Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27983 del 07/12/2020

Cassazione civile sez. trib., 07/12/2020, (ud. 29/09/2020, dep. 07/12/2020), n.27983

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Presidente –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – rel. Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

Dott. FANTICINI Giovanni – Consigliere –

Dott. ANTEZZA Fabio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso iscritto al numero 25028 del ruolo generale dell’anno

2013, proposto da:

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore,

domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

Solo Sole s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore;

– intimata –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Toscana, sezione staccata di Livorno, n.

183/23/2012, depositata in data 26 settembre 2012, non notificata;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

29 settembre 2020 dal Relatore Consigliere Putaturo Donati Viscido

di Nocera Maria Giulia.

 

Fatto

RILEVATO

che:

– con sentenza n. 183/23/2012, depositata in data 26 settembre 2012, non notificata, la Commissione tributaria regionale della Toscana, sezione staccata di Livorno, aveva rigettato l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, nei confronti di Solo Sole s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, avverso la sentenza n. 215/06/08 della Commissione tributaria provinciale di Livorno che aveva accolto parzialmente il ricorso proposto dalla società avverso l’avviso di accertamento (OMISSIS) con il quale l’Ufficio, previo p.v.c. del 18 luglio 2006, aveva contestato nei confronti di quest’ultima, esercente attività di commercio, all’ingrosso e al dettaglio, di articoli da mare, per l’anno 2003, maggiori ricavi non dichiarati, ai fini Irpeg, Irap e Iva, nonchè ripreso a tassazione costi indebitamente dedotti, ai fini delle imposte dirette, e detratti, ai fini Iva;

– la CTR – confermando la sentenza di primo grado che, nell’accogliere parzialmente il ricorso, aveva annullato la ripresa a tassazione di maggiori ricavi – in punto di diritto, ha osservato che: 1) come rilevato dalla CTP, i rilievi emersi dalla verifica nei confronti della contribuente erano generici e riguardavano un’impresa commerciale che attraversava un “periodo di crisi”; 2) in particolare, la cassa a debito, non poteva ritenersi elemento da solo sufficiente; l’aumento delle rimanenze, poichè pari a circa il 10% del valore del magazzino, rientrava nel concetto di normalità; l’esposizione verso le banche era la conseguenza di una situazione di carenza di liquidità, la quale anticipava una situazione di crisi più o meno grave; il fondo di ripiano delle perdite era legittimo e il conto infruttifero, pari a circa Euro 65.000,00, non assumeva grande importanza posto a confronto con il volume di affari, di una certa entità, tenuto dalla società contribuente; i bassi utili di esercizio e il basso reddito di impresa erano la conseguenza della crisi; del tutto normale, e, anzi rispondente ai principi di buona amministrazione, era la circostanza che i due soci non percepissero compensi per la loro amministrazione; 3) gli elementi presuntivi posti a fondamento dell’accertamento, in quanto generici e insufficienti, non si profilavano, anche in sede di appello, nè gravi, nè precisi nè concordanti; 4)Ia percentuale di ricarico complessiva, pari al 91%, era adeguata all’attività posta in essere;

– avverso la sentenza della CTR, l’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi; è rimasta intimata la società;

– il ricorso è stato fissato in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., comma 2, e dell’art. 380-bis.1 c.p.c., introdotti dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1-bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197.

Diritto

CONSIDERATO

che:

– con il primo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere la CTR, nel riportarsi pedissequamente a quanto affermato dalla CTP, fondato, allo stesso modo, la decisione su di un elemento di fatto (“periodo di crisi”) mai dedotto dalla contribuente nel ricorso introduttivo, incorrendo nel vizio di ultrapetizione;

– il motivo – con il quale, in sostanza, la ricorrente ha denunciato il vizio di ultrapetizione in cui sarebbe incorso il giudice di primo grado, alla cui motivazione si era rifatta pedissequamente la CTR – si profila inammissibile, difettando in punto di specificità, per non avere l’Agenzia dedotto in ricorso di avere impugnato per vizio di ultrapetizione dinanzi alla CTR la sentenza di primo grado; peraltro, dall’atto di appello – allegato parzialmente al ricorso- non si evince che l’Agenzia abbia censurato, sotto il profilo della extrapetizione, la sentenza di primo grado per avere ritenuto legittimo l’avviso di accertamento essendo l’antieconomicità dell’attività di impresa giustificabile in considerazione del “periodo di crisi” attraversato dalla società; questa Corte ha, al riguardo, affermato che il vizio di ultrapetizione in cui sia incorso il giudice di primo grado determina una nullità relativa della decisione non rilevabile d’ufficio, ma denunciabile solo con gli ordinari mezzi di impugnazione (Cass. n. 11559 del 2000; Cass. n. 10516 del 2009). Tale vizio, pertanto, non può essere utilmente dedotto come mezzo di ricorso per cassazione, neppure se riferito alla sentenza di secondo grado confermativa della precedente, quando non abbia costituito oggetto di motivo di appello (Cass., sez. un., n. 15277 del 2001;n. 10172 del 2015; Cass. n. 24287 del 2018);

-con il secondo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), del D.L. n. 331 del 1993, art. 62-sexies, artt. 2697 e 2729 c.c. per avere la CTR confermato l’annullamento della ripresa a tassazione dei maggiori ricavi, non avendo l’Ufficio effettuato, prima di procedere all’accertamento di tipo analitico-induttivo, una previa valutazione di inattendibilità della contabilità nel suo complesso basata sulla ricorrenza di situazioni di anomalia ingiustificate, ancorchè gli artt. 39, comma 1, lett. d) e 62 sexies cit., non subordino l’accesso a tale tipologia di accertamento ad alcuna previa delibazione di particolari indici di anomalia, configurandosi l’inattendibilità della contabilità un elemento “a valle” dell’attività accertativa analitico-induttiva e non già un suo presupposto (a differenza di quanto previsto per il metodo di accertamento analitico “puro” del D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 2);

– il motivo è inammissibile per le ragioni di seguito indicate;

– va premesso che “in tema di accertamento dei redditi di impresa, l’Ufficio può procedere a quello analitico-induttivo, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, anche in presenza di scritture formalmente regolari, ove la contabilità risulti complessivamente inattendibile sulla base di elementi indiziari gravi e precisi” (cfr. Cass., ord., 12 dicembre 2018, n. 32129; Cass. 11 aprile 2018, n. 8923; n. 6047 del 2020);

– in materia di IVA, l’Amministrazione finanziaria, in presenza di contabilità formalmente regolare ma intrinsecamente inattendibile per l’antieconomicità del comportamento del contribuente, può desumere in via induttiva, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, commi 2 e 3, sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti, il reddito del contribuente utilizzando le incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, incombendo su quest’ultimo l’onere di fornire la prova contraria e dimostrare la correttezza delle proprie dichiarazioni (Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 26036 del 30/12/2015; Cass. sez. 5, Ordinanza n. 27552 del 30/10/2018; n. 6667/20);

– il motivo di ricorso, da un lato, non coglie il decisum – dato che, nella specie, la CTR, lungi dall’avere respinto l’appello dell’Ufficio per mancato espletamento da parte di quest’ultimo, prima di procedere all’accertamento analitico-induttivo, di una valutazione di assoluta inattendibilità della contabilità della società, ha fondato la decisione sulla ritenuta assenza dei requisiti di gravità, precisione e concordanza in ordine agli elementi presuntivi di maggiori ricavi emersi in sede di verifica – e, dall’altro, pur prospettando una violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), D.L. n. 331 del 1993, art. 62-sexies, in realtà tende inammissibilmente ad una nuova interpretazione di questioni di merito, avendo la CTR, con una valutazione in fatto non sindacabile dinanzi al giudice di legittimità, ritenuto non costituire indici presuntivi, gravi, precisi e concordanti dei contestati maggiori ricavi, le circostanze rilevate dai verificatori in quanto, come già osservato dal giudice di primo grado, generiche e riguardanti un’impresa commerciale “in periodo di crisi”; in particolare, ha ritenuto la cassa a debito, da sola elemento insufficiente, l’aumento delle rimanenze, pari a circa il 10% del valore del magazzino, rientrante in un concetto di normalità, la esposizione verso banche, conseguenza di una situazione di carenza di liquidità, i bassi utili di esercizio e il basso reddito di impresa, giustificati dalla situazione di crisi economica attraversata dalla società, il fondo di ripiano delle perdite legittimo e il conto infruttifero, pari a circa Euro 65.000,00, privo di una grande rilevanza, in considerazione del volume di affari, di una certa entità, tenuto dalla società; ugualmente la CTR ha valutato, in questo contesto, rispondente ai principi di buona amministrazione, la mancata percezione da parte dei due soci di compensi per la loro amministrazione; va, al riguardo, ribadito l’orientamento di questa Corte secondo cui “E’ inammissibile il ricorso per cassazione con cui si deduca, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito” (Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 8758 del 04/04/2017; Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 18721 del 13/07/2018);

– con il terzo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2, e art. 36, comma 2, n. 4 per avere la CTR – nell’affermare che “i rilievi posti nei confronti della contribuente apparivano, anche in sede di appello, generici e insufficienti e le presunzioni non erano nè gravi, nè precise, nè concordanti”- omesso di indicare le ragioni sottese alla decisione, aderendo pedissequamente alla decisione di primo grado;

– va precisato che costituisce ius receptum (in termini, Cass. n. 2876 del 2017) il principio secondo cui il vizio di motivazione meramente apparente della sentenza ricorre allorquando il giudice, in violazione di un preciso obbligo di legge, costituzionalmente imposto (art. 111 Cost., comma 6), e cioè dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 (in materia di processo civile ordinario) e dell’omologo D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4 (in materia di processo tributario), omette di esporre concisamente i motivi in fatto e diritto della decisione, di specificare o illustrare le ragioni e l’iter logico seguito per pervenire alla decisione assunta, e cioè di chiarire su quali prove ha fondato il proprio convincimento e sulla base di quali argomentazioni è pervenuto alla propria determinazione, in tal modo consentendo anche di verificare se abbia effettivamente giudicato iuxta alligata et probata; invero, l’obbligo del giudice “di specificare le ragioni del suo convincimento”, quale “elemento essenziale di ogni decisione di carattere giurisdizionale” è affermazione che ha origine lontane nella giurisprudenza di questa Corte e precisamente alla sentenza delle Sezioni unite n. 1093 del 1947, in cui la Corte precisò che “l’omissione di qualsiasi motivazione in fatto e in diritto costituisce una violazione di legge di particolare gravità” e che “le decisioni di carattere giurisdizionale senza motivazione alcuna sono da considerarsi come non esistenti”. Pertanto, la sanzione di nullità colpisce non solo le sentenze che siano del tutto prive di motivazione dal punto di vista grafico (che sembra potersi ritenere mera ipotesi di scuola) o quelle che presentano un “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e che presentano una “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (cfr. Cass. S.U. n. 8053 del 2014; conf. Cass. n. 21257 del 2014), ma anche quelle che contengono una motivazione meramente apparente, del tutto equiparabile alla prima più grave forma di vizio, perchè dietro la parvenza di una giustificazione della decisione assunta, la motivazione addotta dal giudice è tale da non consentire “di comprendere le ragioni e, quindi, le basi della sua genesi e l’iter logico seguito per pervenire da essi al risultato enunciato” (cfr. Cass. n. 4448 del 2014), venendo quindi meno alla finalità sua propria, che è quella di esternare un “ragionamento che, partendo da determinate premesse pervenga con un certo procedimento enunciativo”, logico e consequenziale, “a spiegare il risultato cui si perviene sulla res decidendi” (Cass. cit.; v. anche Cass., Sez. un., n. 22232 del 2016 e la giurisprudenza ivi richiamata; v. da ultimo Cass. 22949 del 2018). Come da ultimo precisato da questa Corte, “ricorre il vizio di omessa o apparente motivazione della sentenza allorquando il giudice di merito ometta ivi di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento” (Cass. n. 9105 del 2017; Cass. n. 25456 del 2018; n. 22949 del 2018);

– peraltro, in tema di processo tributario, è nulla, per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 36 e 61, nonchè dell’art. 118 disp. att. c.p.c., la sentenza della commissione tributaria regionale completamente carente dell’illustrazione delle critiche mosse dall’appellante alla statuizione di primo grado e delle considerazioni che hanno indotto la commissione a disattenderle e che si sia limitata a motivare “per relationem” alla sentenza impugnata mediante la mera adesione ad essa, atteso che, in tal modo, resta impossibile l’individuazione del “thema decidendum” e delle ragioni poste a fondamento del dispositivo e non può ritenersi che la condivisione della motivazione impugnata sia stata raggiunta attraverso l’esame e la valutazione dell’infondatezza dei motivi di gravame (Cass. n. 15884 del 2017). Deve considerarsi nulla la sentenza di appello motivata “per relationem” alla sentenza di primo grado, qualora la laconicità della motivazione non consenta di appurare che alla condivisione della decisione di prime cure il giudice d’appello sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame, previa specifica ed adeguata considerazione delle allegazioni difensive, degli elementi di prova e dei motivi di appello (Cass. n. 22022 del 2017);

– nella specie, la CTR, lungi dall’aderire meramente alla motivazione del giudice di prime cure, ha illustrato chiaramente il percorso logico posto a fondamento della sua decisione, esaminando il complesso degli elementi indiziari fondanti l’atto impositivo e ritenendo i medesimi non rivestire i caratteri di gravità, precisione e concordanza in quanto generici ed insufficienti e, comunque, giustificati dalla concreta situazione di “crisi economica” attraversata dalla società contribuente;

– in conclusione, il ricorso va rigettato;

– nulla sulle spese del giudizio di legittimità, essendo rimasta la società intimata.

PQM

la Corte:

rigetta il ricorso;

Così deciso in Roma, il 29 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 7 dicembre 2020

 

 

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