazione o preliminare o altro; non avendolo fatto ha violato la corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

E tuttavia, giusta la regola sopra richiamata, la corte di appello che confermi la sentenza di primo grado, modificando la motivazione, ossia sulla base di ragioni diverse, non viola alcun principio di diritto, e la ratio da contestare sarà per l’appunto quella della decisione di secondo grado e non quella del primo giudice. Ciò significa che le censure, ripetute in tutti i primi tre motivi di ricorso, che attengono alla qualificazione dell’accordo tra B. e P., non colgono la ratio della decisione impugnata, la quale, si ripete, rigetta la domanda ravvisando un difetto di legittimazione del B. a vendere al P., e non si occupa della natura dell’accordo tra queste ultime due parti.

Le censure in questione, in sostanza, sono rivolte a contestare la ratio del primo grado, sostituita come si è detto, da una diversa ratio in appello: da qui l’inammissibilità dei motivi di ricorso in parte qua.

2.- I primi tre motivi di ricorso, per il resto, possono esaminarsi congiuntamente nella misura in cui contestano la effettiva ratio della sentenza impugnata, che, si ripete, è nella negazione della legittimazione a vendere del B..

In tal senso gli argomenti della ricorrente sono fondamentalmente tre. Da un lato si assume che il B. ha stipulato, e quindi legittimamente, una vendita di cosa altrui; per altro verso si assume che abbia agito come falso rappresentante della moglie, che, però, sia diffidando il P. che convenendolo in giudizio, ha implicitamente ratificato l’operato del marito. Infine, che la L., nel preliminare che aveva stipulato in precedenza, si era riservata di acquistare per sè o persona da nominare, circostanza che renderebbe il marito legittimato alla successiva rivendita.

Intanto si tratta di censure (rectius, ricostruzioni della fattispecie) alternative l’una all’altra: il B. o ha agito come venditore di una cosa altrui, o ha agito come falso rappresentante del proprietario, oppure in quanto beneficiario della electio amici da parte della moglie.

E già il fatto che si propongano tre ricostruzioni alternative della fattispecie, è significativo.

I motivi sono comunque infondati.

Intanto è da premettere che, come ricostruito in fatto e come è pacifico, la L., che agisce ora per avere adempimento da parte del P., non è mai diventata proprietaria del bene, avendo soltanto stipulato un preliminare di acquisto con il proprietario effettivo. Almeno al momento in cui il marito ha pensato di vendere quel bene, la L. era semplicemente promissaria acquirente.

Il che incide innanzitutto sulla qualificazione dell’accordo in questione come vendita di cosa altrui. Di una tale vendita si potrebbe parlare solo se il B. avesse venduto un bene della moglie (la L.). Invece ha venduto (ammesso che quell’accordo fosse una vendita) un bene che della moglie non era ancora, perchè promessole in vendita dal proprietario ma mai trasferitole con un contratto definitivo.

Se dunque si dovesse discorrere di vendita di cosa altrui, si dovrebbe ritenere che il B. ha venduto un bene non della moglie, ma di altro soggetto (il bene era ancora di proprietà di D.i.F.), ossia la promittente venditrice della suddetta moglie.

L’altra ipotesi prospettata dalla ricorrente è che il marito abbia agito come falso rappresentante della moglie, la quale ha poi ratificato ogni atto.

Il falso rappresentante è pur sempre uno che agisce come vero, ossia che spende il nome di altro soggetto pur non avendone il potere; che si presenta cioè come rappresentante, ma senza esserlo.

Perchè si abbia falsus procurator non basta contrattare nel nome e nell’interesse altrui, ma occorre che si contratti come rappresentante, cioè facendo apparire che si abbiano i relativi poteri, mentre questi mancano o sono più limitati di quelli dichiarati; occorre cioè che nel negozio si intervenga come rappresentante, altrimenti si resta fuori dalla fattispecie del falsus procurator, con la conseguenza che non è applicabile la disciplina del contratto da costui concluso (Cass. 2292/1971).

Con accertamento, peraltro non contestato, la corte di appello ha rilevato che nella scrittura in questione non risultava che il B. avesse agito come rappresentante della moglie, e del resto, la ricorrente non riporta un qualche contenuto contrattuale da cui possa invece desumersi il contrario.

In sostanza, è da ritenere accertato dalla corte di merito che il B. ha stipulato senza spendere il nome della moglie, e dunque al di fuori della figura della rappresentanza, sia pure usurpata.

Infine, ed è il terzo argomento di censura, ritiene la ricorrente che nel preliminare in cui la L. agiva da promissaria acquirente, si era riservato di stipulare per sè o per persona da nominare, e che tale previsione investiva dunque il marito di una qualche legittimazione sul bene o nei riguardi nella moglie.

E’ di tutta evidenza l’infondatezza di tale argomento.

Intanto, si sarebbe trattato di un preliminare di contratto con persona da nominare, e dunque con riserva della electio al momento del definitivo, che però non è mai stato stipulato; cosi che la previsione della nomina del terzo tale era e tale è rimasta; non ha prodotto alcun effetto.

Non c’è alcun terzo che possa dunque, per effetto della electio, aver beneficiato degli effetti della vendita, non essendo mai stata stipulata quest’ultima. Peraltro, se cosi fosse, il marito sarebbe diventato lui il proprietario del bene, in quanto, come è noto nel contratto per persona da nominare, una volta che sia fatta la nomina, l’eletto acquista in proprio gli effetti e retroattivamente.

Si ricava agevolmente dall’art. 1404 c.c. che prima della nomina (che qui non risulta fatta) il terzo non ha alcun diritto, e neanche quello di agire per conto di chi ha in animo di nominarlo, e che dopo l’electio è lui che assume la parte nel rapporto giuridico, acquistando i diritti e assumendo gli obblighi derivanti dal contratto con effetto dal momento in cui questo fu stipulato.

Nè infine può ritenersi che una legittimazione a vendere può risultare dal matrimonio in quanto tale (cosi si legge, tuttavia, a pagina del 18 del ricorso), che non è di per sè fonte di legittimazione perchè un coniuge rappresenti l’altro nelle vicende patrimoniali di quest’ultimo. Semmai potrebbe il regime di comunione dei beni consentire un potere di agire disgiunto di ciascun coniuge, ma qui è accertato che i due erano in regime di separazione, e comunque è altrettanto pacifico che il bene non è mai entrato nella sfera del coniuge, con la conseguenza che anche se fosse stato il regime patrimoniale quello della comunione, mai avrebbe potuto il marito disporne nell’interesse della moglie o di entrambi.

3.- Il quarto motivo si duole della mancata ammissione delle prove, da parte della corte di appello, e, in prima istanza del tribunale, prove volte, secondo la ricorrente, a dimostrare l’effettività della stipula tra B. e P..

Il motivo è del tutto inammissibile, in quanto a parte la circostanza che denuncia l’uso del potere discrezionale del giudice di merito nella valutazione delle prove e dunque anche nella loro ammissione; a parte ciò, le prove rifiutate mirano semmai a confutare la ratio della decisione di primo grado, ossia quale fosse la natura dell’accordo B.- P., mentre, si ripete ulteriormente, la ratio da contrastare qui è quella di secondo grado, che non riguarda quell’aspetto, ma un altro, ossia la legittimazione a vendere del B..

4.- Del pari infondato è il quinto motivo che è solo apparentemente tale, trattandosi dell’auspicio che, accolto il ricorso per cassazione, ne segua rifusione delle spese di ogni grado di giudizio.

Il ricorso va respinto e le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite nella misura di 7200,00 Euro, oltre 200,00 Euro di spese generali. Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento del doppio del contributo unificato.

Così deciso in Roma, il 3 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2019

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