Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27988 del 07/12/2020

Cassazione civile sez. trib., 07/12/2020, (ud. 07/10/2020, dep. 07/12/2020), n.27988

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – rel. Consigliere –

Dott. ZOSO Liana Maria Teresa – Consigliere –

Dott. LO SARDO Giuseppe – Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 7333-2017 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

C.N.B., K.H.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 409/2016 della COMM. TRIB. REG. SEZ. DIST. di

TARANTO, depositata il 18/02/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

07/10/2020 dal Consigliere Dott. ORONZO DE MASI.

 

Fatto

RITENUTO

CHE:

C.N.B. e K.H. impugnarono l’avviso di liquidazione, LORO notificato il 10/12/1997, dell’imposta di successione da C.C., deceduto il (OMISSIS), deducendo l’illegittimità dell’atto in quanto l’allegato prospetto era privo di attestato di autenticità e di sottoscrizione, per cui non era univocamente riconucibile all’Ufficio, anche a causa della carente relata di notifica, nonchè il mancato computo delle passività dichiarate, per insufficiente dimostrazione delle stesse, non avendo l’Ufficio, ai sensi del D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 32, invitato i contribuenti ad integrare la documentazione al riguardo.

L’impugnativa fu accolta dalla Commissione Tributaria Provinciale di Taranto che, con argomentazione assorbente, ritenne violata la suindicata disposizione in quanto l’Ufficio avrebbe dovuto invitare i contribuenti a regolarizzare la dichiarazione di successione incompleta.

L’appello erariale è stato respinto dalla Commissione Tributaria Regionale della Puglia, con sentenza del 19/12/2014, depositata col n. 409/16 68/28/98 il 18/2/2016; in essa si nega il lamentato difetto di motivazione della sentenza di appello e si evidenzia il pregiudizio cagionato ai contribuenti dall’Ufficio che aveva provveduto a notificare l’avviso ben oltre il termine triennale indicato dal D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 23, così precludendo agli stessi la dimostrazione, ai sensi della norma richiamata, commi 1, 2 e 3, l’esistenza di debiti deducibili già documentati con copie di attestazioni, nonchè l’insufficienza della motivazione dell’avviso impugnato a garantire la conoscenza delle ragioni della esclusione dall’attivo delle dichiarate passività ereditarie.

Per la cassazione ricorre l’Agenzia delle entrate, articolando tre motivi; i contribuenti non hanno svolto attività difensiva.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

Con il primo motivo l’Agenzia delle entrate denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 346 del 1990, artt. 23,30 e 32, atteso che la CTR non ha considerato che i contribuenti avevano allegato alla dichiarazione di successione semplici copie fotostatiche della documentazione probatoria concernente le passività, circostanza che esclude la completezza e regolarità della stessa, ed inoltre che la richiesta di integrazione della documentazione costituisce non un obbligo ma una facoltà dell’Amministrazione finanziaria.

La censura è fondata.

In tema di imposta sulle successioni, il regime di deducibilità dei debiti della massa ereditaria – disciplinato dal D.Lgs. n. 346 del 1990, artt. da 20 a 24, – va ricostruito nel senso che tali debiti sono deducibili, purchè sussistano le condizioni previste dall’art. 21, e subordinatamente alle dimostrazioni, integranti sistema di prova legale, prescritte dal D.Lgs. citato, art. 23, (Cass. n. 24547/2007; n. 4176/2019 ed altre),

Inoltre, in tema di termine triennale per il potere di deduzione e dimostrazione delle passività ereditarie, nonchè in tema di facoltà dell’ufficio di invitare il contribuente ad integrare la documentazione, secondo la giurisprudenza di questa Corte “(…) il termine perentorio di tre anni previsto dal D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, art. 23, costituendo un limite inderogabile al potere di deduzione e dimostrazione delle passività, al di fuori della regola generale per cui dette passività debbono essere dedotte e dimostrate fino alla presentazione della denuncia di successione, si riferisce inequivocabilmente non solo alle passività non indicate nella denuncia, ma anche a quelle già indicate, la cui deduzione è quindi subordinata a prove predeterminate da produrre entro termini decadenziali, senza che assuma alcun rilievo la possibilità, prevista dall’art. 30, comma 5, di invitare il contribuente ad integrare la dichiarazione, trattandosi di una mera facoltà dell’Ufficio”(Cass. n. 23479/2017; n. 23430/2007; n. 11147/2006; n. 11268/2001; n. 801/2001; n. 12576/2000).

Erronea, pertanto, appare l’affermazione con la quale il giudice regionale ha ritenuto comunque provate le passività ereditarie sulla base di mere copie fotostatiche sol perchè l’Ufficio ha emesso l’avviso di liquidazione “ben oltre il triennio indicato dal D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 23, quale termine entro il quale le contribuenti avrebbero potuto dimostrare (…) l’esistenza di debiti deducibili”, senza richiedere preventivamente ai contribuenti l’integrazione della documentazione allegata alla dichiarazione di successione e ritenuta inidonea a dimostrare debiti deducibili.

Va considerato, infatti, che una cosa è il termine decadenziale di tre anni dalla data di apertura della successione concesso al contribuente per dimostrare l’esistenza di debiti ereditari, ancorchè non indicati nella dichiarazione di successione, altra cosa è il termine di decadenza dal D.Lgs. citato, art. 27,,previsto per l’accertamento e la liquidazione dell’imposta (principale) di successione, altra cosa ancora è il termine di cui al D.Lgs. citato, art. 30, comma 5, per integrare la documentazione ritenuta dall’Ufficio insufficiente a provare passività, oneri, riduzioni e deduzioni, già dettata dal D.P.R. n. 637 del 1972, art. 16, u.c., per le sole passività, cui non può essere fondatamente ricollegata alcuna illegittimità dell’impugnato avviso di liquidazione.

Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, della L. n. 241 del 1990, art. 3, atteso che la CTR non ha considerato che l’atto impositivo era adeguatamente motivato contenendo la seguente dicitura “pagamento imposta principale passività non ammesse in quanto insufficientemente documentate D.L. n. 346 del 1990, art. 23”.

La censura è fondata.

Le ragioni dell’esclusione delle passività indicate nella dichiarazione di successione sono esplicitate nell’avviso di liquidazione, che pure indica il riferimento normativo costituito dal D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 23, che disciplina la dimostrazione dei singoli tipi di debiti ereditari, l’imprecisione “D.L.” appare, invero, circostanza del tutto trascurabile, ai fini qui considerati, non inducendo insuperabile incertezza sulla disposizione violata, consentendosi al contribuente la possibilità di difesa in giudizio (Cass. n. 17248/2013).

Con il terzo motivo denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione dell’art. 112 c.p.c., atteso che il vizio di ultrapetizione integrato dal riferimento, nella sentenza della CTR, al superamento del termine triennale indicato dal D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 23, comma 4, profilo non dedotto dai contribuenti.

La censura è infondata.

Si trova all’evidenza di un’argomentazione aggiuntiva volta dal giudice di appello per rafforzare la decisione adottata che pone al centro l’omesso invito ai contribuenti di integrare la documentazione allegata alla dichiarazione di successione, adempimento in tesi doveroso per l’Ufficio in sede di controllo della dichiarazione medesima.

In conclusione, all’accoglimento dei primi due motivi di ricorso segue la cassazione della sentenza impugnata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, si impone la decisione nel merito ex art. 384 c.p.c., per cui il ricorso originario delle contribuenti va respinto.

L’evolversi della vicenda processuale giustifica la compensazione delle spese processuali dei gradi di merito, mentre quelle del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte, accoglie il primo ed il secondo motivo di ricorso, rigetta il terzo, cassa la sentenza e decidendo nel merito rigetta l’originario ricorso delle contribuenti. Compensa le spese dei gradi di merito e pone a carco solidale delle contribuenti le spese del presente giudizio che liquida in Euro 1.500,00 per compensi, oltre rimborso delle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 7 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 7 dicembre 2020

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