Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 27974 del 07/12/2020

Cassazione civile sez. trib., 07/12/2020, (ud. 10/09/2020, dep. 07/12/2020), n.27974

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – rel. est. Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. R.G. 1989/2014, proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello

Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro

I.G., rappresentato e difeso, giusta mandato a margine

al controricorso, dall’avv.to Generoso Pagliarulo, presso il cui

studio è elettivamente domiciliato, in Serino, alla Via P. Roberto

n. 96, domicilio in Roma, P.zza Cavour, presso la Cancelleria della

Corte di Cassazione;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 173/5/2013 della Commissione tributaria

regionale della Campania, depositata il 30/05/2013 e non notificata;

udita la relazione della causa svolta nella udienza camerale del

10/09/2020 dal Consigliere Dott.ssa Rosita D’Angiolella.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. I.G., a seguito di notifica di avviso di accertamento, relativo all’anno d’imposta 2004, con il quale l’Agenzia delle Entrate aveva determinato maggiori redditi di capitale, recuperando a tassazione gli importi di alcune operazioni bancarie ritenute non giustificate, propose ricorso innanzi alla Commissione tributaria provinciale di Avellino, eccependo l’illegittimità formale dell’avviso in quanto emesso senza la comunicazione e della prescritta autorizzazione all’accertamento bancario e senza adeguata motivazione, nonchè infondatezza dell’accertamento fiscale per erroneità del calcolo.

La Commissione tributaria provinciale di Avellino, accoglieva il ricorso del contribuente ritenendo “l’illegittimità delle indagini bancarie ai sensi del D.Lgs. n. 600 del 1973, ex art. 32, atteso la retroattività della nuova formulazione dello stesso intervenuta con la L. n. 311 del 2004 che regola l’avvenire” (così, sentenza della CTR nella parte riguardante il “fatto”).

2. L’Agenzia delle entrate proponeva appello avverso tale sentenza che veniva respinto dalla Commissione tributaria regionale della Campania (di seguito, CTR). Con la sentenza in epigrafe, i secondi giudici, hanno affermato che: “L’appello è infondato. L’indagine bancaria, avendo come suo mezzo una invasione della sfera privata del contribuente, ha la necessità di essere preventivamente autorizzata dalla Direzione Regionale delle Entrate e ciò al fine di garantire la massima correttezza del procedimento di accertamento tributario. A ciò aggiungasi che il D.P.R. n. 600 del 1973, novellato art. 32, trova la sua applicabilità dalla sua entrata in vigore, non potendosi ammettere una sua applicazione retroattiva in materia tributaria. Se ciò è non può revocarsi in dubbio che illegittimamente l’Ufficio ha proceduto ad accertamenti invasivi per un periodo di imposta per il quale non poteva trovare applicazione il novellato art. 32 cit.”.

3. L’Agenzia delle entrate ricorre per la cassazione della sentenza della CTR affidandosi a tre motivi.

4. I.G. ha resistito con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Col primo motivo di ricorso – così rubricato: “Violazione dell’art. 324 c.p.c. – violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4 – Violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, n. 7, art. 33, comma 6 e art. 42 (in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4)” – deduce la violazione e/o falsa applicazione di legge nonchè la nullità della sentenza e del procedimento, per aver la CTR affermato l’obbligatorietà della preventiva autorizzazione per gli accertamenti bancari, sebbene tale concetto non solo fosse pacifico e incontestato, ma risultasse affermazione generica ed astratta, priva di motivazione e non comportante alcuna statuizione; assume, altresì, che, laddove i secondi giudici avessero inteso statuire sul punto, vi sarebbe la nullità del procedimento, in quanto sulla questione si è formato giudicato interno, considerato che non v’è stata impugnazione da parte del contribuente nonostante i giudici di primo grado hanno pronunciato specificamente sul punto accertando la sussistenza dell’autorizzazione. All’uopo, la ricorrente ha riportato in ricorso il passo della motivazione della sentenza della CTP (che così dispone: “non sussiste il dedotto vizio di motivazione per mancata allegazione e/o produzione della richiesta autorizzazione ad effettuare indagine bancarie bastando ai fini della legittimità della verifica fiscale che essa autorizzazione sia stata preventivamente autorizzata… quindi tutte le eccezione di nullità per carenza di motivazione devono essere respinte.”, ed ha indicato le pagine delle difese dell’appellato contribuente nelle quali si conclude per il rigetto dell’appello con conferma della sentenza di primo grado (v. ricorso in cassazione pag. 3, dove sono indicate le conclusioni dell’appellato contribuente come riportate alle pagg. 6, ultima riga e 7, righe 1 e 2 dell’atto di costituzione in appello).

Col secondo motivo – così rubricato: “Violazione dell’art. 112 c.p.c. per extra petizione – violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32,1 come novellato dalla L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 402, lett. a (in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4)”, la ricorrente deduce l’erroneità della sentenza per aver ritenuto l’irretroattività della norma sull’accertamento bancario come novellata e per aver pronunciato extra petitum annullando interamente l’avviso anche con riguardo ai versamenti ingiustificati, mai contestati dal contribuente.

Con il terzo mezzo, l’Agenzia delle entrate denuncia nuovamente la violazione del D.P.R. n. 546 del 1992, art. 32, deducendo che tale norma consentiva già prima del 2005 le indagini bancarie sui conti di imprenditori e professionisti, sicchè l’Ufficio non avrebbe fatto illegittima applicazione del D.P.R. cit., art. 32.

2. Il primo motivo di ricorso è inammissibile per carenza di interesse.

3. Come si ricava dalla parte narrativa della sentenza impugnata, già la CTP aveva accolto il ricorso respingendo i rilievi formali sollevati dal contribuente riguardanti l’avviso di accertamento (comunicazione dell’autorizzazione e motivazione dell’avviso) e affermando l’illegittimità delle indagini bancarie effettuate ai sensi del D.Lgs. 29 settembre 1973, n. 600, ex art. 32, per l’irretroattività della disposizione intervenuta con la L. 30 dice 2004, n. 311.

Che la CTR non abbia pronunciato, neppure implicitamente, sulla questione formale della necessità dell’autorizzazione a procedere all’accertamento bancario, è evidente dai complessivi passaggi della motivazione della sentenza impugnata, ove il riferimento alla necessità della preventiva autorizzazione bancaria è posto solo come una premessa (v. primo capoverso della motivazione), enucleandosi, poi, inequivocabilmente la ratio decidendi nel quarto capoverso, ove è affermato: “se ciò è, non può revocarsi in dubbio che illegittimamente l’Ufficio ha proceduto ad accertamenti invasivi per un periodo di imposta per il quale non poteva trovare applicazione il novellato art. 32 cit. da tanto ne consegue la conferma della decisione di primo grado ed il rigetto dell’appello”. E’ tale statuizione, dunque, a costituire il decisum della sentenza impugnata, mentre l’altra questione riguardante l’autorizzazione costituisce obiter dictum; peraltro, nonostante fosse stata oggetto di accertamento da parte del giudice di primo grado, essa non è stata oggetto di specifica impugnazione da parte del contribuente.

In altri termini, poichè non è individuabile una ratio decidendi della decisione nella mera statuizione che l’indagine bancaria necessiti di autorizzazione, sulla cui esistenza peraltro, in fatto, vi era stato accertamento del giudice di primo grado non impugnato dal contribuente, il motivo è inammissibile per carenza di interesse.

4. Il secondo ed il terzo motivo di ricorso, che vanno esaminati congiuntamente per la loro connessione logica e giuridica, sono fondati e vanno accolti per quanto di seguito esposto.

E’ pacifico tra le parti che, con l’avviso di accertamento, l’Ufficio aveva recuperato a tassazione una serie di operazioni bancarie (sia versamenti, che prelevamenti) relative al conto corrente dell’avv.to I., quali compensi conseguiti nella sua attività di libero professionista, così come, all’epoca dell’accertamento (come pure all’epoca della pubblicazione della sentenza della CTR, del 30/05/2013), consentiva l’originaria previsione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, secondo cui “alle stesse condizioni sono altresì posti come ricavi o compensi a base delle stesse rettifiche ed accertamenti, se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e semprechè non risultino dalle scritture contabili, i prelevamenti o gli importi riscossi nell’ambito dei predetti rapporti od operazioni”.

Tuttavia, con la sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, tale disposizione è stata dichiarata illegittima limitatamente alle parole “o compensi”, ritenendosi che la presunzione posta dalla norma con riferimento ai compensi percepiti dai lavoratori autonomi (e quindi dei liberi professionisti come gli avvocati) fosse lesiva del principio di ragionevolezza, nonchè della capacità contributiva, essendo arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale e che questa, a sua volta, sia produttivo di reddito.

5. Di conseguenza, essendo venuta meno, per effetto della pronuncia d’incostituzionalità, l’equiparazione tra attività d’impresa ed attività professionale, è definitivamente caduta la presunzione di cui alla disposizione previgente – di imputazione dei prelevamenti operati sui conti correnti bancari ai ricavi conseguiti nella propria attività dal lavoratore autonomo o dal professionista intellettuale, spostandosi sull’Amministrazione erariale l’onere di provare che i prelevamenti siano stati utilizzati dal professionista per acquisti inerenti alla produzione del reddito col conseguimento di ricavi.

Viceversa, resta invariata la presunzione legale posta dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, con riferimento ai versamenti effettuati sul conto corrente dal professionista o lavoratore autonomo (v. Sez. 6-5, Ordinanza n. 7951 del 30/03/2018, Rv. 647721-01; Sez. 5, Ordinanza n. 22931 del 26/09/2018, Rv. 650334-01), sicchè questi è onerato di provare in modo analitico l’estraneità di tali movimenti ai fatti imponibili, essendo venuta meno, all’esito della sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014 l’equiparazione logica tra attività imprenditoriale e professionale ma limitatamente ai prelevamenti (legata all’unica modifica di carattere sostanziale apportata al testo previgente della L. n. 311 del 2014, art. 32 dall’art. 1, comma 402, riguardo all’equiparazione dei compensi ai ricavi).

6. In considerazione di tali principi, sebbene i giudici di appello non hanno errato ad affermare la irretroattività della novella di cui alla L. n. 311 del 2004, stante gli effetti sostanziali derivanti dalla novella, avente effetto dall’anno 2005, riguardante l’equiparazione tra compensi e ricavi, è pur vero che le ulteriori modifiche al D.P.R. cit., art. 32, n. 7, apportate dalla legge citata, hanno carattere procedimentale e ben possono applicarsi all’accertamento del 2004, essendo le indagini bancarie su conti correnti degli imprenditori e professionisti esperibili già prima del 2005.

Ne consegue che la CTR avrebbe dovuto ritenere l’accertamento illegittimo nella parte presuntiva relativa ai versamenti, ove il contribuente non abbia dimostrato di averne tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non abbiano rilevanza allo stesso fine.

7. Il secondo e terzo mezzo vanno, dunque, accolti e la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla CTR della Campania, in diversa composizione, affinchè proceda ad un nuovo esame di merito e, quindi, alla valutazione della prova contraria, ove offerta dal contribuente, idonea a superare la presunzione.

8. La CTR in sede di rinvio è tenuta a provvedere anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso. Accoglie il secondo ed il terzo motivo di ricorso; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti, con rinvio, nei termini indicati in motivazione, alla CTR della Campania, in diversa composizione, anche in ordine alle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della V sezione civile della Corte di Cassazione, il 10 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 7 dicembre 2020

 

 

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